CRONACHE
ECONOMICHE
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C R O N A C H E
ECONOMICHE
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P r o f . D o t t . A R R I G O B O R D I N
Prof. Avv. A N T O N I O C A L A N D R A
Dott. C L E M E N T E C E L I D O N I O
P r o f . D o t t . S I L V I O G O L Z I O
P r o f . D o t t . F R A N C E S C O
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D o t t . G I A C O M O F R I S E T T I D i r e t t o r e r e s p o n s a b i l eS O M M A R I O
Panorama dei mercati . . .
L'état et la formation de
l'épar-gne {H. Laufenburger) . .
Praticoltura piemontese (£.
pag. 4
Battistelli)
Il dissidio fra strada e rotaia
{E. Ehrenfreund)
L'economia montana sotto una
grave minaccia: malattia del
castagno (A. Cotta) . . .
Notiziario estero
Brasile terra dell'avvenire (P.
Carrara Lombroso)....
Borsa compensazioni . . . .
Il mondo offre e chiede . .
Breve storia della seta: il
ri-nascimento (A. Pacchioni)
Catalogoteca : Note di tecnica
ferroviaria (E. Colla) . . .
Produttori italiani
Movimento anagrafico . . . .
» 11» 16
» 17
» 20
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» 23
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V .
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ITALIA. — Al solito il settore dei prodotti
agricolo-alimentari è il più movimentato. I cereali hanno
esaurito la loro tendenza sostenuta ed il mercato
relativo si è stabilizzato. I risi, che invece hanno
sempre registrato delle flessioni di prezzo, persistono
nel tono depresso: l'esportazione non compensa il
ridotto consumo interno. Per motivi stagionali si
assiste alla cedenza delle quotazioni per: legumi,
ortaggi, frutta, uova, íatte e formaggi. L'andamento
del burro si discosta da quello degli altri caseari
perchè, in occasione delle feste pasquali, la domanda
tende a crescere. La crisi vinicola non accenna a
dileguare. Stazionario il mercato oleario.
I mercati del bestiane sono divenuti piuttosto
so-stenuti: i rincari dei suini, in particolare, hanno
trascinato dietro quelli del lardo, dello strutto, delle
carni insaccate, ecc.
Per il noto decreto catenaccio che ha inasprito la
pressione fiscale su alcuni beni di consumo, sono
aumentati i prezzi dello zucchero e dei coloniali.
Nel settore tessile si delinea un attenuarsi della
•sostenutezza dei principali mercati delle materie
prime. Il comportamento mercantile dei cotoni
per-mane incerto e variabile a seconda delle
prove-nienze. Le lane hanno invece segnato alcuni ribassi
modesti.
Nuovamente in generale depressione il mercato
delle pelli gregge e conciate. Nel settore dei
me-talli. l'unica eccezione al tono fiacco è
rappresen-tata dallo stagno e dalla banda stagnata. Nel
set-tore dei combustibili e carburanti, da un lato si
assiste al netto cedimento delle quotazioni dei
car-boni, dall'altro al rincaro della benzina, del
petro-lio e del gasopetro-lio, anche per motivi fiscali.
ESTERO. — Il ritorno alla normalità dei mercati
mondiali delle principali materie prime sembra
porre nuovamente sul tappeto la questione della
loro regolamentazione con interventi artificiali sulle
libere forze economiche.
Attualmente sono in funzione o in discussione
cin-que accordi di regolamentazione: l'accordo sul
grano, che ne stabilizza direttamente il prezzo
en-tro certi limiti; gli accordi proposti sullo stagno e
le lane, che agirebbero indirettamente sui prezzi
relativi con acquisti e vendite apposite; gli accordi
sul tè e sullo zucchero, in esistenza formale ma non
pratica, basati sulla restrizione della produzione e
dell'esportazione. Per la gomma ed il cotone,
ap-positi comitati sono pronti all'intervento qualora
la congiuntura lo richieda. Inoltre, la politica dei
prezzi di sostegno perseguita dagli Stati Uniti —
il massimo mercato mondiale — costituisce un'altra
fonte importante di inframmittenze nel gioco della
legge di domanda e di offerta.
L ' E T A T
ET LA FORMATION DE L'EPARGNE
Prima di partire per il Messico, ove si r e c a perun corso di lezioni e conferenze in scuole di eco-nomia e di diritto, il nostro collaboratore prof. Laufenburger ha consegnato a Cronache
Economi-che uno dei suoi compendiosi panorami della
si-tuazione finanziaria europea, trattando i! tema dell'azione statale in rapporto al problema del risparmio.
Le necessità della ricostruzione e degli investi-menti sono strettamente connesse con i problemi del consumo e del risparmio, della privata inizia-tiva e del dirigismo statale. Queste interferenze vengono sintetizzate e chiarite in cenni che sem-plificano ed esemsem-plificano la situazione; la quale, se può forse a p p a r i r e complessa nelle sue mani-festazioni, è di fatto imperniata sull'assiomatica definizione del capitale e della sua formazione. Non si può c o m p o r r e il primo se non con la r i -nuncia individuale ad una p a r t e dei redditi.
L'illusorietà del risparmio pubblico è dovuta unicamente al misconoscimento della evidente con-siderazione che il risparmio collettivo non è che la somma delle contrazioni del consumo da p a r t e dei singoli.
L'azione statale può r e g o l a r e il ritmo dell'acco-mulazione d ; i redditi non consumati, oun in tutto o in p a r t e pianificare gli investimenti, può dispor-re per il finanziamento delle ricostruzioni, può li-m i t a r e le riserve della capitalizzazione privata e aziendale con le tassazioni che deviano le correnti dell'autofinanziamento e le regolano con u n i tec-nica di impieghi nel settore pubblico; p e r m a n e però il fondamentale canone dell'impossibilita di c r e a r e il risparmio senza il sacrificio individuale. Vi è soltanto la possibilità di r i c o r r e r e ai suc-cedanei del risparmio, all'espansione del credito bancario, all'emissione di moneta per c o p e r t u r a di situazioni deficitarie, all'accensione di prestiti vo-lontari o imposti.
Queste misure hanno differenti risultati e corrispondono a specifici scopi e così rendono i m m e -diatamente liquida l'anticipazione di una auspi-cata ripresa di affari; scontano, con l'aumento dei prezzi e con la distorsione del risparmio dagli im-pieghi a reddito fisso, l'emergenza dell'inflazione; tanno convergere, con la libera adesione, che di-scrimina le convenienze o còn la forzosa coatti-vità, le r i s e r v e verso determinati utilizzi.
S o l t a n t o l ' i n i z i a t i v a può essere, ad ogni modo 1 a r b i t r a della p r o d u z i o n e di capitali. D a l l ' e s a m e d e i p r o g r a m m i e d e i m e t o d i adottati d a i v a r i S t a t i d e l l ' o c c i d e n t e e dell'oriente, liberisti i n t e r v e n t i s t i e t o t a l i t a r i , l ' a u t o r e t r a e le sue con-clusioni. V i sono d i f f i c o l t à a finanziare le a t t r e z z a t u r e delle singole e c o n o m i e p e r la deficenza delle d i -sponibilità del r i s p a r m i o . P e r p o r r e r i m e d i o a tale s q u i l i b r i o t r a le necessita e le p o s s i b i l i t à o c c o r r e p r e s t a b i l i r e le c o n -d i z i o n i in cui l'azione i n -d i v i -d u a l e s i a in g r a -d o 01 e s p l i c a r s i e f f i c a c e m e n t e e sia t r a t t a ad o f f r i r e ali-q u o t e di r i s p a r m i o . P e r c h è ciò a v v e n g a è n e c e s s a r i o un p e r i o d o di pace, di stabilità m o n e t a r i a e di r i c o s t r u z i o n e e c o -nomica.
par HENR Y LA UFEi\ lì URGER
De J. B. Say à J. M. Keynes, la définition de
l'épargne n'a pas varié. « C'est l'accumulation des
épargnes qui forme les capitaux», dit le premier.
' Autant que nous sachions, — réplique le second
personne ne conteste que l'épargne signifie l'excès
du revenu sur la dépense pour la consommation».
Le prodigieux équipement de l'industrie, du
com-merce, des transports a été assuré par l'initiative
individuelle. Dans une première phase, les
parti-culiers ont affecté leur revenu excédentaire soit
directement aux émissions d'actions et d'obligations,
soit indirectement aux mêmes opérations à travers
les comptes en banque. Les dividendes et intérêts
des placements ont assuré, en seconde phase, la
continuité de ce processus d'investissement.
L'auto-financement des entreprises qui assure le maintien
en état, la modernisation et l'extension de
l'outil-lage, ne déroge pas à la règle. Car les fonds
affectés à l'équipement sont constitués grâce à une
renonciation des actionnaires à la distribution d'une
partie des dividendes.
De nos jours, l'Etat a la prétention de se
sub-stituer à l'initiative individuelle pour " diriger " les
investissements dans le cadre de plans de longue
haleine ou pour "financer" la reconstruction. Mais
est-ce lui qui forme les capitaux, est-ce l'épargne
publique qui se substitue à l'épargne privée?
Pour répondre à cette question, une distinction
s'impose entre les régimes simplement
intervention-nistes et les régimes totalitaires.
taxe spéciale la part des bénéfices non distribués.
Visiblement la France tend à réagir contre le
ra-lentissement de l'activité en encourageant la
distri-bution de revenus disponibles individuellement. Dans
les deux cas. l'intervention de l'Etat ne peut avoir
que des effets limités. Toute l'attention se concentre
donc sur la technique du financement du secteur
public. Sur ce terrain, il convient d'exclure les
res-sources monétaires provenant du plan Marshall qui
n'ont aucun rapport avec l'épargne. Les
importa-teurs versent au Trésor la contrepartie en
mon-naie nationale des dons et prêts américains; l'Etat
l'affecte soit à l'équipement soit à la reconstruction,
à moins qu'il ne l'utilise
— à titre tout à fait
exceptionnel — pour amortir la dette envers la
Banque d'émission et pour réduire l'inflation qui,
par ailleurs, est neutralisée per l'accroissement de
la capacité de production.
Les ressources nationales de l'équipement des
industries publiques et de la reconstruction se
ré-partissent sur l'emprunt et sur l'impôt. Le budget
français de 1950 prévoit l'émission d'emprunts
pu-blics jusqu'à concurrence de 130 milliards. Pour
commencer, l'Etat dont le crédit est singulièrement
contesté, n'osant pas paraître sur le marché, c'est
le Crédit national, établissement de crédit
semi-public, qui fait appel à l'épargne par un emprunt
comportant l'attrait de lots. Parallèlement les
grou-pements privés de sinistrés mobilisent des capitaux
pour accélérer la reconstruction régionale. Dans les
deux cas, c'est l'initiative privée qui décide si et
dans quelle mesure il faut faire confiance aux
pouvoirs publics pour procéder à des
investisse-ments.
En France, qualque deux cents milliards
sup-plémentaires sont demandés soit à des impôts
nou-veaux (bénéfices non distribués des sociétés,
trans-porteurs routiers), soit à des majorations d'impôts
anciens (décimes de la taxe à la production et des
droits d'enregistrement). S'agit-il dans la dernière
hypothèse d'épargne publique? Certainement pas.
Au lieu d'affecter à la formation de capitaux leurs
revenus excédentaires, les Français soumis aux
im-pôts supplémentaires renoncent, par la force des
choses et non plus volontairement, à certaines
dé-penses de consommation pour autant que ces
im-pôts majorent les prix.
Même dans le régime totalitaire de la Russie
soviétique, le financement du plan quinquennal
re-pose, pour une partie importante, sur l'épargne
privée.
Sans doute le budget qui assume toute la charge
des investissements dans l'industrie, dans
l'agricul-ture et dans les transports, puise une partie des
ressources, assez réduite il est vrai, dans les
" trusts ", mais il s'agit là de « bénéfices non
distri-bués». En second lieu, l'impôt sur le chiffre
d'af-faires qui se traduit par une restriction obligatoire
de certaines consommations de luxe et de confort,
pourvoit, dans une certaine mesure, aux dépenses
d'équipement. Mais l'U.R.S.S. fait une place de plus
en plus large aux emprunts et ceux-ci sont
souscrits, comme dans les pays occidentaux, par
l'excédent des revenus sur la consommation. La
hiérarchie très distendue des traitements, d'une
part, les bénéfices des exploitations individuelles
des kolkhoziens et les ressources du marché
paral-lèle d'autre part, constituent les éléments
essen-tiels de cette épargne privée, dont les " vertus"
sont récompensées par l'attribution des lots
atta-chés à la plupart des emprunts de l'Etat.
L'épargne continue donc à être l'une des
préro-gatives essentielles de l'individualisme et de la
per-sonnalité humaine. Si les collectivités peuvent
s'ap-proprier d'autorité d'une fraction du pouvoir d'achat
normalement destiné à la consommation des
parti-culiers, elles n'ont pas encore trouvé le moyen de
"fabriquer" l'épargne. Sur ce terrain, l'initiative
privée reste, en dépit des contraintes, l'arbitre de
la formation des capitaux.
Ce que l'Etat peut faire et ce qu'il fait souvent,
c'est de recourir a un succédané de l'épargne.
Comme les banques procèdent périodiquement à
une expansion de crédit qui se réflète dans
l'aug-mentation des dépôts, le Trésor peut demander à
la Banque d'émission des moyens de payement
comme suite à une ouverture de crédit, à moins
qu'il n'ait la faculté directe de créer de la monnaie.
Il existe entre les deux procédés une différence
fondamentale. L'expansion du crédit bancaire est
presque toujours anticipative, elle est faite dans
l'attente d'une reprise des affaires qui assure le
remboursement des avances, le processus est limité
par la préoccupation de sauvegarder la liquidité.
Lorsque l'Etat recourt à la Banque d'émission,
cela peut être pour faire face à des dépenses
pro-ductives. Mais même dans ce cas l'équilibre risque
de se rompre pour autant que la productivité (en
services) ne s'accompagne pas toujours, et
s'ac-compagne de plus en plus rarement, d'une
renta-bilité assurant directement le remboursement des
avances. Le plus souvent le concours de la Banque
d'émission sert à faire face à une augmentation
des dépenses courantes ou à couvrir un déficit
budgétaire. Dans ce cas, l'inflation qui apparaît
comme succédané de l'épargne va à l'encontre de
celle-ci en ce sens que la hausse des prix augmente
les besoins nominaux de capitaux et qu'elle
décou-rage certains placements notamment ceux en
va-leurs à revenu fixe.
Les difficultés qu'éprouvent aujourd'hui les Etats
à financer leur programme d'équipement et de
restauration s'expliquent par le rétrécissement de
la formation et par la réticence de l'offre de
l'épar-gne privée à la suite de la seconde vague d'inflation
qui a occasionné dans la plupart des pays une perte
de substance dont il faudra, pour se remettre, une
longue période de paix, de stabilité monétaire et
de reconstruction.
P R A T I C O L T U R A
PIEMONTESE
Il prato è la più indispensabile delle colture e
l'al-levamento zootecnico la più preziosa delle imprese,
nell'ampio quadro dell'agricoltura. L'efficienza
eco-nomica della quale normalmente si misura sul
bi-nomio foraggio-bestiame e sono perciò
maggior-mente vitali le aziende, e progredite le plaghe, che
destinano alle piante prative la maggiore possibile
superficie coltivata e la maggiore possibile
assi-stenza colturale.
Un appezzamento abbandonato a sè stesso si
ri-veste di una cotica erbosa ed in questa spontanea
alterno. L'ideale non è evidentemente in queste due
posizioni estreme di insediamento.
Non lo può essere nel prato stabilmente fuori
rotazione, perchè un appezzamento sposato ad una
medesima coltura subisce una autointossicazione
di accumulo che si rivela nel declino produttivo
e, nel caso specifico, nella scomparsa delle più
esi-genti erbe foraggere della grande famiglia delle
leguminose. La stessa invincibile riluttanza delle
erbe prative a ritornare a distanza brevissima di
tempo sullo stesso terreno ne costituisce la
con-Abbondante caociata maggenga di un medicina di due anni.
tendenza del suolo all'inerbimento risiede l'origine
e la natura del prato stabile. L'opposto del quale
è il prato temporaneo, detto anche alterno, perchè
appunto la sua durata è limitata nel tempo e si
in-quadra, con altre colture, nello spazio.
La praticoltura piemontese è rappresentata da
prati stabili e prati alterni. Quelli superano
note-volmente questi, in entità complessiva di territorio,
ad onta della constatata inferiorità produttiva.
Evi-dentemente ci deve essere una ragione fisica e
psi-cologica, l'una legata all'ambiente e l'altra alla
tradizione, a determinarne la prevalenza e la
per-sistenza.
1 primi hanno, da un lato, il vantaggio di liberare
l'agricoltore dell'annuale e periodica necessità
del-l'impianto, ma, dall'altro, hanno il torto di dare una
massa foraggera più o meno mediocre ad onta delle
circostanze di irrigabilità del suolo e di piovosità
del cielo.
I secondi quando sono inquadrati nella rotazione
quadriennale sono troppo effimeri per poter
con-sentire lo sfruttamento della fertilità del terreno e
della vitalità delle erbe. Nella pianura risariva la
loro vita non supera di solito i 12 mesi e la loro
funzione è limitata al taglio di maggio, per la
pra-tica impossibilità di conciliare la praticoltura col
sistema tipico di irrigazione della risaia.
La praticoltura piemontese oscilla dunque fra la
senilità del prato stabile e la precarietà del prato
ferma inequivocabile. Gli insuccessi della ricostitu
zione dei prati sono imputabili appunto a questa
clamorosa ripugnanza delle erbe foraggere alla
pro-pria stanza, cui si pone tuttavia rimedio
interca-lando una lunga successione di coltivazioni
cerea-licole e liquidatici, tra lo squarcio del prato
vecchio e la semina del prato nuovo.
Pure un'altra considerazione depone contro
que-sta anacronistica qualità di coltura ed è la
pro-duzione curvilinea delle essenze prative a ciclo
poliennale che costituiscono normalmente la sua
cotica erbosa. In qualunque curva di produzione
si distìnguono, come ad es. nelle colture arboree,
fasi di incremento, di maturità e di decremento.
Ora. mentre nessuna coltura arborea è lasciata
sopravvivere alla sua senilità economica, il prato
stabile viene invece fatto durare all'infinito nella
illusione che il rinnovamento possa effettuarsi da
sè. tramite la disseminazione spontanea delle erbe.
Effettivamente ciò avverrebbe se si riuscisse con le
scarificature, le calcitazioni e le concimazioni
orga-nico-minerali, a ripristinare nel terreno le migliori
condizioni di abitabilità. Purtroppo però l'apertura
della cotica erbosa agli atmosferili, ai correttivi, e
ai concimi è meno di un pannicello caldo, il quale
potrà se mai prolungare la vita del prato, non
certo ridargli il dono della giovinezza e della
supe-riorità.
comun-que effimero, perchè se la stabilità è una rovina,
l'instabilità non è da meno.
Le essenze prative a ciclo breve, capitanate dal
trifoglio pratense, nella serie delle leguminose, e dal
lolium italico, in quella delle graminacee,
parteci-pano necessariamente alla formazione del prato
annuo, dal quale l'agricoltura trae due-ire sfalci
all'anno, compatìbilmente con le condizioni
igro-termiche dell'ambiente. Senonchè l'annuale
neces-sità della semina congiura — allo stato attuale dei
prezzi dei semi prativi — contro la convenienza
economica della coltura, specialmente nei casi in
cui la sua produzione si limita al pascolo nell'anno
dell'impianto e al taglio maggengo nell'anno
suc-cessivo.
Depone poi a suo sfavore la necessità di
trasemi-nare i semi nel grano allo scopo di guadagtrasemi-nare
tempo e di proteggere l'infanzia delle erbe, perchè
la consociazione con il grano, invariabilmente
af-follato, porta al soffocamento e quindi alla
morta-lità delle più tenere piantine. Quando la coltura
prativa non è fitta non è nemmeno abbondante e
pregiata la sua produttività.
Il meglio sta perciò in mezzo: nel prato
polien-nale in rotazione, riunendo in sè le prerogative
na-turali dell'uno e la natura artificiale dell'altro.
Po-liennale però di quel tanto che non allunghi
ecces-sivamente il turno della rotazione e non oltrepassi
l'età del tornaconto che di solito è limitata a 3-4
anni.
Da un prato siffatto — notevolmente produttivo
e pregiato — l'agricoltura sì assicura vantaggi
d'ordine agronomico ed economico, innegabilmente
imponenti. Basterebbe pensare all'apporto di
ferti-lità ch'esso reca al terreno, con la piccola
circola-zione della materia organica — residui radicali e
fogliari — e con la grande circolazione del letame
— - conseguenza dell'incremento del bestiame — per
giudicarne la superiore utilità e l'importa?iza.
E' ben vero che al foraggio elementare — erba,
silos, fieno, l'allevatore accoppia i mangimi
ecmcen-trati — residui della grande industria degli olii
commestibili, delle industrie alimentari, ecc., ma è
altrettanto vero che non c'è felice utilizzazione di
companatico in assenza o in scarsità di pane. E il
pane, nel caso specifico dell'alimentazione
zootec-nica, è rappresentato dal foraggio prativo,
qua-lunque sia il suo stato fisico, comunque sia la sua
natura.
Se ciò malgrado la praticoltura piemontese è
cri-stallizzata nella sua plurisecolare impostazione, se
gli agricoltori hanno per il prato stabile e per
quello annuale una venerazione che si trasmette
da padre in figlio, la colpa è attribuibile alla
tradi-zione e all'ignoranza. L'una non libera l'individuo
dalla sua forma mentis, l'altra lo racchiude
addi-rittura nel bozzolo della rinuncia. Eppure
baste-rebbe che spingesse altrove lo sguardo per
capaci-tarsi del miracolo compiuto dalla praticoltura
po-liennale, da quella cioè inquadrata negli
avvicen-damenti a lungo turno. L'erba medica che si
affer-ma nelle terre asciutte, il trifoglio ladino, in
con-sociazione con graminacee, che trionfa nelle terre
irrigue, ne so?io due fra i molti esempi appariscenti
e suggestivi.
Tenuto perciò conto delle condizioni
agronomi-che e climatiagronomi-che, specialmente del territorio più
addossato alla cerchia alpina, che farebbero del
Piemonte la Svizzera d'Italia, la praticoltura deve
abbandonare U carattere di relegazione e dì
pre-carietà che la contraddistingue e le conferisce un
complesso di debolezza. Alternandosi con le altre
colture, dì grano, di mais, non stancherebbe il
ter-reno, e si renderebbe anche meglio partecipe della
vitalità biologica dell'azienda e della sua economia.
Chi ha foraggio ha bestiame, chi ha bestiame ha
letame, chi ha letame ha grano. Nessuna più alta
sentenza di questa darà mai alla praticoltura
po-liennale il crisma della preminenza e della
indi-spensabilità. L'una e l'altra insieme, fino a tanto
che la terra sarà considerata una entità vivente e
non una risorsa inanimata come può esserlo una
cava od una miniera.
E M A N U E L E B A T T I S T E R I
« S a u r a y & t n e r i c u e b 3 ì u t i n
SOCIETÀ PER AZIONI - Capitale versato e riserve Lit 500 000 000
S E D E C E N T R A L E - M I L A N O
Fondata daA . P . G I A N N I N I
Fondatore dellaI B m t l t
xxì ^mtvxtn
N A T I O N A L A S S O C I A T I O N SAN F R A N C I S C O , C A L I F O R N I A T U T T T J E JLi E O I P J E K A X I O H I » 1 n B J ^ W C ^ Sede:V i a A r c i v e s c o v a d o n. 2
In Torino: ^
enzja fl.
v i aG a r i b a l d i
n. 52 a n g . C o r s o P a l e s t r o
V E R M U T L I Q U O R ] u
t o r i n o l ^ - . { ^ k d z a l e t l e à $5
(^Lazaletteà
REGINA MARGHERITA • Tel. 79.034
IL DISSIDIO FRA STRADA E ROTAIA
Uno dei problemi più assillanti e discussi di
questo dopoguerra in tutte le nazioni, è
l'anta-gonismo tra ferrovie ed automezzi che,
svolgen-do insieme i loro sei vizi nel settore dei
tra-sporti terrestri, sono spinti a soverchiarsi a
vi-cenda con danno dell'economia generale della
collettività.
11 dissidio sorse fino da quando, trenta anni or
sano, le ferrovie compresero l'importanza che
col perfezionamento del motore a scoppio
an-davano assumendo i trasporti su strada e da
allora l'argomento è slato dibattuto in una
infi-nita di conferenze, di congressi, di pubblicazioni
Se ne preoccupano i Governi, ne discutono i
Parlamenti, si fanno proposte di
coordinamento-ma mentre un accordo sorge spontaneo fra mezzi
terrestri e mezzi aerei o navali, è invece assai
difficile da raggiungere fra strada e rotaia tra le
quali la concorrenza è naturalmente assai più
viva. Un nuovo elemento è venuto anche ad
inasprire la lotta per il fatto che 1 ilrasporti
auto-mobilistici, enormemente sviluppatisi durante /a
guerra e nel primo dopoguerra per sopperire
alla-forzata stasi dei servizi ferroviari, si trovano
ora di fronte le ferrovie in gran parte ristabilite
ed ansiose di riprendere i traffici perduti
Le ferrovie accusano la concorrenza
dell'auto-mobile come principale causa dei loro malanni
che si assommano nei gravi disavanzi dei laro
bilanci e chiedono misure restrittive a carico
dell automobihsmo per impedire che la
concor-renza abbia a compromettere l'integrità e
l'effi-cienza del patrimonio ferroviario nazionale Gli
autotrasportatori, per parte loro, affermano il
di-ritto alla Ubera espansione dell'automezzo che
in confronto alla rigidezza delle ferrovie offre
un sistema elastico mutevole adattabile ad oqnl
esigenza e contingenza del moderno vivere civile
_ Neil'esaminare serenamente il problema si
aeve considerare che il valore dei 173 000
chi-lometri di strade ordinarie, statali provinciali e
comunali, calcolato (al livello attuale della
mo-netai m oltre duemila miliardi, equivale a quello
delle ferrovie di Stato e private, ed anche il
valore dei 500.000 autoveicoli in circolazione in
Italia (di cui 270.000 autovetture, 10.000 autobus
220.000 autocarri) pareggia quello del materiale
feiroviano. Il movimento dei viaggiatori sulle
autolinee corrisponde al 60 % del traffico delle
lerrovie; i trasporti merci sono pressoché
ugual-mente ripartiti tra strada e rotaia; negli
auto-trasporti sono impiegati 350.000 lavoratori, di
cui 250.000 autisti e 100.000 addetti alla
manu-tenzione e riparazione degli autoveicoli, oltre a
quelli occupati nei servizi stradali.
L'automobilismo ha dunque oggi
un'impow-tanza economica politica e sociale non inferiore
a quella delle ferrovie, e non è sostenibile la
pretesa di artificiose restrizioni che dovrebbero
ostacolare Io sviluppo dei tmsporti su strada a
favore di quelli su rotaia. Un'efficace ed utile
collaborazione tra i due sistemi (astrazion latta
dalle inceppanti sovrastrutture di guerra che sono
destinate a sparire) dovrà discendere da una
ri-partizione di compiti dei vari mezzi del traffico
conforme alla loro natura ed alle loro possibilità,
lasciando che siano gli utenti a determinarne gl'i
sviluppi più convenienti.
Le ferrovie hanno grandi possibilità, compiti
importanti da svolgere, servizi utili da prestare
e possono e debbono progredire adeguandosi alle
moderne esigenze della vita; devono però
risa-nare i loro bilanci riducendo le spese
d'eserci-zio, perfezionando i loro ordinamenti tecnici ed
amministrativi ed alleggerendosi di tutti quei
ser-vizi onerosi che possono essere meglio e più
economicamente disimpegnati dagli automezzi.
Nell'organizzazione degli autotrasporti si sono
raggiunti enormi progressi per quanto riguarda
la costruzione del materiale rotabile (autovetture
autobus autocarri) ma si è trascurato il problema
dei posteggi e delle autostazioni per evitare gli
ingombri delle strade e piazze dei centri
mag-giori, e ben poco si
è fatto per adattare le strade
esistenti alle cresciute possibilità della
motoriz-zazione, per creare una rete autostradale su cui
i veicoli più potenti possano sicuramente
circo-lare, per migliorare le segnalazioni e la
sorve-glianza stradale in modo da evitane i frequenti
sinistri che oggi si lamentano.
Il carattere tipicamente libero dell'automezzo,
non vincolato ad alcuna sede prestabilita nè ad
impiunti fissi ed esercitabile da chiunque sia in
possesso della patente di guida, non -deve però
generare nell'animo degli autotiasportatori l'idea
di poter lare a loro piacimento tutto quello che
credono, giacché tanto se esercenti di pubblico
servizio quanto se trasportatori privati,
percor-rono strade ordinarie di cui non sono i soli utenti
e debbono assoggettarsi a speciali norme a
sal-vaguardia della sicurezza e della regolarità della
circolazione.
Quando l'autoveicolo disimpegna un pubblico
servizio (analogo a quello delle ferrovie) deve
esservi autorizzato dallo Stato dando garanzia
dei requisiti di sicurezza, continuità, imparzialità
di trattamento, rispetto dell'orario
e dei prezzi,
ecc. che si richiedono nell'interesse della
col-lettività. Perciò i pubblici autoservizi devono
essere sottoposti a « regime di concessione » ed
in questo concetto (già adottato in Italia)
con-cordano oggi tutti i paesi, compresi gli Stati
Uniti d'America che in passato erano tenaci
fau-tori del principio liberistico.
I trasporti privati, eseguiti dai proprietari degli
automezzi per conto proprio o per conto terzi,
devono invece restare liberi, pur con la
sorve-glianza dello Stato, che a mezzo degli
¡spetto-rali della motorizzazione garantisca la capacità
di guida del conducenti e la loro sicura
cono-scenza delle norme di circolazione, e st-ibilisca
1 massimi e minimi entro i quali debbono essere
contenute le tariffe. Con queste cautele le
ini-ziative private potranno esplicarsi liberamente,
esercitando la concorrenza che stimola al
pro-gresso tecnico ed al conseguimento di costi
economici. Senza la concorrenza si ricadrebbe
nel monopolio dei trasporti, con tutti gli
incon-venienti che il pubblico conobbe durante il
do-minio incontrastato delle ferrovie, le quali
sol-tanto col sorgere dell'automobilismo furono
spinte a perfezionare i loro mezzi ed ì loro
siste-mi di esercizio.
J Ì B I U O I I I K I ; M III:I \ [ I
Torino, marzo 1950.
A d d i z i o n a t r i c e e C a l c o l a t r i c e elettrica scrivente. E s e g u i s c e l a d i v i s i o n e c o n s c r i t t u r a automatica del dividendo, del
t e quattro orazioni scritte e i, s a l d o negativo
L'ECONOMIA MONTANA
S O T T O UNA N U O V A
G R A V E M I N A C C I A :
Maíatüa
d e l
c
a
t
t
a
l
a
Dopo i danni della guerra, che
tanto ha infierito sulla
monta-gna; dopo i periodi di pioggie
violente degli scorsi anni, che con
le numerose frane, assolcamenti
ed erosioni del suolo sono venute
ad aumentare ancora più la
po-vertà di quei terreni per se stessi
miserissimi, ecco profilarsi ora la
minaccia della scomparsa dei
ca-stagneti a più o meno breve di-i
stanza.
Il castagno, l'albero del pane,
la provvidenza del montanaro,
ve-de da un po' di tempo
accentuar-si sempre più contro di esso
l'at-tacco di malattie particolarmente
gravi. A parte la carie del fusto,
male ormai cronico, una
trenti-na di anni or sono si è avuto la
accentuazione della ticchiolatura
delle foglie, causa di una minore
produzione di frutti, frutti più
piccoli e meno saporiti. A breve
distanza di tempo ecco entrare in
campo il male dell 'inchiostro, che
porta a morte la pianta e si
dif-fonde rapidamente a macchie di
olio.
Ed ora è la volta del cancro
della corteccia,
il quale
compar-so la prima volta negli S.U.A.,
al principio di questo secolo, in
brevissimo periodo ha fatto
scom-parire totalmente il castagno da
intere zone di quel paese.
Fin dal 1920 P. J . Moon,
deca-no della facoltà forestale di
Sy-racuse <N. Y.), scriveva a suo
riguardo: « On account of the
bark disease chestnut seems to
be a doomed tree ali through
New York State ».
Una specie di condanna! Se
una simile condanna si
esten-desse anche ai nostri
castagne-ti, quali non ne sarebbero le
con-seguenze?
E non si tratta di .una
minac-cia platonica, giacché rilevata la
prima volta tale malattia nel
1935. già oggi ne sono infette
auasi tutte le zone castanili del
Paese.
I danni se ne prospettano poi
tanto più gravi per il Piemonte
e la Liguria, in quanto sono
que-ste le due Regioni dove il
ca-stagno da frutto ha trovato la
massima diffusione, sia in
misu-ra effettiva (150.000 ettari) sia
proporzionale al resto del
terri-torio. Questa sua maggiore
dif-fusione è dovuta al fatto che,
sia in Liguria che in Piemonte,
la coltura del grano si spinge
molto meno in alto che nel
Cen-tro e Mezzogiorno d'Italia,
per-ciò la produzione dei cereali ne
risulta più limitata ed è il
frut-to del castagno che provvede a
tale carenza, come soprattutto vi
provvedeva in passato, e ancora
oggi nei periodi di guerra.
Si aggiunga che in Piemonte
e Liguria è concentrato il
mag-gior numero di fabbriche di
estratti tannici '(70 %), le quali
non solo forniscono tale materia
alle industrie del Paese, ma ne
esportano quantitativi
considere-voli, dando lavoro stabile ad un
numero tutt'altro ohe
indifferen-te di operai.
E' allora fuori di luogo il
pre-occuparsi seriamente di tali
ma-lattie?
Alla ricerca delle cause.
— In
generale, quando si parla di
ma-lattie epidemiche, si pensa al
rassita che la determina. I
pa-rassiti delle malattie del
casta-gno sono conosciuti da tempo,
giacché la scienza in questo
cam-po ha fatto progressi
notevolis-simi. Tali parassiti però
esiste-vano anche prima; i loro
attac-chi non avevano l'intensità che
hanno raggiunto ora, tanto che
prima passavano inavvertiti.
Qua-li circostanze Qua-li hanno portati
ad assumere la rilevanza
attua-le? Sono queste le vere cause da
individuare, per vedere di
al-lontanarle.
Nell'ultimo quarto di secolo si
sono ricercati e rintracciati,
nel-le parti più selvaggie d'Europa,
avanzi di boschi ancora allo
sta-to naturale. Fatti oggetsta-to di
stu-dio, ne è risultato, fra l'altro,
che in essi vivono tutti quei
pa-rassiti vegetali e animali che
tanti disastri (disastri di migliaia
di ettari; hanno causato e
stan-no causando nei boschi creati
ar-tificialmente. Nei boschi naturali
nessuna traccia di epidemia, nè
presenti nè passate!
Come spiegare questo fatto? Si
spiega, in quanto nei boschi
na-turali i parassiti preferiscono
at-taccare gli individui deboli, in
condizioni di vegetazione
mino-rate: rispettano invece quelli in
stato rigoglioso, anche perchè
op-porrebbero una più energica
re-sistenza.
Corpi fruttiferi del fungo ingranditi
Tale fatto va ricollegato ad
un altro. Nel bosco naturale,
ge-neralmente disetaneo, quando
muore una pianta, nello spazio
lasciato libero, si sviluppano
im-mediatamente una quantità di
semenzali: a centinaia. Il piccolo
vuoto, che in un primo tempo
poteva contenerli tutti,
crescen-do essi, diventa insufficiente, ed
allora se ne ingenera una lotta,
che porta a sceverare i più
ro-busti, i più sani, i meglio
costi-tuiti dagli altri, i più deboli o
in qualche modo difettosi. I
pri-mi presto emergono sui
secon-di, che, adugiati, prendono a
re-stare indietro e intristire.
E' su questi individui che si
riversano i parassiti,
facilitando-ne la morte, con che favoriscono
ancora più lo sviluppo dei primi,
i quali senza tale intervento
Manifestazione tipica di
lunque, figlia del caso, ma un
in-dividuo passato al vaglio di una
lunga selezione; cresciuto senza il
contrasto della lotta, che gli
sa-rà stata, in notevole parte,
ri-sparmiata dai parassiti.
Il parassitismo non va quindi
considerato un male, bensì quale
un fattore di perfezionamento
della vegetazione. Si deve ad
es-so se nell'esistenza millenaria del
bosco, con una rinnovazione
ses-suale circoscritta alla sua zona,
non si riscontra traccia di
in-debolimenti, bensì di una
cre-scente vigoria e di un sempre più
stretto adattamento all'ambiente.
Se i parassiti stanno
costituen-do ora una grave minaccia per
i coltivi, non è perchè
riversan-dosi su questi cambino natura,
bensì perchè colle colture
artifi-ciali noi non siamo in grado di
ia parassitica del castagno
scomparire tutto ciò che non
rr-sponde in pieno alle sue leggi.
Ambiente naturale e ambiente
artificiale.
— E' credenza comune
ohe con le lavorazioni e
conci-mazioni si sia in grado di
pre-parare alle piante un ambiente
migliore di quello di cui è capace
la natura: la lotta che si svolge
nelle formazioni spontanee fra
una specie e l'altra sarebbe
so-prattutto causa di minore
svi-luppo.
Effettivamente nei boschi,
nel-le macchie, nei pascoli si trovano
a convivere una quantità di
spe-cie diverse, ognuna delle quali
cer-ca di appropriarsi la maggiore
quantità di spazio e di sostanze
nutritive; ciò non significa però
che debbano danneggiarsi
reci-procamente. Nel combinare le
suoio.
A questa azione della parte
aerea della vegetazione
corri-sponde quella delle parti ipogee.
Come i fusti delle diverse specie
assumono dimensioni diverse, lo
stesso si verifica per il loro
si-stema radicale. Mentre i grandi
alberi, anche per meglio
resiste-re ai venti, estendono le loro
ra-dici fino alla profondità di 2 - 3
metri e anche più, i mezzi
al-beri e gli arbusti si
accontenta-no di sfruttare lo strato di 1 m.
circa dalla superficie; mentre il
sistema radicale delle erbe non
va oltre i 20 - 30 cm., i muschi
e licheni si accontentano dello
strato di materia morta che
ri-copre il suolo. Così anche per
la espansione delle radici e per
la ricerca del nutrimento si
com-binano le diverse specie, in modo
da vivere tutte senza dover l'una
danneggiare l'altra. E poiché la
natura suole abbinare più scopi,
ecco che questa diversa
distribu-zione delle radici, in quanto
con-tinuamente si distendono e si
ri-tirano in conformità agli
ondeg-giamenti provocati dai venti,
ser-ve a tenere costantemente
smos-so il terreno, facilitandone la
pe-netrazione dell'aria e dell'acqua
fino a grandi profondità. Si
ag-giunga che le radici vanno
sog-gette a perire e ohe
decomponen-dosi lasciano aperti nel terreno
canali e canaletti, che ne
costi-tituiscono il miglior drenaggio.
Con ciò si facilita lo
immagaz-zinamento dell'acqua piovana,
mentre se ne diminuisce la
eva-porazione, oltre che con
l'ombreg-vrebbero consumare parte delle
loro energie per liberarsene.
I parassiti concorrono
pertan-to alla selezione e progressivo
mi-glioramento delle specie; la
pian-ta che verrà un giorno a
sosti-tuire quella seccata tanti anni
prima, non sarà un pianta
qua-prowedere a tutte le esigenze
delle piante, e queste, anche
quando apparentemente ci
appa-iono rigogliose, soffrono
deficien-ze ambientali da noi non
avver-tite. I parassiti continuano
per-tanto nel lavoro loro assegnato
dalla natura, che è quello di fare
specie ohe vengono a convivere
mella stessa comunità, la natura
ha provveduto perchè abbia ogni
ima caratteri propri ed esigenze
diverse da quelle delle altre.
Così nei ibosohi si riuniscono
grandi alberi, mezzi alberi,
arbu-sti, cespugli, erbe, muschi,
liche-ni ed una infiliche-nità di microorgaliche-ni-
microorgani-smi; ora è facile comprendere
come i mezzi alberi possano
vive-re nello spazio lasciato libero, tra
una chioma e l'altra, dai colossi
della vegetazione; gli arbusti al
disotto dei mezzi alberi, e così
via via le altre specie,
gradata-mente decrescenti in dimensioni.
Ciò riesce tanto più facile, in
quanto gli individui appartenenti
ad una stessa specie, non sono
tutti della stessa età, bensì vi si
trovano piccoli, medi, grandi. E
soprattutto in quanto, sia le
spe-cie che gli individui più piccoli
sopportano una riduzione della
luce molto più dei grandi; per
cui riescono a vivere benissimo
all'ombra di questi ultimi.
Com-binandosi in rapporto ai propri
bisogni, non solo le diverse
spe-cie riescono a trovare le
condi-zioni indispensabili alla loro
esi-stenza, ma vengono a formare
una massa di vegetazione più
fol-ta e compatfol-ta; maggiore
com-pattezza che giova ad opporre più
energica resistenza ai venti, e a
diminuire il disseccamento del
giamento delle chiome, con lo
strato di terriccio, con cui il
bo-sco ricopre il suolo.
Vi è poi una circostanza della
quale conviene tenere il massimo
conto, ed è ohe mentre nei
colti-vi si provvede alla
alimentazio-ne delle piante con periodiche
concimazioni artificiali, la
vegeta-zione spontanea vi supplisce in
parte con sostanze minerali che
sottrae al suolo, e più ancora con
la materia morta, con le spoglie
delle piante che cadono al suolo
e che questo rielabora. Ora se
fra i vegetali vi è un piccolo
nu-mero di sostanze minerali
asso-lutamente indispensabili a tutti,
la quantità non è uguale; inoltre
vengono assorbite altre sostanze,
non tutte le stesse, bensì
diffe-renti da una specie all'altra;
so-stanze che pure hanno una
in-dubbia influenza, in quanto colle
spoglie ritornano al terreno. La
concimazione naturale ne
risul-ta perrisul-tanto più complerisul-ta di
quel-la artificiale. La diversità delquel-la
materia organica ne facilità poi
la decomposizione, mentre si
ori-ginano speciali sostanze
biochi-miche, la cui importanza
appa-re ogni giorno più grande.
Non è quindi esatto che la
fer-tilità del bosco, e in genere di
tutte le formazioni naturali, sia
inferiore a quella che possiamo
noi procurare artificialmente ai
coltivi. La prova ne è che:
quer-cia e castagno, i quali nei
boschi naturali riescono a
rag-giungere altezze di 40 - 50 m. e
diametri alla base di m. 1 - 1,20 e
vivono secoli e secoli, cresciuti in
mezzo ai campi, dove vengono a
godere delle lavorazioni e
conci-mazioni che si praticano alle
col-ture, possono raggiungere sì
gran-di gran-dimensioni gran-di gran-diametro e
mol-ta chioma, ma mai altezze
supe-riori ai 15 20 m.; meno della
metà che nei Ibosohi! L'altezza è
il migliore indice della
prosperi-tà delle piante!
Irrazionale trattamento dei
ca-stagneti da frutto.
— Si usa
in-dicare i castagneti da frutto
quali boschi di castagno; si
trat-ta di una designazione del tutto
impropria. In natura il castagno
si trova unito alla quercia,
mol-tre si accompagnano ad esso :
aceri, frassini, olmi, tigli, carpini
e, più rari, ciliegi, sorbi, peri, meli
selvatici, nonché una quantità di
arbusti, cespugli, erbe che
fun-gono da sottobosco. Questo è il
vero castagneto, dove i suoi
com-ponenti principali riescono a
rag-giungere i 40-45 mt. di altezza ed
età plurisecolare, come si è detto
sopra.
I castagneti da frutto,
allonta-nata ogni traccia di vegetazione
spontanea, vengono costituiti con
un centinaio di robusti piantoni,
di 2-3 mt. d'altezza, posti a
di-stanza di 10 mt. uno dall'altro.
Appena attecchiti vengono poi
in-nestati. La pianta trovandosi a
crescere così isolata, non riesce
a svilupparsi in altezza perchè ne
verrebbe facilmente rovesciata
dal vento; è spinta al contrario a
sviluppare un'ampia chioma, per
proteggere il terreno da
un'ec-cessiva traspirazione. Si hanno
così quelle forme basse, ramose
che in confronto a quelle del
bo-Endothia
sco naturale si potrebbero
con-siderare come rachitiche.
Malgrado un simile
adatta-mento, la pianta non riesce a
provvedere adeguatamente ai suoi
bisogni. Per la mancanza di un
sottobosco protettore, il terreno a
poco a poco si assoda; le piogge,
anziché infiltrarsi, scorrono su di
esso, asportandone le particelle
più fertili; un periodo un po'
lun-go di siccità e se ne hanno le
conseguenze più gravi. Per altra
parte l'humus derivante dalle sole
foglie del castagno, non è
suffi-ciente a riparare all'ordinario
consumo di sostanze nutritive:
ricche di acidi tannici le foglie
si decompongono male, il vento
facilmente le porta via.
Il castagneto da frutto non è
un bosco: è un frutteto del tutto
simile a quelli ohe l'agricoltore
dei piano e del colle costituisce
con peri, meli, susini, albicocchi,
peschi, ecc. La differenza ne è
che il proprietario presta a questi
ultimi speciali cure; tutti gli
an-ni ne lavora il terreno, lo
con-cima, e con grande diligenza cerca
di tenere lontani i parassiti, che
parassitica