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Cronache Economiche. N.081, 15 Maggio 1950

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(1)

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N. 81 • 15 MAGGIO 1950 • L. 125

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ECONOMICHE

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COMITATO Di R E O A Z I O N E

Dott. A U G U S T O B A R G O N I Prof. Dott. A R R I G O B O R D I N Prof. Avv. ANTONIO CALANDRA Dott. C L E M E N T E C E L 1 D O N I O P r o f . Dott. S I L V I O G O L Z I O P r o f . D o t t . F R A N C E S C O P A L A Z Z I - T R I V E L L I * D o t t . G I A C O M O F R I S E T T I D i r e t t o r e r e s p o n s a b i l e *

S O M M A R I O

Panorama dei mercati . . . pag. 4 La politica della circolazione

e del credito (A. Bordili) . » 5 Viticoltura associata {E.

Batti-steri) » 10

Alla sbarra i costi di

produ-zione (5. Ricossa) . . . . » 13 Nominatività (R. Levis) . . . » 16 Vetrine (V. C.) » 19 Il mondo offre e chiede . . » 23 Breve storia della seta : il

Ro-cocò ( A Pacchioni) . . .1 » 24

L'economia agricola del

Ma-rocco (F. Saja) » 27 Sulla « Mustermesse » di

Ba-silea - Divagazioni (Effe) . » 31 Produttori italiani » 35 Movimento anagrafico . . . » 45

J

Milli »SI MERCATI

ITALIA — La ripresa del mercato agricolo-alimen-tare è persistita, allargandosi anche al settore vi-nicolo, ma attenuandosi in altri settori per effetto di previsioni di abbondanti raccolti.

Il raccolto granario potrebbe toccare anche i 75 milioni di q.li. La produzione di foraggi si pro-spetta ottima, e di essa dovrebbero beneficiare gli allevamenti del bestiame. Anche la produzione or-tofrutticola è buona e trova un facile sbocco nel-l'esportazione, pel momento.

Il problema degli sbocchi resta quello fondamen-tale. Al pari dell'industria, l'agricoltura italiana deve affrontare e risolvere la questione dei costi di produzione. Le difficoltà che oggi si notano, ad esempio, nei settore caseario e nello stesso settore ortofrutticolo circa i prezzi di vendita, indicano che, se questi sono tipici settori nei quali dobbiamo puntare all'aumento della produzione, l'obbiettiivo va accoppiato all'ottenimento di una migliorata efficenza produttiva.

Sui mercati industriali non si è consolidata, fi-nora, la tendenza al miglioramento. E' vero che il settore delle pelli grezze, già in crisi, si va sta-bilizzando, ma è appena naturale che in esso la parabola discendente delle quotazioni abbia final-mente trovato un punto di minimo.

ESTERO '— Smorzatesi le oscillazioni provocate dalla svalutazione della sterlina, la forza princi-pale agente sui mercati internazionali rimane la prosperità dell'economia nord-americana. Si pre-vede che, almeno per tutto l'anno in corso, gli Stati Uniti manterranno l'alto grado attuale di benessere. Infatti, dal marzo scorso, la disoccu-pazione è diminuita e sono riapparsi perfino dei sintomi inflazionistici, segni indubbi che la ripresa in svolgimento ha radici profonde. I forti ribassi delle materie prime nel 1949 sono ora considerati un assestamento benefico, che assicura una base solida all'odierna tendenza sostenuta.

Di tale tendenza beneficia in modo particolare l'area della sterlina. Gli aumenti dei prezzi delle materie prime prodotte nell'area della, sterlina e in parte esportate in America, assicurano infatti un eccesso degli incassi in dollari sulle spese nella bilancia commerciale della stessa area della sterlina. Per gli altri Paesi europei uno smodato aumento delle materie prime di importazione potrebbe ri-sultare nocivo. Ma è da ricordare —- e questo è il secondo fattore congiunturale importante, dopo la prosperità americana — che l'Europa è ormai ri-tornata all'autosufficienza, o quasi, per alcune produzioni basilari, come il carbone e la siderur-gia. Anzi, per il carbone, l'Europa è già divenuta esportatrice verso il resto del mondo.

Inoltre, dopo le svalutazioni, le valute « deboli » europee pare si siamo rafforzate alquanto, dato il miglioramento della bilancia commerciale in dol-lari (analogamente a quanto si è detto sopra per la sterlina). Ciò rafforza la posizione dell'Europa sui mercati internazionali.

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A R R I S O B D R D I N

J l a p ò l i l l e a

DELLA CIRCOLAZIONE E DEL CREDITO

j C O N T I N U A Z I O N E D A L N U M E R O P R E C E D E N T E

La politica d'espansione della circolazione in occasione dei finanziamenti

valutari e di riassorbimento con i provvedimenti bancari del settembre 1947

e con la mancata spendita dei ricavi ERP, segnata sotto la lettera b) della

precedente puntata, è vagliata in guesta seconda ed ultima puntata

attra-verso i suoi principali riflessi economici.

I finanziamenti valutari, loro finalità, loro effetti.

Unico allentamento alla circolazione, come s'è visto, è stato concesso per i finanziamenti valutari in genere, e, come è stato dichiarato, in partico-lare, per l'approvvigionamento di dollari. Ma, dato che per eccesso delle esportazioni sulle importa-zioni siamo rimasti creditori tanto nell'area della sterlina (perfino, e in misura crescente, anche dopo la sua svalutazione rispetto al dollaro), quanto nel residuo globale dell'intero mercato mondiale, ec-cezion fatta dell'area del dollaro dove siamo debitori; e data la pressoché totale mutua incon-vertibilità delle valute e, in particolare, di queste nel dollaro, nonché il fatto che di questa moneta e di oro si è cercato di rafforzare le riserve della banca di emissione, non sembra errato di dover più esattamente concludere che i finanziamenti va-lutari si sono risolti in un generale aiuto all'espor-tazione con un relativo disinteresse per l'area di esportazione. Non sembra altresì errato pensare che, quando questo disinteresse è venuto meno, il desi-derio di avere maggior valuta di un'area partico-lare (quella del dollaro) era sì inspirato alla ne-cessità di finanziare le importazioni dalla stessa area ma era insieme sollecitato dalla direttiva di rafforzare anche con questo mezzo la valuta na-zionale. Così, anche nella politica dei finanziamenti valutari fa capolino l'esigenza di cui è pervasa tutta la politica economica dello Stato.

Infatti, i finanziamenti valutari derivano dalla monetizzazione dell'eccesso delle esportazioni sulle importazioni e, nel caso di pareggio o di deficenza di quelle su queste, essi derivano dalla traduzione in moneta nazionale del totale o di un'aliquota delle prime, sempre che la differenza fra il residuo e l'ammontare delle seconde possa essere pareg-giata in altro modo (prestiti e doni ERP per l'area deficitaria del dollaro).

Pertanto, l'indiscutibile aiuto dato all'esporta-zione, oltre il lìmite di ima equivalente importa-zione, ha favorito non solo il settore produttivo legato alla prima ma altresì il settore produttivo che, da una più larga e, per l'equilibrio, necessaria importazione, sarebbe stato offeso per ragioni di concorrenza; per contro, sono stati colpiti gli ac-quirenti nazionali di tutti e due questi settori produttivi.

E cioè quelli facenti capo al primo settore perchè il deflusso all'estero ha rincarato i prezzi interni dei beni esportati, e quelli facenti capo al secondo per non aver potuto usufruire dell'immancabile

ri-basso che sarebbe stato provocato dalla concorrenza straniera ove, con questa politica, non fosse stata eliminata. Inoltre, per il bilateralismo che a ca-gione dell'inconvertibilità delle valute imperversa in tutti gli scambi internazionali, volendo forzare i mercati di sbocco a talune delle nostre esporta-zioni, siamo stati talvolta costretti ad approvvigio-narci di merci dagli stessi mercati a costi più alti di quelli che avremmo potuto spuntare altrove, con evidente danno degli acquirenti nazionali sia dei beni di andata e sia dei beni di ritorno e con pa-lese beneficio degli esportatori.

E, poiché la maggior circolazione dovuta a questo indirizzo è stata riassorbita dai provvedimenti de-scritti sotto la lettera b), sono stati altresì dan-neggiati coloro che avrebbero potuto direttamente beneficiare di quella parte della circolazione e del credito corrispondente che, per quei provvedimenti, è stata neutralizzata.

In sintesi, esportando, come si dice, presso la Banca d'Italia e facendo dalla stessa banca, ma in altri settori e non in sincronia, riassorbire la mag-gior circolazione emessa nella prima operazione, grosso modo e almeno in una prima fase, si favo-risce la produzione direttamente legata al commer-cio estero e si provoca il danno della rimanente. Il processo opposto si avrà (ma non necessaria-mente) nella seconda fase, allorquando verranno realizzate le valute accumulate nella prima, sem-pre che lo conceda la tecnica con cui queste va-lute saranno spese; compensi vari hanno luogo quando una stessa industria partecipa a tutti e due i settori della produzione.

Ohe, nel settore del credito, la politica di cui stiamo ragionando, sebbene si sia preoccupata di mantenere, per quanto la riguardava, pressoché costante la circolazione, non sia stata del tutto neutrale perchè ha favorito certi settori della pro-duzione gravando su altri, lo suggerisce ancora il fatto che i due flussi di entrata e di uscita della circolazione erano e sono governati da leggi di-stinte e pressoché indipendenti, che generalmente i due flussi sono stati e sono di un volume, nello stesso tempo, tra di loro diversi, con punti d'inser-zione e di deflusso, nel e dal mercato, distinti e generalmente lontani, e che occorse l'alta e mec-canicamente costante percentuale di assorbimento del 40 % sugli aumenti dei depositi ed una larga aliquota degli aiuti ERP per poter, nell'insieme, neutralizzare il deflusso voluto dai finanziamenti valutari.

Un altro punto. Le nostre correnti di traffico con l'estero da prima della guerra a questi due anni

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si sono profondamente alterate, sia nella composi-zione merceologica e sia nella direcomposi-zione a cui sono state avviate. Ne fanno fede i seguenti specchietti:

ESPORTAZIONI 1938 1948

- ' w '»

IMPORTAZIONI Va\ 1948-49 19)8 1948 1949 Alimenit. e mat.

piume d'ndustr. 40 24 •i'Xi'ì 61 80 74 + Semilavorati e prodotti finiti Gf ¡ 76 73 39 20 26 — Totale . . 100 100 100 100 100 100 S.U.A. e Canadà 10 9 5 — 12 40 36 + Argentina . . . 5 IG 12 + 2 13 5 + Area Sterlina 13 20 21 + 15 13 14 + Germania . . . . 27 4 S — 3 4 ' f i l i Altri Paeai . . . 45 51 54 39 31 41 Totale . . 100 100 i 0 0 100 100 100

Dal punto di vista merceologico, all'esportazione, si è di molto accentuata l'antica preminenza dei « semilavorati e finiti » sugli « alimentari e mate-rie prime industriali » ; l'opposto è avvenuto all'im-portazione. Sostanzialmente, e può essere un bene, abbiamo accentuata la nostra caratteristica di paese trasformatore di materie importate e poi riesportate dopo elaborazioni varie; in un certo senso ci siamo avvicinati, cioè, al modello svizzero, vale a dire al modello di un paese povero di risorse naturali e però profondamente legato allo sviluppo dell'industria e del commercio estero. Il punto oscu-ro della situazione sta, da un lato, nel più lento ritmo di ripresa dell'agricoltura in confronto a quello dell'industria e del commercio e nel fatto che larga parte delle importazioni del maggior gruppo sono gratuite e cioè non colmate dall'espor-tazione. Il che vuol dire che (bisogna ancora pun-tare tanto su di un ulteriore sviluppo dell'esporta-zione quanto sul potenziamento dell'agricoltura; è probabile che a lungo andare tutto ciò si traduca in ima profonda trasformazione di quest'ultima, cioè dell'agricoltura, in funzione di colture più conformi con la possibilità di collocamento dei suoi prodotti nei mercati stranieri.

Per quanto si riferisce alla direzione dei traf-fici, la caduta del mercato tedesco ha deviato le correnti di importazioni da quel mercato dirigen-dole verso gli Stati Uniti, Canadà ed Argentina; per l'esportazione quella caduta ha disperso l'an-tica corrente diretta al mercato germanico in

ri-voli diversi, in prevalenza rivolti ai mercati del-l'area della sterlina, a quello dell'Argentina e ad altri mercati minori.

In sintesi : la sostituzione del mercato tedesco con altri mercati, non solo ha alterato la compo-sizione merceologica del nostro traffico ma ha fatto sì che il rapporto di complementarietà fra il no-stro mercato e il tedesco da un lato, il nono-stro mercato e quelli che hanno preso il posto del mer-cato tedesco dall'altro, si sia merceologicamente invertito. Constatazione, codesta, ohe pur ritenendo estremamente improbabile il ritorno dell'indirizzo politico-economico del 1938, non può non lasciarci perplessi perchè, fino a quando la nostra economia in genere e la nostra agricoltura in ispecie non avranno subito la riconversione informata al mo-dello dianzi accennato (il che senza la ripresa della Germania, nostro naturale mercato di sbocco, non può avvenire) operiamo in un amlbiente artificiale, con caratteristiche del tutto contingenti, suscetti-bili delle peggiori sorprese. La peggiore di tutte potrebbe essere quella di dare sviluppo ad un indu-stria di esportazione che domani non trovasse più adeguati mercati di vendita.

Come giudicare, allora, una politica di finanzia-menti valutari che, invece di limitarsi ad assecon-dare, quasi a seguire, le nuove correnti di traffico ne forza e, per così dire, ne anticipa la direzione e la composizione e, in definitiva, l'attrezzatura industriale che ne sta a monte, senza paventare il pericolo ohe tutta la nuova costruzione domani si riveli inadatta alle future linee di naturale svi-luppo della nostra economia? Non si avverte che il terreno è infido e che, forse, troppo si concede alla direttiva « esportare a qualunque costo ». An-che oltre il limite prudenziale e fisiologico segnato dalle importazioni di contropartita?'

La politica monetaria non è politica neutrale rispetto alla reciproca posi-zione delle singole aziende. Suoi effetti.

Dopo tutte queste considerazioni al lettore non sfuggirà il loro tema comune dal quale esse di-scendono come tanti corollari.

Nessuna politica monetaria e del credito è neu-trale nel senso di lasciare inalterati i rapporti di scambio, i prezzi reali, con i quali i beni vengono permutati gli uni con gli altri, anche quando il flusso d'entrata e di uscita della circolazione si equivalgano e un indice generale dei prezzi sembri rimanere inalterato; di conseguenza, nessuna po-litica è neutrale rispetto alle aziende che negoziano secondo quei rapporti, come non è neutrale per tutti gli altri componenti del mercato l'azione di uno qualsiasi di essi. Tanto meno è neutrale la

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SOCIETÀ PER AZIONI - Capitale versato e riserve Lit. 550.000.000

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politica che instrada la circolazione e il credito per canali diversi da quelli dai quali li assorbe; ed an-cora meno è neutrale quando i due flussi nello stesso tempo sono quantitativamente diversi e i prezzi di entrata differiscono da quelli di uscita o sono diversi da quelli del mercato; e quando entrata ed uscita derivano da negozi d'imperio. Politica monetaria è politica economica, o politica tout court, è cioè coercizione, più o meno appari-scente, qualunque sia il clima ideologico nel quale questa politica si svolge.

Si dirà: in definitiva, lo squilibrio fra esporta-zioni ed importaesporta-zioni deriva dalla situazione dei prezzi esterni ed interni, dal livello del cambio, dalla qualità e dal volume dei due flussi dell'inter-cambio con l'estero. Se taluni di questi elementi sono di dominio della politica governativa nazio-nale. altri dipendono da quella dei governi esteri ed altri, ancora, sfuggono al potere della politica economica di ogni Paese, sicché è per lo meno di cattivo gusto ravvisare nel proprio governo l'autore di ogni disagio e di ogni beneficio.

Tutto ciò è vero. Ma è altrettanto vero che le condizioni di ambiente tanto all'interno quanto al-l'estero non determinano un'unica direzione bensì una rosa di possibilità affidata alla scelta gover-nativa; ed una volta che quest'ultima sia stata fatta, ogni giudizio che su di essa si volesse espri-mere non può non tener conto di tutti gli effetti, i positivi e i negativi, ai quali abbia dato luogo.

Perciò, se è chiaro ohe con il nostro credito in sostanza finanziamo le importazioni straniere dal nostro paese a scapito dei consumatori nazionali, è altrettanto manifesto che proprio in tal modo riusciamo a mantenere antiche e a dar vita a nuove correnti di traffico tutto a beneficio dell'in-dustria esportatrice; è parimenti manifesto che, così facendo, continuiamo a dare ossigeno, con le vitali, anche a talune altre attività produttive che in un mercato mondiale di massima economicità e di massima specializzazione dovrebbero essere ab-bandonate; ohe riusciamo a comprimere la disoc-cupazione in certi settori, forse, in ragione più forte di quanto non sia, invece, sollecitata in altri, ma ohe, per altro verso e nel contempo, rallen-tiamo anche nel mercato del lavoro quel processo di adattamento e di riqualificazione pur necessaria in vista di un più redditizio inserimento della no-stra economia in quella mondiale.

Quand'anche le scarse risorse nazionali e l'alta popolazione consiglino di potenziare nel massimo grado l'industria, l'agricoltura e l'attività di inter-mediazione legate al commercio con l'estero, è evi-dente che si batte una cattiva strada quando, mo-netizzando le esportazioni a cambi più alti di quelli che possono essere sopportati dalle impor-tazioni o viceversa, la differenza positiva, fra il costo interno ed il prezzo estero nell'esportazione, ed il costo estero ed il prezzo interno nell'impor-tazione, dalla impresa che questa perdita dovrebbe soffrire sia rimbalzata sulla collettività o su di una parte di essa. Il meno che possa accadere quando la nostra impresa non voglia dare ascolto al se-gnale d'allarmi di quella perdita (il quale la indur-rebbe a modificare la sua struttura o a chiudere bottega), non è già un aumento del reddito na-zionale come si vuole far credere, bensì uno storno di un'aliquota di questo reddito da certe tasche a certe altre.

Un potenziamento, per così dire, fisiologico del-l'attività produttiva in funzione di commercio este-ro non può avvenire se non puntando su forme ohe, relativamente alla loro dimensione, sappiano da sole godere, nel mercato nazionale ed estero, una situazione in un certo senso monopolistica, o per la modicità del costo o per i requisiti tecnici del prodotto, come avviene in tutti i paesi per i quali il commercio estero è fonte di larga parte del loro reddito complessivo. Canzone, codesta, che non vogliono sentire specialmente le aziende che ad ogni costo vogliono sopravvivere ad un clima economico-politico ormai tramontato e quelle ohe, sprovviste di mezzi e di fantasia, trovano nella

protezione e nell'intrigo politico le sole possibilità di esistenza. E canzone per la quale non ci si può addormentare sulle posizioni conquistate perchè la dinamica del mercato sollecita sempre nuovi adat-tamenti, nuovi perfezionamenti, nuove conquiste, senza dei quali ci si ripiega verso l'autarchia e verso un basso tenore di vita.

E' altresì innegabile che con la politica di inser-zione e successivo riassorbimento della circolainser-zione grosso modo non si altera, sotto questi rispetti, il livello generale dei prezzi, così che le categorie aventi redditi nominali rigidi o poco elastici rispetto al mutevole valore della moneta non sono questa volta chiamate a far le spese delle finalità ohe questa politica si ripromette. Il che facilita il ri-sparmio presso queste classi ohe, in passato, a ca-gione di una politica meno pensosa dei suoi riflessi più profondi, furono le più colpite; più facile ri-sparmio di cui in queste ultime annate, con l'au-mento generale in tutte e due ii settori, forse è indice fedele il più rapido crescere dei depositi in quello delle Casse postali rispetto all'aumento dei depositi affidati al secondo settore, quello delle altre aziende di credito.

Non si può, ancora, non rilevare che l'eccesso delle esportazioni sulle importazioni, in tutte le aree ad eccezione di quella del dollaro, ci ponga in serio imbarazzo per la realizzazione dei nostri crediti e ci costringa ad accettarne i modi, quali l'inserimento dei crediti nelle economie debitrici, che, se non ci fossimo posti in una condizione contrattuale così debole, non potremmo forse sti-mare come le più convenienti; e che il mancato impiego dei fondi ERP, insieme a questa posizione creditoria, sia per lo meno serio pretesto per de-curtarci i futuri aiuti americani. Non dimenti-chiamo che l'inserimento di nostri crediti nell'eco-nomia dei paesi debitori (area della sterlina) è pratica che dalla Germania e da noi è stata im-posta ai creditori stranieri quando si instaurò il monopolio dei cambi; ed è pratica che contribuì, e non poco, ad isolare i due mercati dal resto del mondo.

E' vero, adunque, tutto questo, come son veri cento altri anelli della indefinita catena delle con-seguenze economiche ed extra-ieconomiche della politica di cui stiamo ragionando; anelli che ap-paiono colorati in nero o in rosa secondo gli inte-ressi o le ideologie, e che ancora una volta nel loro insieme ci fanno constatare come ogni intervento, se comporta un vantaggio, un ricavo, comporta al-tresì un costo, e che la sintesi dei due effetti è quasi sempre e irriducibilmente una sintesi politica.

Effetti della politica monetaria sul si-stema del credito.

Ma di tanti anelli della catena di un altro an-cora ci sia concesso parlare, e cioè degli effetti del riassorbimento della circolazione sul sistema del credito.

Sono noti questi dati: primo, l'esistenza di un cartello al quale, d'imperio, sono sottoposte le aziende di credito e per il quale i saggi attivi (di impiego), i prezzi di certi servizi bancari, non pos-sono essere inferiori ad un determinato ammon-tare, e i saggi passivi (di incetta di fondi) non pos-sono essere superiori ad un altro ammontare, na-turalmente al primo inferiore. Tra il primo ed il secondo corre un enorme divario, specie se si tien conto che, in questo dopo guerra, l'antica forte preminenza dei più onerosi depositi fiduciari sui conti correnti di corrispondenza si è venuta pro-fondamente attenuando. Questo divario viene dalle banche giustificato con i forti costi della loro ge-stione, con il troppo elevato numero dei loro spor-telli, con l'esiguità del risparmio in confronto alle richieste, con la scarsità dei buoni impieghi, con la concorrenza statale. E, per i saggi passivi dei conti correnti disponibili, con il buffo pretesto che i versamenti dovrebbero affluire in banca,

qualun-que ne sia il compenso, e non riversarsi altrove

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perchè si tratta di fondi dal depositante raccolti soltanto in vista della sua liquidità, e non per il lucro che nella banca essi possono trovare; il che è come dire che, se una cosa nulla ti costa, per nulla la devi dare anche se trovi da venderla ad un prezzo diverso da zero. Nessun commento.

Cartello, infine, sorto e mantenuto con lo scopo dichiarato di... difendere il risparmio dal fallimento delle banche imponendo ai loro clienti prezzi ben tondi e ai loro fornitori (cioè al risparmio stesso) compensi irrisori! Tutti discorsi, questi, da avvo-cati di poco conto, con i quali si tenta di giustifi-care un monopolio dei raccoglitori e dei distributori del risparmio, monopolio nel quale ha una situa-zione di privilegio lo Stato che di tutto il nostro sistema bancario era ed è tornato il massimo reg-gitore. Tutto ciò, evidentemente, non vuol dire che il monopolio non abbia altre ragioni di maggior fondamento di quelle ricordate.

Come ogni monopolio il cartello ha prezzi co-stanti per larghi intervalli di tempo, e codesta ri-gidità temporale è nella pratica attenuata, nel set-tore degli investimenti, discriminando di volta in volta affari e clientela, temperando od acuendo i prezzi base a mezzo delle condizioni complementari di ogni operazione (commissione, valuta, spese ecc.); qualcosa di analogo si ha per le operazioni passive. Coefficenti di elasticità, codesti, che fanno talora degenerare il regime di vendita del credito, la politica del prezzo, in una politica, in un regime di razionamento, ed entrano in gioco quando di-sponibilità e richieste non trovano equilibrio a prezzi compatibili con i confini imposti dal car-tello, nè l'azione della banca centrale, in via di-retta o indidi-retta, riesce a ripristinare quest'equi-librio; coefflcenti, infine, che hanno un limita, un

punto di rottura, raggiunto il quale il credito tra-sborda dai suoi alvei naturali.

E qui è il punto. Infatti il secondo dato, ormai di comune ragione, è la cosi detta « scartellizza-zione » delle banche, e cioè la pratica più o meno diffusa, specialmente nell'ambito delle operazioni passive d'incetta di risparmio, di concedere con-dizioni per la banca meno vantaggiose di quelle fissate dal cartello; qualcosa di analogo, ma in minore misura, accade anche nel settore delle ope-razioni attive. Ciò deriva dall'insufficenza, secondo i prezzi di cartello, della materia prima (il rispar-mio) rispetto alla richiesta di fondi e, per quanto riguarda le operazioni attive, le deroghe al car-tello sono suggerite dalla possibilità di allargare la domanda e, quindi, le occasioni di lucro, se i prezzi fossero più modici di quelli del cartello.

Infine, tutte queste deroghe hanno per effetto non tanto la formazione di un nuovo risparmio da sottrarre ai consumi, da un lato, e dall'altro la sollecitazione di più ampie occasioni di investi-mento, sia pure sotto la forma di mutuo, quanto il rifluire alla banca di operazioni che oggi sfug-gono alla sua attività, alla sua intermediazione: chi dispone di risparmio trova direttamente chi ne faccia richiesta e l'uno e l'altro contraente si accordano a condizioni più vantaggiose di quelle stabilite dal sistema bancario.

Terso dato. La pratica del credito, anche in tempi normali, non è pratica limitata all'attività bancaria, ai produttori di risparmio liquido e a coloro che, tramite la banca, direttamente lo im-piegano nelle diverse combinazioni produttive del-l'industria, del commercio ecc.; ma è pratica che si estende a qualsiasi operatore economico, a chiunque conceda e richieda del credito, ai pro-duttori di qualunque tipo che domandino credito, cioè dilazione di pagamento, ai propri fornitori e lo concedino ai propri clienti. Ora, dopo i provve-dimenti del settembre 1947, e non appena il mer-cato ebbe superato le prime grosse difficoltà di adattamento alla nuova politica del credito, si sono viste sempre più dilagare, appunto, queste due forme e cioè quella testé descritta di cui la larga diffusione delle vendite a rate non è che l'aspetto più popolarmente appariscente, e quella che la banca, scartellando, tenta di riportare sotto il suo dominio d'intermediazione.

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Questi tre dati dicono pure qualche cosa. Anzi-tutto essi denunciano uno sfasamento del cartello nei confronti della situazione del mercato, e ciò« lo sfasamento di un monopolio del quale appro-fittano in misura sempre più larga gli outsiders del cartello stesso; di questo fatto, con i recenti ritocchi alle condizioni del cartello, il Tesoro ha mostrato d' essere al corrente provvedendo con mi-sure che tuttavia mi sembrano ancora troppo de-boli.

In secondo luogo, è indiscutibile che il mercato degli outsiders, dal punto di vista tecnico, sia cento volte meno attrezzato di quello della banca; rac-colta dal risparmio, eventuale sua trasformazione e successiva distribuzione, possibilità di dilatazione, sono tutti requisiti del mercato del credito che nessuno meglio della organizzazione bancaria può portare alla massima efficenza. Pertanto abbando-nare questo perfetto elastico ed unitario meccani-smo perchè i suoi servizi, in un certo senso, sono artificialmente resi troppo onerosi vuol dire scin-derà il mercato del credito in mercati minori tra di loro più o meno isolati e, per questa scissione, vuole altresì dire stornare il risparmio dalle vie di massimo reddito inibendogli, anche per la ridotta o addirittura mancata espansione, di ottenere la sua più economica efficenza.

Non è ohi non veda come la politica della circo-lazione più in alto descritta non sia estranea a questo stato di cose. Se la materia prima, cioè il risparmio, viene a mancare alla banca perchè dalla banca stessa viene forzatamente tolta per essere indirettamente instradata ai finanziamenti valu-tari, difficilmente la tradizionale intermediaria del credito può aver ragione dei suoi outsiders, anche perchè, proprio per quel giro di fondi, i suoi con-correnti, sia pure in via mediata, sono più copio-samente alimentati. D'altro canto, una più liberale politica dei saggi passivi delle banche potrebbe co-stituire, qualora fosse concessa, elemento concor-renziale a danno dell'incetta di risparmio fatta direttamente dalla Tesoreria. Così, la banca co-stretta fra due fuochi, proprio a cagione di una politica di artificioso intervento (il favore dato alle esportazioni, il riassorbimento della circolazione nell'amministrazione dei fondi ERP e l'ininterrotta esecuzione dei rigidi provvedimenti del settembre 1947), è sempre più indotta a violare, quando può, il cartello e ad alleggerire, come ha fatto, la sua posizione in titoli di Stato come tutte le altre po-sizioni che gradatamente si manifestano di red-dito più scarso.

Altre forme di adattamento come quella della riduzione dei suoi costi di gestione o della richie-sta di maggiori facilitazioni da parte dell'Istituto centrale le sono precluse: la prima, dalle condi-zioni del mercato del lavoro e la seconda perchè sarebbe in manifesto contrasto con la generale di-rettiva di contenere, entro certi limiti, il volume della circolazione.

Conclusioni.

In sintesi. La politica della circolazione e del credito, della quale siamo venuti ragionando, non è stata una politica di prezzi, bensì — e fondamen-talmente — una politica di razionamento, di spe-cifico intervento in particolari settori cui il cre-dito è stato dato ed è stato tolto in una misura che. con il prezzo praticato, aveva ben scarso le-game. Ciò ha provocato effetti di vario genere, non ultimo quello di aver allontanato il risparmio dalle vie della massima redditività per avviarlo laddove si mostrava più necessario in vista di un massimo di utilità collettiva, secondo la concezione politico-sociale ohe di questa utilità hanno creduto di dare i massimi organi dello Stato.

Non credo che una più generosa espansione della circolazione e del credito sia condizione necessaria e sufficente per una maggiore efficenza della mac-china produttiva e per una maggiore occupazione; e, qualora fosse concessa senza cautela, ne com-prendo tutti i pericoli, tanto nel campo economico

quanto in quello sociale. Ma parimenti non cr=do che dagli ultimi mesi del '48 e progressivamente a tutto il '49 nonché nei primissimi mesi di quest'an-no, dinanzi a una sequenza di prezzi decrescenti una contenuta maggiore espansione non fosse stata' senza pericolo, possibile e d'altronde necessaria per migliorare le prospettive di reddito degli impren-ditori e, con esse, il volume della produzione: certa carenza dell'iniziativa privata e il largo posto fatto alle importazioni di beni di consumo in confronto a quello dei beni strumentali e d'impianto da parte dell'iniziativa statale sono palesi conseguenze di quella mancata espansione.

Non credo, in altre parole, alla virtù stimolatrice di una abbondante e continuata cura di alcool nè ai drammi dell'alcoolismo, paventati dagli astemi per partito preso, per un semplice bicchierino di vermut. Qualunque sia il grado di espansione, per-la diversa diper-latazione dei prezzi nei vari settori, che da essa deriva, una maggiore circolazione o una maggiore dilatazione del credito provocano sempre un risparmio forzoso. Chi lo soffre, gene-larmente lo soffre senza contropartita: quando ci sia presso altri, essa rappresenta il ricavo di quel risparmio, di quella sofferenza, di quel costo. Si ha, in sostanza, una ridistribuzione della ricchezza seguita da un diverso impiego. Quando in ogni espansione si vuole vedere soltanto un danno, scientemente si chiudono gli occhi su quella con-tropartita.

Una sintesi dei danni di alcuni e dei vantaggi di altri, della gioia e del dolore di persone diverse, è sempre una sintesi politica, suscettibile di giu-dizi diversissimi. Non di meno è lecito pensare che fino a quando non si manifestino sintomi di mor-tificazione della produzione e del risparmio, dal punto di vista strettamente economico, non si possa dare all'espansione della circolazione un significato patologico. Comprendo, tuttavia, che quei sintomi possano derivare da fattori psicologici di difficile previsione e di difficilissimo dominio; come com-prendo ohe l'azione governativa debba preoccuparsi anche degli effetti dell'espansione nell'ambito poli-tico-sociale.

E' sempre la manovra del credito e della circo-lazione, manovra difficile e delicata perchè, nella imperfetta coscienza di tutti i suoi effetti, scarse e mal sicure sono le possibilità di tempestivo rilievo di quest'ultimi, deboli le possibilità d'efficace inter-vento : ci si avvia lungo una china pericolosa, poche sono le segnalazioni stradali e non si è sicuri dei freni. Dato questo terreno malfido non può destare meraviglia che ohi abbia responsabilità di governo possa peccare di troppa prudenza piuttosto che di troppo coraggio, specie se il suo atteggia-mento trova il conforto degli interessi ohe per esso sono protetti e se certe debolezze di recenti teorie economiche sull'impiego e dei loro interpreti più disinvolti lo inducono a ripudiarle in massa.

Tutto questo concesso, non si può non rilevare che se coraggiosa e nel complesso utile è stata la politica d'intervento e in un oerto senso dirigista, che va dalla fine del '47 fino alla seconda metà del '48, il suo permanere nelle primitive rigide forme anche nel periodo seguente si è via via mo-strato fattone di compressione, di intralcio, piut-tosto che elemento di propulsione. E che ciò sia vero lo hanno mostrato — specie nell'ultima parte del periodo considerato — fenomeni vari sia nel campo economico e sia in quello politico-sociale, all'interno e nelle ripercussioni con l'estero, tanto da farne avvertiti gli stessi organi di governo e suggerire loro l'indirizzo programmatico di cui sono stati oggetti i discorsi dei ministri del Tesoro e delle Finanze in sede di approvazione dei loro bilanci.

Vogliamo pertanto sperare che la rassegna cri-tica di un passato recente e lontano, ma non lonta-nissimo, posta all'attenzione del cortese lettore non abbia motivo, per i suoi termini più vivaci, di essere ripetuta per la politica del prossimo avvenire.

Università di Torino - aprile 1950.

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VUieoiiufia aòùoeiata

Quando non è di sovraproduzione, la crisi vi-nicola è di sottoconsumo. Comunque, i suoi aspetti sono identici e si identificano nella difficoltà di collocamento del prodotto e nel rinvilìo progres-sivo del prezzo.

Ora che è di moda parlare di zone depresse, potremmo anche parlare, accennando alla viti-vinicoltura, di industrie depresse, giacché nel de-corso storico i periodi economicamente fortunati del vino sono inferiori, per numero e dimensioni, ai periodi suoi fortunosi. Può quindi ben dirsi che la sua situazione di disagio sia una situazione di normalità.

La colpa, come si sa, è attribuibile ai diaframmi fiscali che separano la produzione dal consumo; alla frode impunita che opera... il miracolo della moltiplicazione vinicola, anzi pseudovinicola; alla mediocrissima valvola dell'esportazione, ecc. Me-diocrissima, perchè, fra l'altro, è sempre mancata al vino, al nostro vino, un'assistenza pubblicitaria, oltre frontiera e oltre oceano, che suscitasse in-torno a sé un effettivo interessamento del pubblico.

Quali che possano essere i rimedi da prescrivere a questo eterno ammalato, lo sanno, ormai, anche i muri, testimoni dei nostri lamenti. Sul muro del pianto dei produttori stanno inutilmente impresse invocazioni di riferimento fiscale. Inutilmente, per-chè per togliere al vino le caratteristiche del vigi-lato speciale bisognerebbe non esistesse una finanza

locale. Come dire non esistessero i Comuni, queste unità monadi del consorzio civile.

Non potendo perciò comprimere, per aumentare il consumo, il prezzo alla foce non resterebbe che comprimere il prezzo alla sorgente. Facile è il dirlo, meno facile è il farlo, perchè i costi di pro-duzione dell'uva e, di riverbero, quelli del vino, sono allo stato attuale delle circostanze economico-sociali, incomprimibili. Si potrà tutt'al più vedere se non sia il caso di utilizzare maggiormente il suolo vitato, onde ripartire su un maggior volume di prodotti quelle spese fisse o generali Che diver-samente graverebbero sull'uva.

Agronomicamente, la cosa è possibile? E' con-sentito alla vite di vivere, nell'isolamento del vi-gneto, ima vita in comune con piante erbacee di natura socievole e di compagnia tollerabile?

Approfondiamone l'argomento.

Le colture erbacee sfruttano preminentemente le sezioni superficiali del suolo, contrariamente alle colture arboree che ne sfruttano le sezioni profonde. La stessa tendenza delle piante arboree — specie a radice fittonante — ad usufruire degli strati inferiori del suolo è aggravata dalla ten-denza dei coltivatori al piantamento profondo. Il quale è un errore di così evidente gravità che non si comprende nemmeno bene il motivo per cui la pratica lo perpetui e lo faccia assurgere a sistema. A parte le conseguenze nefaste del

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pellimento, ohe si riassumono nella difficoltà di respirazione e di accrescimento delle radici, c'è anche il fatto che la terra migliore — bactérica-mente più viva e chimicabactérica-mente più attiva — è sottratta all'usufruimento dell'albero e della pianta arbustiva. Vero è che in nessun caso questa terra potrebbe essere, dalla coltivazione arborea o arbu-stiva, usufruita, perchè anche quando le radici avessero uno sviluppo orizzontale o fascicolato, anche quando il piantamento fosse superficiale fino al limite consentito dalle necessità di anco-raggio della pianta, lo strato più superficiale del suolo — dello spessore per lo più di 20 cm. — rimane in ozio o si fa cantiere di malerbe.

Nel naso di vigneto è proprio utile lasciare sco-perto il terreno o non conviene piuttosto renderlo partecipa della sua maggiore economia produttiva? Dico vigneto, e scrivo di questo perchè la natura nana o arbustiva della vite — della vite non ma-ritata — conduce necessariamente al piantamento affollato, il quale preclude, o per lo meno non favorisce, la promiscuità di coltura. La tendenza odierna, dato l'alto costo dello scasso — sia a mano che a motore che a geoclastite — è appunto orientata alla fittezza dei filari ed il parlare perciò di associare alla vite questa o quella coltura coa-bitatele sembrerebbe un non senso.

Ma un non senso non è, se si pensi ai molti vigneti a filari distanti (da 2 m. in su) nei quali il viticoltore, per reagire alla crisi economica ohe minaccia di prenderlo alla gola, potrebbe — come ho già detto — togliere la vite dal suo isolamento e assoggettarla a coabitazione.

Come dai seminativi oggi è possibile trarre due raccolti all'anno (es. grano - mais quarantino; grano - fagiolo nano; ecc.) così sui terreni vitati è possibile fare altrettanto. Che ciò in molte aziende del Monferrato e delle Langhe venga già fatto conferma che l'idea della coabitazione in viticoltura ha fatto della strada. Ma ohe ne debba fare di più è necessario, ed è appunto per questo che oggi ne scrivo, lieto di avere dalla mia, l'opi-nione di un autorevole cultore di tecnica ed eco-nomia viticola: il prof. Francesco Monticelli, del-l'Ispettorato Agrario di Alba.

Ciò per inciso premesso, ripeto che gli impera-tivi della vita economica più non consentono di tenere terra scoperta, appartenga essa ai semina-tivi che ai vigneti ed agli arboreti. Mentre l'indu-stria chimica ha soppresso, con i concimi, la teoria e la pratica del riposo, l'industria meccanica, con i suoi motocoltivatori, esalta invece la teoria e la pratica del maggese. Un maggese non certo fine a se stesso, come lo esegue l'avv. Carlo Baravalle nella sua inimitabile collezione di viti da uve da tavola, ma coltivato con questa o con quella specie erbacea di maggiore adattabilità e convenienza.

Eliminate le specie esuberanti — per alta o ple-torica statura di steli —- o smungenti — per pro-fondo sviluppo di radici — la scelta non può al-lungare eccessivamente la mano nella serie delle colture principali possibili. Ali'infuori del grano precoce e veloce, e del trifoglio pratense, o della serradella, non saprei cos'altro indicare.

Ma l'accenno a queste due colture non basta. Giova piuttosto spaziare nel settore delle colture intercalari.

L'amico dr. Luigi Cavazza chiamerebbe anche sussidiarie queste colture, giacché «dal 1914 sono venute acquistando un crescente interesse, sia per la più attiva richiesta di produzioni alimentari ed industriali, sia per l'assillante necessità di

rim-pinguare i troppo magri proventi offerti dalle col-ture principali ».

Quindi fra le leguminose da seme — comune-mente denominate civaie — è il caso di annove-rare e consigliare le fave, i fagioli nani ed, even-tualmente, i piselli nani o semi-nani, il moco. Nell'ambito delle leguminose da foraggio è, invece, il caso di scegliere la specie a ciclo rapido ed a corpo modesto. Quindi il pisello da campo, il Dolico o vigna sinensis, la soia verde Guelp o la nera Peking e il lupino, coltivabile tuttavia per sove-scio più che per foraggio, il trifoglio incarnato, ecc.

Se non fossero eccessivamente invadenti, po-tremmo anche consigliare le colture furtive di pi-sello grigio, veccia vellutata, associate — direbbe il Cavazza — ad un po' di panico per il necessario sostegno.

Ma non basta, anche nel settore delle piante ortive, scegliendo tuttavia quelle che alla resistenza all'alidore uniscono l'attitudine alla convivenza, come la patata, i cavoli, ecc.

Giova però non scegliere a caso le singole specie annuali e furtive e giova anche non negare alle stesse un avvicendamento, giacché se alcune — co-me le fave — possono essere ripetutaco-mente colti-vate sullo stesso suolo, altre amano invece ritor-narviei il più tardi possibile.

Così, ad esempio, una rotazione triennale di: riposo letamato - leguminosa da foraggio - leguminosa da seme; oppure di: riposo letamato -leguminosa da foraggio o da seme - cereale, è quanto di meglio può essere attuato dal viticol-tore ohe voglia attraverso una letamazione trien-nale — giacché il letame ha virtù disintossica-trici — vincere la stanchezza del suolo originato dalla troppo breve successione di leguminose no-bili, granellali o foraggere, cerealicole, ecc.

Nella scelta delle specie da coltivare sarà suffi-ciente soppesare le particolari predilezioni di al-cune o le particolari intolleranze di altre. E' il caso di fare alcuni esempi :

La serradella (Ornithopus sativus) — leguminosa annuale — preferisce le terre sabbiose, quelle stesse che non sono tollerate dal trifoglio violetto. Il tri-foglio incarnato — leguminosa furtiva, di semina autunnale — trova la sua stanza migliore nelle terre poco tenaci e poco calcari e ciò perchè que-ste gonfiandosi sotto l'azione del gelo farebbero strage delle tenere piantine. Da notare che il tri-foglio incarnato ha la virtù di non meteorizzare il bestiame e di fornirgli un foraggio verde o insi-lato di notevole pregio. Non pregevole ne è invece il fieno. Addirittura spregevole, anche come forag-gio verde, è il lupino, la cui coltivazione, in terre non calcari, è appunto per sovescio. Il dolico o vigna sinensis, così poco resistente alla siccità, a differenza della soia, ha il suo luogo agronomico nelle terre fresche o di plaghe a frequente pio-vosità.

C'è tutta una casistica in merito ohe si potrebbe sviluppare, se non sapessi che l'agricoltore paventa le norme irretite e le nozioni complicate.

Questo e più di questo e quanto gioverebbe dire agli agricoltori del bel suolo di Aleramo, delle Langhe e di quante altre plaghe collinari, come le prealpine e le preappenniniche, di Torino sono congiunte alla vite, per liberarle dal prevalente indirizzo monocolturale, giacché la viticoltura esclusiva è sempre stata e sarà ancora più croce loro che loro delizia.

E M A M L E IIA I I ISI I I I I

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ALLA SBARRA

I COSTI DI PRODUZIONE

Al quarto Convegno della

Con-findustria (Torino, 15-17 mag-gio; il tema « Il costo di produ-zione » indicava un accusato. La evoluzione della congiuntura na-zionale ed internana-zionale ha po-sto a nudo ohe o l'economia ita-liana elimina l'alto costo di mol-te sue produzioni o si profila la miseria. Un grande accusato, dunque.

Già nel 1904 Pasquale Jan-nacone, relatore ufficiale, aveva pubblicato un pregevole libro sull'argomento. Al Congresso si attendeva dall'economista una trattazione magistrale, ma la saggezza dei suoi quasi ottant'an-ni, di cui buona parte spesi nella meditazione scientifica, ha dato ancora di più.

L'impostazione di Jannacone si è basata sulla differenza tra ciò Che è il costo nella contabilità aziendale e ciò che è nella con-tabilità nazionale. Nella contabi-lità aziendale il costo è quello sopportato dall'imprenditore-ca-pitalista per remunerare i fattori di produzione «altre aziende for-nitrici, lavoratori. Stato). Nella contabilità nazionale la visione supera le frontiere di una sin-gola azienda e si scorge che ciò che è « costo » per un imprendi-tore capitalista è reddito guada-gnato sotto forma di profitti-interessi, salari-stipendi e impo-ste-tasse-contritouti, rispettiva-mente da altri imprenditori-ca-pitalisti, da lavoratori e dallo Stato.

Per la collettività il costo — diciamo costo sociale, tanto per intenderci — cambia quindi fisio-nomia e non può consistere che « nel depauperamento di risorse naturali non ricostituibili, nel-l'invecchiamento e deperimento di attrezzature e scorte non am-mortizzatali, nel logorìo degli or-ganismi umani, nella rinunzia ad usare dati beni in date forme per doverli usare in altre forme, nelle perdite di occasioni a pro-durre più e meglio, dovute ad er-rori e cattive scelte degli opera-tori economici », a tacere degli « elementi psichici, ohe sono la penosità dei lavori manuali ed intellettuali, le ansie dei rischi, le privazioni dei godimenti presenti, le incertezze del futuro » (Jan-nacone).

I r i m e d i tecnici.

Le conseguenze generali discen-dono ovvie. La riduzione del co-sto sociale può conseguirsi in

L'inaugurazione del Congresso a Palazzo Madama alla presenza del Presidente Einaudi e dei ministri Togni e Campili!.

primo luogo, ma non soltanto, per mezzo della tecnica. C'è un otti-mo tecnico di sfruttamento at-tuale e prospettico delle risorse naturali, e spetta principalmente allo Stato conseguirlo, se le ri-sorse naturali sono beni pubblici.

(Il punto non è però stato svi-luppato al Congresso, mentre sa-rebbe desiderabile che in Italia acquistassero un risalto maggio-re questioni come l'erosione del suolo, ecc. tanto discusse in un Paese ricco come l'America).

C'è parimenti un ottimo tecni-co nello sfruttamento delle at-trezzature, delle scorte, degli uo-mini, dei mezzi di scelta fra usi alternativi, dei mezzi di previ-sione economica. In Italia, essen-do l'economia in prevalenza pri-vata, il perseguimento di tale ottimo spetta soprattutto agli im-prenditori capitalisti.

Sulla questione dell'organizza-zione aziendale gli interventi so-no stati numerosi. Si è insistito sulle benefiche conseguenze del-le normalizzazioni, semplificazio-ni ed altre ricette dell'orgasemplificazio-niz- dell'organiz-zazione scientifica (C. Rossi. Pa-renti, Borghini e altri); si è au-spicata la formazione di tecnici dell'organizzazione (Miedico. Pal-ma); si è sottolineata la neces-sità di allargare le produzioni a costi decrescenti (Demaria e al-tri): si è fatta risaltare l'impor-tanza tecnica della ragioneria per la conoscenza dei costi (Onida. Forchino).

Nello stesso tempo non si sono persi di vista i limiti dell'efficacia della tecnica. Quando questa

esi-ge nuovi capitali, bisogna

ricor-dare che l1Italia ne è povera

(Coppola d'Anna, Demaria, Co-sta); oltre una certa dimensione aziendale i costi unitari crescono anziché scendere, l'offerta della merce diviene pericolosamente rì-gida, il mercato si satura e il ri-sparmio di tempo che può risul-tare dalla lavorazione a ciclo continuo può annullarsi nella so-sta in magazzino della produzio-ne (Pacces); il macchinismo può divenire una manìa e il rinnova-mento degli impianti ad ogni costo, magari copiando scimmie-scamente dall'estero, uno « slo-gan » pericoloso (Costa).

Lo stesso Presidente della Con-findustria Costa ha rilevato che il Congresso non era la sede più adatta per trattare le questioni di organizzazione, da risolversi in separata sede da ogni azienda interessata, e Jannacone ha ripe-tutamente avvertito che l'aspetto

economico trascende quello

tec-nico.

I r i m e d i economici. Sotto l'aspetto economico pos-siamo chiederci innanzi tutto se Le condizioni ambientali, isti-tuzionali, giuridiche dell'Italia odierna sono tali da stimolare ovvero paralizzare la riduzione del costo sociale.

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si-stema pubblico della previdenza e dell'assistenza sociale è del pa-ri cpa-riticabile (Pasquato e altpa-ri); mentre le ferrovie statali impe-discono talvolta di sfruttare pie-namente i progressi dell'automo-bilismo (Santoro). Le inframmit-tenze della sfera pubblica in quella privata sono state deplo-rate più volte: per esse si crea-no delle anchilosi nel corpo del-l'economia, oggi purtroppo molto estese data la fase evolutiva, se non degenerativa, del capitalismo privato (Medici); per esse si impongono agli operatori priva-ti delle costose « rime obbligate » iMarchesano); in particolare si incatena la facoltà di combinare nel modo più efficace i fattori produttivi nell'azienda privata

(Argenziano, Onida e altri), com-pito che spetta agli imprenditori in corrispettivo della funzione sociale che devono adempiere

(Padre Morlion); si persiste nel blocco dei licenziamenti e negli imponibili di mano d'opera, di cui il Congresso ha auspicato quasi unanimemente l'abolizione; e nel settore del commercio estero si adottano perniciosi contingen-tamenti e bilateralismi, che sbri-ciolano le nostre correnti d'espor-tazione o costringono a riceve-re in contropartita meno di quanto si potrebbe (Costa). Natu-ralmente la colpa è anche di una situazione internazionale immo-dificabile o quasi dalla volontà di un singolo Paese: per evitare la disgregazione dei mercati in-ternazionali si richiederebbe ad esempio una unione europea.

(E. Rossi).

Altre volte il rimedio è più a portata di mano: perchè non re-staurare nella sua funzione li-mitatriee del rischio di cambio le contrattazioni a termine?' (Galli); oppure, in altro campo, perchè non ridare alla Borsa Valori la sua piena importanza di mercato di smistamento dei risparmi, abolendo o almeno modificando la nominatività obbligatoria dei titoli azionari? (Capodaglio e al-tri). Tutti casi particolari del problema generale di rimettere in efficienza certi istituti finan-ziari e mercantili, come le Borse Merci, di riconosciuta utilità

(problema non affrontato in pieno dal Congresso).

Accanto al problema dei mo-nopoli pubblici si è discusso quello dei monopoli privati. In una situazione di completa con-correnza, gli imprenditori, accet-tando come dati immodificabili del mercato i prezzi di acquisto dei fattori di produzione e i prezzi di vendita dei prodotti, non possono conseguire il mas-simo profitto ohe evitando al massimo gli sprechi, nel senso più ampio della parola : cioè, i loro sforzi per ridurre il costo aziendale non possono mirare alla riduzione delle retribuzioni dei fattori produttivi, ma solo

alla riduzione di ciò che è anche il costo sociale.

Se l'economia privata italiana sia in prevalenza monopolistica o concorrenziale, è rimasto inde-ciso, come era da attendersi : la realtà è sempre una sfumatura male analizzabile tra due colori estremi. Secondo Demaria pre-dominano le cartellizzazioni, i trusts, le concentrazioni, le for-me monopoloidi (ma non tutte private) e la molla che spinge-rebbe in tale direzione saspinge-rebbe la difficoltà di conseguire altri-menti un profitto, la difficoltà di rendere decrescenti i costi unitari, di sbarazzarsi di carichi fissi di mano d'opera, di disporre dei capitali necessari per miglio-rare la produttività tecnica: in poche parole, i limiti già ricor-dati dell'efficacia della tecnica. Costa e Jannacone non hanno accettato tale tesi, non solo per-chè scorgono accanto a limitate zone di monopolio la concorren-za più generale, ma pure perchè non convinti della spiegazione, della « molla » di Demaria.

Alcuni interventi sono stati a favore delle piccole imprese (De-rossi, Morselli).

Distribuzione del reddito e eosto di produzione.

Per un altro aspetto, forse di importanza maggiore, il regime concorrenziale o monopolistico si ripercuote sui costi dì produzio-ne. Se il mercato reale fosse il mercato ideale della concorrenza perfetta, « la quota di remune-razione di ogni singola particel-la di fattore produttivo sarebbe determinata dall'aumento di prodotto, in natura o valore monetario, arrecato dall'aggiunta di quella particella ad una pre-esistente combinazione di fat-tori ». Ma sul mercato reale la concorrenza non è mai perfetta, anche se il monopolio non pre-domina, onde « la distribuzione del reddito sociale non è la ri-sultante delle singole quote che ciascun portatore di particelle di fattori di produzione abbia libe-ramente domandate ed ottenute in ragione del suo contributo al prodotto; ma è prevalentemente determinata dall'azione di gran-di complessi gran-di taluni fattori», e precisamente dei tre seguenti: quello degli imprenditori-capita-listi, quello dei lavoratori e in-fine quello dello Stato (Janna-cone).

Per iniziare dall'ultimo, la parte del reddito sociale assor-bita dallo Stato sotto forma di imposte, tasse e contributi giu-stifica la produzione dei beni e servizi pùbblici o non lascia piuttosto scorgere degli sciupìi, dei costi inutili? Secondo alcuni (Costa, Visentini e altri) il pre-lievo dello Stato è sproporzionato rispetto al reddito sociale; quel che è peggio, detto prelievo non grava sui contribuenti nei limiti del reddito individuale effettiva-mente maturato (Capodaglio e altri); insomma non si ha una distribuzione ottima del carico fiscale, sebbene la definizione dell'« ottimo » non trovi tutti concordi, a motivo dei problemi intricati connessi alla traslazione e diffusione delle imposte.

Taluni concedono la preferen-za alle imposte dirette e perso-nali (Cosciani, Visentini e altri); taluni a quelle indirette, anche per motivi di praticità di accer-tamento e di pagamento, poiché la riscossione ha un suo costo, oggi troppo elevato (Berliri); imposte indirette ohe tuttavia non dovrebbero gravare sulla produzione, che riverserebbe co-munque sul consumo l'onere re-lativo (Costa), ma immediata-mente sul consumo stesso, ad esempio per mezzo di monopoli fiscali (Griziotti), ad evitare di-sturbi ai cicli di lavorazione.

I criteri generali da seguire sono stati, al solito, precisati chiaramente da Jannacone: le imposte dirette non devono in-taccare a fondo i risparmi, i re-investimenti, le riserve e gli am-mortamenti; le imposte indirette non devono distruggere la con-venienza del movimento e della trasformazione dei beni. Non de-vono neppure portare a dannosi spostamenti degli investimenti

(La Volpe, Costa). Perciò la con-danna dell'imposta sull'entrata è stata pressoché generale, con forse un'unica eccezione (Bat-tara).

Un cenno a parte merita l'ar-gomento dei contributi sociali, che alcuni congressisti hanno la-mentato gravino solo sugli im-prenditori (Livi, Pasquato e al-tri) e che in pratica sono una imposta sull'occupazione di mano d'opera (Costa). E' vero però che, se anche trasferiti sulla col-lettività, il peso di tali oneri per la maggior parte ritornerebbe inevitabilmente a gravare sulla produzione (Jannacone).

Passiamo ad un altro fattore di produzione, il lavoro. L'altezza dei salari e degli stipendi, come influisce sul costo sociale? Una politica di alti salari, che stimoli la produttività del lavoro e con-senta un aumento dei consumi e quindi della produzione, è in genere considerata

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te (Jannacone, Cattaneo). Un aumento dei salari dovrebbe se-guire ogni aumento di produtti-vità (Pesenti).

Ma il lavoro costituisce un co-sto anche quando è disoccupato, praticamente è un costo fisso per la collettività (Vito, Pesenti, Pa-dre Morlion); l'erogazione dei sussidi ai disoccupati non deve però prescindere dall'indagare di quale tipo sia la disoccupazione e quali conseguenze sull'occupa-zione aibbia l'addossare alle im-prese l'onere dei sussidi stessi

(Jannacone).

Ultimo fattore di produzione: gli imprenditori capitalisti. Gli strali si sono appuntati contro le imprese bancarie e l'alto costo del denaro (Demaria e altri). L'onerosità della gestione banca-ria è imputata all'attuale molti-tudine di « piccole operazioni »

(Saraceno), alla concorrenza nel-l'apertura di nuove agenzie e allo scarso uso del risconto pres-so l'Istituto di emissione (Costa) nonché all'alta percentuale dei depositi vincolati per legge (Mar-tinenghi). Tuttavia, fondamen-talmente, i capitali costano per-ché sono scarsi, perchè al ri-sparmio si offrono condizioni di investimento troppo aleatorie, perchè la redditività delle im-prese è deficiente (Jannacone, Caprara, Amaduzzi). Perciò un ribasso artificiale del prezzo del denaro potrebbe compromettere la stabilità monetaria peggioran-do il rapporto fra impegni ban-cari e disponibilità monetarie

(Jannacone). Potrebbe anche stimolare cattivi investimenti

(Costa).

E invece non si deve investire per investire, specialmente quan-do non si utilizzano in pieno neppure gli investimenti già fatti (Lombardi); però, proprio perchè non solo il lavoro è in parte disoccupato, ma anche il capitale, sotto forma di capaci-tà produttiva non interamente sfruttata, è consigliabile secondo altri una politica di spesa pub-blica, di « deficit spending »

(Steve). Analogamente sono con-sigliati interventi pubblici nel campo monetario e sui cambi,

ma in ogni caso non tali da in-generare una spirale inflazioni-stica (Dominedò).

La protezione concessa a certi settori dell'economia italiana è stata giustamente riguardata come caso particolare dell'in-fluenza. che in genere la distri-buzione del reddito ha sui costi

Il punto cruciale rimane quel-lo di assicurare che la riparti-zione del reddito sia tale da di-minuire il costo sociale, promuo-vendo il progresso del reddito stesso. E in vista di tale obiet-tivo è indispensabile la collabo-razione più stretta tra i fattori di produzione, collaborazione che

di produzione. E' stata auspicata la riduzione di tale protezione

(Griziotti), o la sua sostituzione con sussidi e altre forme di aiuti

(Arena), mentre in ogni caso deve riconoscersi all'esportazione lo sgravio fiscale (Jannacone ed altri). Si è notato che la prote-zione doganale è un po' il com-penso col quale lo Stato « paga « i suoi carichi fiscali (Storoni). Forse perchè il punto era già stato toccato in precedenti con-vegni, non si è discussa in det-taglio la protezione della nostra siderurgia.

Si è riconosciuto che la diver-sa distribuzione, nei vari Paesi, del reddito fra i tre grandi complessi : imprenditori-capitali-sti, lavoratori e Stato, è alla base delle difficoltà che si frappongo-no alla costituzione di unioni doganali, difficoltà che si estrin-secano in legislazioni da armo-nizzare nei campi ficcale, sociale, economico in genere.

si giustifica nella comunanza di interessi (Jannacone, Parenti, Gamfca'ini). L'opinione pubblica dovrebbe in proposito essere con-venientemente illuminata (Bobic, Berti-Ceroni).

Sono stati forniti, nel corso del Congresso, interessanti dati statistici sui costi comparati in genere (Tenti) e nell'industria della gomma (Pirelli), sugli one-ri sociali (Livi, Corsi), sul costo del lavoro (Bandettini), sui costi bancari (Saraceno), sul costo delle costruzioni navali (Fusini) e sul costo dei combustibili (Roma). E' stata auspicata la raccolta di una maggior massa di statistiche e in particolare la attuazione di un nuovo censi-mento industriale e commerciale

(Di Fenizio), attuazione che si compirà probabilmente entro l'anno in corso (Maroi).

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Una seduta del Congresso: parla ¡1 dott. Costa, presidente della Confindustria.

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