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Il βαρυμάνιος ἥρως nel mondo ellenistico: Aiace, Alessandro, Cesare

Capitolo 1. UN EROE GRECO CHE PIACE A ROMA

1.2. Il baluardo degli Achei oltre l’epica arcaica

1.2.3. Il βαρυμάνιος ἥρως nel mondo ellenistico: Aiace, Alessandro, Cesare

Per concludere la rassegna greca del volto guerriero di Aiace resta da setacciare quel periodo della storia e della letteratura greca cronologicamente più vicino alla fioritura storica e letteraria di Roma: l’ellenismo. Poche sono però, in generale, le menzioni esplicite di Aiace nelle scarse testimonianze giunte fino a noi. Sappiamo, per esempio, che Euforione aveva dedicato dei versi ad Aiace e, in particolare, alla descrizione del suicidio dell’eroe (Schol. Pi. N. 7.39a). Ma rare sono le specifiche allusioni all’aspetto guerriero dell’eroe che, con il suo massiccio vigore, mal si accordava forse ai toni letterari del tempo, all’erudito gusto alessandrino e ai principi di raffinatezza callimachea. Certo non mancava, come attesta in tono polemico lo stesso Callimaco, una produzione di poemi esametrici d’ispirazione omerica, dove potevano quindi trovare accoglienza modelli di eroi e di imprese di tipo iliadico. Ma – nonostante la “posa” critica assunta da Callimaco – anche questa galassia di poemi per noi irrecuperabili doveva essere conforme, seppur in vario grado, alle nuove tendenze alessandrine (per cura formale, interessi eziologici, digressioni erudite o scopi encomiastici).70 Il volto eroico dell’Aiace iliadico, se davvero ripreso ed usato in questa produzione epica ellenistica, sarà stato oggetto di elaborazioni e giudizi peculiari e contingenti al carattere dell’epoca. Resta, come unico dato registrabile, l’apparente assenza di esplicite menzioni di Aiace nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (unico poema alessandrino sopravvissuto), nonostante tra i protagonisti delle sue vicende figurasse il padre dell’eroe, Telamone.

Inaspettatamente, è dalla poesia bucolica di Teocrito che ci arrivano due menzioni del volto guerriero di Aiace. La funzione che l’eroe assume negli Idilli è, in realtà quella di un esempio compendiario – citato insieme ad altri – del mondo mitico e eroico. In Theocr. 16.73-5, il poeta bucolico, lamentando l’avidità contemporanea che preferisce la ricchezza alla gloria delle celebrazioni poetiche, dice di essere in cerca di un uomo tale da aver bisogno della sua arte, un uomo dalle imprese grandi (ῥέξας μέγας) come quelle compiute dal μέγας Ἀχιλεύς o dal βαρὺς Αἴας, nella piana del Simoenta. Citato, insieme ad Achille, come esempio di quegli uomini valorosi le cui gesta vengono cantate dai poeti, Aiace si presenta qui come modello di grande eroe omerico, senza

70 Cf. Cameron (1995) 263-302. Per un utile riepilogo delle posizioni interpretative sulla natura di queste

particolari menzioni al tipo difensivo del suo eroismo, o alla sua qualità di resistenza. Un aggettivo gli viene però associato: βαρύς, “greve”, “profondo”, in cui si può forse cogliere un’allusione alla sua stazza iliadica, pesante e possente. Ma lo stesso aggettivo, ampliato in un composto, si trovava associato ad Aiace anche in Theocr. 15.136-42: il nome di Aiace compare qui insieme a quelli di altri personaggi mitici (Agamennone, Ettore, Pirro, i Lapiti, i Pelopidi), collettivamente contrapposti ad Adone – la cui festa cerimoniale fa da cornice all’idillio – il solo capace di tornare dalla morte. In questo elenco di eroi, Aiace viene definito Αἴας ὁ μέγας, βαρυμάνιος ἥρως. Se, già in Omero, frequente era la combinazione di Aiace con l’epiteto μέγας, volto a visualizzare la grandezza fisica dell’eroe o anche semplicemente a distinguerlo dall’omonimo Oileo, è invece l’aggettivo βαρυμάνιος a destare l’interesse maggiore. Qui la connotazione di grave profondità implicata da βαρύς si lega infatti a μῆνις, la collera: Aiace viene cioè definito con un attributo che ne indica la cupa collera, l’ira pesante e opprimente. Quella che, negli ultimi atti del suo mito, lo condurrà al furore, alla violenza e al suicidio. βαρυμάνιος – e forse anche il semplice βαρύς associato allo stesso eroe – sembra dunque fare di Aiace non un eroe dalla salda fermezza ma una figura dall’aspetto torvo e greve. Tutto in un contesto che non offre in realtà alcun appiglio alla menzione della furia di Aiace ma anzi cita l’eroe come generico esempio di grande eroe del mito. Nel cospicuo naufragio della poesia ellenistica, come si è detto, resta difficile tracciare ipotesi sul trattamento riservato al volto guerriero di Aiace. Tuttavia, la comparsa di un aggettivo come βαρυμάνιος/βαρύς, privo di apparenti motivi contestuali, suggerisce una certa tendenza, anche automatica e inconscia, a percepire Aiace non attraverso la figura del grande baluardo iliadico ma attraverso quella extra- omerica dell’eroe furioso: una figura forse più vicina alla sensibilità ellenistica, che univa alla cura formale e all’eleganza erudita un diffuso gusto per le tinte più tetre e il pathos più oscuro.71 Anche se citato, come in Teocrito, come generico esempio mitico e eroico, è la cupa pesantezza della sua furia a determinare la connotazione di Aiace. Il terreno si fa qui sdrucciolevole e speculativo, nella scarsità delle attestazioni. Rimane soltanto possibile ricordare che, complice o no il passaggio attraverso questo gusto ellenistico, toni oscuri prenderanno stabilmente posizione nel ritratto di Aiace, moniti quasi epitetici del truce esito della sua storia. Così, nella dettagliata descrizione estetica che il bizantino Tzetzes farà dell’eroe nei suoi Posthomerica, la cupa gravità dell’eroe trova la sua oggettivazione in un vero e proprio tratto fisico, dunque perenne e “oggettivo” (Tzs. Posth. 492-94): “ma ora ascolta anche che aspetto (μορφή) aveva l’eroe” scrive Tzetzes; “era coraggioso, grande, con un bel naso, ben piazzato e con i capelli ricci, la pelle scura, barbuto, dallo sguardo torvo (βλοσυρῶπις) e di nobile stirpe”. Lo sguardo di Aiace viene definito dall’aggettivo βλοσυρῶπις, un termine raro e altrove riservato allo sguardo della Gorgone (Hom. Il. 11.36), dell’Ira personificata (Man. Apoteles. 6. 202) e delle Erinni (Q. S. 8.243).

Esiste, infine, un particolare contesto letterario greco-ellenistico che potrebbe essere stato più aperto di altri al reimpiego del volto guerriero ed eroico di Aiace: si tratta di quell’insieme di racconti storici e leggendari legati alla figura di Alessandro Magno, grande guerriero anch’egli, condottiero ed eroe. Tali racconti sono per noi praticamente irrecuperabili e difficile è capire quanto, da queste narrazioni ellenistiche, derivi il materiale, molto più tardo, giunto fino a noi. La possibilità che Aiace, modello di eroismo mitico, comparisse nei racconti delle grandiose imprese di Alessandro sembra tuttavia riscontrabile già nel I a.C., nell’opera di Diodoro Siculo. Secondo Diodoro, infatti, nel decisivo momento del passaggio in terra d’Asia, Alessandro avrebbe fatto visita proprio alla tomba di Aiace (Diod. 17.17.3): mentre a Roma erano consoli Sulpicio e Papirio, scrive Diodoro, Alessandro avanzava nell’Ellesponto, alla guida di sessanta navi da guerra; giunto in prossimità della costa, scagliò una lancia dalla nave verso la terra della Troade, dove poi sbarcò, da solo e per primo tra i Macedoni, πρῶτος τῶν Μακεδόνων. Sbarcata la flotta, continua Diodoro, Alessandro fece visita e riservò i dovuti onori alle tombe di Achille e di Aiace, e a quelle di altri eroi caduti a Troia: καὶ τοὺς μὲν τάφους τῶν ἡρώων Ἀχιλλέως τε καὶ Αἴαντος καὶ τῶν ἄλλων ἐναγίσμασι καὶ τοῖς ἄλλοις τοῖς πρὸς εὐδοξίαν ἀνήκουσιν ἐτίμησεν. Ancora una volta, dunque, Achille e Aiace si fanno compendio e massimo esempio dell’eroismo omerico: solo i loro nomi sono infatti esplicitamente nominati come destinatari dell’omaggio di Alessandro, il nuovo eroe “acheo” sbarcato a Troia. Aiace e il Pelide assumono cioè una posizione di primo piano come antenati e propiziatori della nuova, grandiosa impresa militare che la grecità avrebbe compiuto in oriente. Non solo per assimilazione ideologica ma anche per discendenza mitica72 forte era, del resto, il legame tra i due eroi e Alessandro. Quello con Achille, in particolare, protagonista del poema iliadico, resterà una presenza costante nei ritratti del condottiero macedone, così come costante resterà la scena degli omaggi funebri da questi prestati alla tomba di quel grande eroe. Non così per Aiace, la cui tomba non ricompare, altrove, come esplicita destinataria di onori.73 La notizia di Diodoro, tuttavia, non resta isolata: Lucano la raccoglie infatti nell’ambito dell’imitatio Alexandri del suo Giulio Cesare (Lucan. 9.961-3):

Sigeasque petit famae mirator harenas et Simoentis aquas et Graio nobile busto Rhoetion et multum debentes vatibus umbras.

72 I Molossi, la famiglia di Alessandro, erano ritenuti discendenti del mitico Pirro, figlio del Pelide (Curt.

4.6.29; 8.4.26, Plu. Alex. 2.1). Il grande condottiero macedone era dunque un Eacide, discendente di Achille ma parente anche di Aiace, che di Achille era cugino.

73 In Plu. Alex. 15.4 Alessandro porta una corona alla tomba di Achille dopo aver libato, sulla rocca di Ilio,

ad Atena e, genericamente, τοῖς ἥρωσιν. In Arrian 1.11.6-8, alla visita alla tomba di Achille si aggiunge un sacrificio su quella di Protesilao e uno in onore di Priamo, per placare l’eventuale ira del vecchio spirito contro lo stesso Alessandro, discendente di Pirro. In Iust. 11.5.11 vengono infine ricordate le solenni esequie tributate sulle tombe di coloro che erano caduti a Troia, senza che venga citato alcun nome specifico.

Dopo aver sconfitto Pompeo a Farsalo, Cesare “si reca alle spiagge del Sigeo, affascinato dalla fama di quei luoghi, e alle acque del Simoenta e al capo Reteo”.74 Il Graium bustum che adorna il Capo Reteo e attrae la visita del Cesare di Lucano è molto probabilmente il sepolcro di Aiace, collocato, secondo una diffusa tradizione antica,75 proprio presso il promontorio Reteo. Sulla base di un’imitatio Alexandri che sembra riprendere proprio la versione delle visite tombali attestata da Diodoro, il Cesare della Pharsalia rende dunque omaggio alla tomba del Telamonio. Anzi, la menzione di Aiace sostituisce quella del Pelide, rivelando una scelta significativa, quantomeno perché selettiva, da parte del poeta romano. Il passo è carico di una tetra atmosfera, addensata da

umbrae che colorano di toni cupi la scena: ciò che resta, di quegli uomini che combatterono a Troia,

è l’inconsistenza e l’oscurità dell’ombra, non fosse per il canto dei poeti. Tutt’intorno si estende un paesaggio di rovine, che ormai si sgretolano, della città che fu Ilio. Anche della tomba di Ettore non resta nulla di riconoscibile, tanto che Cesare la calpesterà per sbaglio.

Il luogo della vittoria achea, che per Alessandro era stata la simbolica fonte di una nuova vittoria dell’occidente sull’oriente, nel passo di Lucano sembra dunque farsi immagine di distruzione e di oblio. Più della vittoria achea è la fine di Troia a farsi protagonista della scena, nefasto presagio per una Roma in balia del furor della guerra civile: verrà il giorno in cui anche la fama di Roma e delle sue umbrae si affiderà solo al magnus vatum labor (Lucan. 9.980), al canto dei poeti. In questo scenario di lugubre fragilità umana, contro la quale solo la poesia può combattere, l’esplicita menzione della visita di Cesare alla tomba di Aiace (e non a quella di Achille o di altri eroi achei) sembra trovare una significativa coerenza. Grande e possente guerriero, anche Aiace era stato travolto dal furor autodistruttivo e si era scagliato contro i propri compagni, e poi contro se stesso, in un archetipica guerra civile. Dietro la figura omerica dell’eroe, modello eroico e militare per Cesare come già per Alessandro, anche gli aspetti più cupi della vicenda di Aiace potrebbero dunque intervenire nella scena. Non solo. Segnato da una fine sventurata, il Telamonio aveva necessitato, già almeno secondo Pindaro, del tributo eternatore della poesia, capace di rendergli il giusto onore (Pi. I. 4.37-9): ἀλλ’ Ὅμηρός τοι τετίμακεν δι’ ἀνθρώπων, ὃς αὐτοῦ / πᾶσαν ὀρθώσαις ἀρετὰν κατὰ ῥάβδον ἔφρασεν / θεσπεσίων ἐπέων λοιποῖς ἀθύρειν.

74 La visita cesariana ai luoghi simbolo dell’impresa iliadica potrebbe trovare anche un sostegno storico:

in Caes. civ. 3.106.1, per esempio, Cesare sembra in effetti attardarsi più di un giorno in quelle zone; Strab. 13.1.27 ci parla poi della libertà concessa da Cesare alla città di Ilio, forse proprio in occasione di una sua visita al famoso luogo omerico. Per queste considerazioni cf. Pelling (2011) 376.

75 Si veda Serv. ad Verg. Aen. 2.506; Mela 1.85(96); Plin. nat. 5.125; Strab. 13.30; Apollod. epit. 5.7; Q.

S. 5.654-6. In particolare, Strabone parla di μνῆμα καὶ ἱερὸν Αἴαντος, di una statua e di un tempio eretti nel luogo del sepolcro di Aiace sul Reteo. Le ceneri di Achille, al contrario, giacevano, secondo alcuni, presso il promontorio del Sigeo; secondo altri erano state trasportate da Teti sull’Isola Bianca; per Plinio la tomba del Pelide si trovava non lontano dalla foce del Danubio, per Mela ad Achillea, un’isola fra Boristene e Istro. Per questi passi cf. Wick (2004) 411. Due cimiteri sono in effetti stati scoperti nei pressi del Capo Reteo: uno è quello scavato già nell’ottocento da Frank Calvert, vicino al già arcaico e poi classico centro abitato Rhoeteum; l’altro, più esteso, è vicino all’insediamento identificato come Rhoteum ellenistico. Cf. Cook (1973) 77-99.

L’importanza della veridica fama poetica potrebbe allora motivare il ricordo di Aiace nel passo lucaneo, commosso dalla deperibilità della grandezza umana e insieme convinto dell’eterna grandezza della poesia, immortale compenso alla precarietà mortale. Suggestioni diverse ma potenzialmente compresenti si muovono dunque dietro la presenza di Aiace sul cammino di Cesare. Esempio di illustre eroe e, insieme, di nefasto furor, Aiace appartiene, come Cesare, a quella categoria di grandezza sempre a rischio di eccesso. Ma Aiace è anche un eroe che più di altri dimostra la potenza della poesia, capace di innalzare e celebrare il valore, compensando la sorte avversa di un destino mortale. Come per Troia, anche nel caso di Aiace la fama poetica ha garantito ciò che gli eventi hanno distrutto. È questo potere che viene celebrato nel passo lucaneo, dove l’immortalità della poesia, l’unica fuga possibile dalla fragilità umana, viene garantita a Cesare e al poeta stesso (Lucan. 9.984): venturi me teque legent.