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Imperii scutum: Aiace e Quinto Fabio Massimo

Capitolo 2. AIACE CONTRO ETTORE: UN DUELLO ROMANO

3.2. Imperii scutum: Aiace e Quinto Fabio Massimo

Nell’epica romana si attivano dunque prototipi narrativi di scene di salvataggio che trovano il loro corrispettivo in fatti militari reali, storici e storiografici. Indelebili archetipi mitici ed epici di questi prototipi, seppur impliciti e involontari, restano tuttavia i casi omerici e, quindi, i fatti di Aiace. L’episodio del soccorso prestato a Ulisse dal Telamonio era noto, lo abbiamo visto, nel mondo romano, e trovava la sua più diffusa collocazione nel contesto della rivalità tra i due eroi. Se allora il modulo-tipo dei salvataggi romani poteva sempre potenzialmente ricordare il modello dell’Aiace iliadico, non è impossibile che, soprattutto attraverso il filtro epico ovidiano, tale modello venisse talvolta richiamato con più chiara intenzionalità. Aiace, ripetiamolo, è l’eroe del grande scudo, che ne esprime, in estrema sintesi, la natura resistente, statica e difensiva: la sua qualità non è l’ὁρμή ma, come ben coglie e “romanizza” Cicerone, la fortitudo. Coerente con questa natura di eroe-scudo è una certa “attitudine al salvataggio”, che fa di Aiace il principale protagonista tanto delle scene iliadiche di soccorso solitario quanto della grande resistenza presso le navi, nel momento di maggior difficoltà per l’esercito acheo. Ecco allore che, in uno dei momenti più difficili della storia romana, quello della calata di Annibale, c’è almeno un eroe di Roma che sembra farsi simile icona difensiva. E questo eroe è Quinto Fabio Massimo. Già per Ennio, Fabio è colui che con la sua capacità di mantenere la calma e di aspettare, invece che avventurarsi in temerari attacchi, riuscì a ricomporre le sorti della res publica (Enn. ann. 363 Sk.): unus homo nobis cunctando restituit rem. Fabio, in altre parole, incarna lo spirito della virtus militare romana, della fortitudo e del modus.118 Egli è il generale di animo valoroso e saldo, privo di quella furia impaziente di combattimento, che caratterizza invece il suo più giovane collega nel consolato, Marco Minucio Rufo.

118 Su queste romanissime qualità di Fabio rimando a von Albrecht (1964) 68–76; Burck (1979) 254–99;

Fabio, è noto, aveva compreso che uno scontro diretto con le potenti truppe di Annibale avrebbe indebolito inesorabilmente le forze romane; con imprudente ardore, Minucio aveva invece deciso di sfidare l’esercito cartaginese in campo aperto, criticando duramente l’atteggiamento del collega.119 Finì così per mettere in serio pericolo metà dei contingenti romani (la metà che era ai suoi comandi) e solo Fabio, giungendo in soccorso, poté salvare il collega e i soldati da una morte certa. Non di un

animus elatus, che si lanciasse in un attacco sconsiderato, ma di uno scudo, di una strenua resistenza,

aveva bisogno Roma per sostenere la violenza di Annibale. E Fabio fu quello scudo. Nell’epitome di Floro a Livio (Flor. epit. 1.22.27) leggiamo infatti che Fabio portò rinnovata speranza ai Romani:

prima redeuntis et […] revivescentis imperii spes Fabius fuit. A lui venne dunque assegnato il

cognome di Cunctator per il modo in cui era riuscito ad arginare l’avanzata di Annibale. E, su acclamazione del popolo, venne proclamato ‘Scudo di Roma’: hinc illud ex populo, ut imperii

scutum vocaretur.

Solo dopo verrà, con Marcello, il tempo della spada, cioè il tempo dell’offensiva. Significativo è in questo senso un passo di Posidonio, citato da Plutarco per ben due volte, sia nella vita di Marcello sia in quella di Fabio. Secondo Plutarco, già ai tempi di Posidonio (II/I a.C) sembra infatti che i Romani chiamassero Fabio Massimo e Claudio Marcello, rispettivamente, “scudo” e “spada” (Plu. Marc. 9.7): ὁ δὲ Ποσειδώνιός φησι τὸν μὲν Φάβιον θυρεὸν καλεῖσθαι, τὸν δὲ Μάρκελλον ξίφος. Non indifferente, forse, è la scelta del termine per indicare lo scudo: lo θυρεός definisce infatti uno scudo massiccio, “a forma di porta”, che sbarra il passaggio: è il termine normalmente usato in greco per indicare lo scutum romano. A uno scutum è dunque comparato Fabio Massimo, lo scudo saldo e pesante della fanteria, il più simile al σάκος di Aiace; lo stesso scutum che, in effetti, molti eroi di Roma impugnarono per esortare il proprio esercito nei momenti più duri.120 Uno scudo e una spada, due eroismi complementari, riuscirono quindi, per prima cosa, a fermare l’avanzata di Annibale e, poi, a contrattaccare e a sconfiggerlo. Sempre secondo Posidonio (questa volta citato in Plu. Fab. 19.3) la βεβαιότης e la ἀσφάλεια, la fermezza e la resistenza di Fabio, unite alla συνήθεια,121 alla rodata esperienza militare di Marcello, determinarono la salvezza di Roma: σωτήριον γενέσθαι τοῖς Ῥωμαίοις. Se Marcello è la spada, dunque, Fabio, come Aiace, viene ipostatizzato nell’immagine dell’eroe-scudo, capace di sopportare e resistere con fermezza e controllo. Questo non significa, ovviamente, che la virtus di Fabio sia stata immaginata e costruita

119 Si veda per esempio il discorso di incitamento tenuto da Minucio all’esercito in Liv. 22.14.14: […]

arma capias oportet et descendas in aequum et vir cum viro congrediaris. audendo atque agendo res Romana crevit, non his segnibus1 consiliis quae timidi cauta vocant.

120 Vd. supra n. 87.

121 Marcello non è l’avventato Minucio che pensa di essere migliore di Fabio, opponendosi alla sua

strategia di resistenza: la qualità di Marcello non è infatti la rischiosa audacia personale ma la συνήθεια, l’abitudine alla battaglia. O la συντονία (la tensione, la concentrazione, l’impegno), secondo una congettura di Coraës, adottata da Bekker (1855) 300. Si tratterebbe, anche in questo caso, di una qualità basata sul vigore e la saldezza, nonchè sull’idea di accordo armonioso (συν-τονία), potremmo dire, “secondo misura”.

nella cultura romana a partire dall’esempio del Telamonio. Diventa però possibile, e anzi opportuno, sottolineare la vicinanza qualitativa dei due personaggi, inevitabilmente percepibile per la sensibilità romana e potenzialmente foriera di sovrapposizioni, questo sì, negli esiti letterari. Ancora una volta l’opera di Silio Italico offre un fertile terreno di analisi. Direttamente incentrati sui fatti storici della seconda guerra punica, i Punica hanno infatti Fabio Massimo tra i loro più grandi protagonisti. E, nel poema, anche le gesta storico-storiografiche del Cunctator si conformano a moduli narrativi della tradizione epica, tra i quali è possibile scorgere l’influenza del salvataggio iliadico. Come Aiace, anche Fabio, lo scutum imperii, interviene in soccorso di un compagno in difficoltà: è lui a salvare il collega Minucio che si era imprudentemente avventato nella sfida contro Annibale. La storiografia romana aveva già raccontato l’episodio (Liv. 22.29.2):

Fabio aequatus [Minucius] imperio Hannibalem et virtute et fortuna superiorem videt. sed aliud iurgandi suscensendique tempus erit. nunc signa extra vallum proferte. victoriam hosti extorqueamus, confessionem erroris civibus.

Nel passo liviano Fabio incita le proprie truppe a prestare soccorso a quelle di Minucio il quale, equiparato nell’imperium consolare, aveva preso la fallimentare iniziativa dello scontro. Altro sarà però il tempo per le critiche e il risentimento: ora occorre strappare una vittoria ai nemici e un’ammissione dello sbaglio da parte dei concittadini. Come calata dal cielo (velut caelo demissa), la

Fabiana acies viene dunque in aiuto agli uomini di Minucio, in parte già uccisi, in parte volti alla fuga

(iam magna ex parte caesis aliis, aliis circumspectantibus fugam). Con l’intervento delle truppe di Fabio la situazione si inverte e alla fine è Annibale a suonare la ritirata, dichiarando di aver vinto, sì, Minucio ma di essere stato sconfitto da Fabio (palam ferente Hannibale ab se Minucium, se ab Fabio

victum). Se dunque la scena raccontata da Livio acquista i caratteri di un quadro collettivo –

l’intervento descritto è quello di tutta la Fabiana acies – molto più vicino al modello degli episodi di salvataggio epico è il racconto costruito dai Punica per la stessa vicenda. Qui Fabio, giunto a prestare aiuto, assiste al triste spettacolo di Minucio, fiaccato dalle ferite e coperto di sangue (Sil. 7.706-10):

miserabile visu vulneribus fessum ac multo labente cruore ductorem cernit suprema ac foeda precantem. manavere genis lacrimae, clipeoque paventem protegit.

Fabio interviene in soccorso del collega, che fino a poco primo lo aveva avversato, e lo copre con il suo scudo, mentre quello è in preda alla paura (clipeoque paventem / protegit). Joy Littlewood, nel suo commento,122 cita come parallelo e antecedente di Silio il caso di Aleso che, nel decimo libro dell’Eneide, protegge il proprio compagno. Ma, se il poema virgiliano era indubitabile modello dei

Punica, un altro passo epico, sempre latino, risuona forse con più forza in questi versi: si tratta della

contesa tra Aiace e Ulisse, narrata da Ovidio nel tredicesimo libro delle Metamorfosi. Ulisse, come Minucio, pensa immeritatamente di poter stare al pari di Aiace (questa, almeno, è l’opinione dello stesso Aiace, che racconta l’episodio) e si contende con lui l’assegnazione delle armi di Achille. In altre parole, Ulisse si propone come un indebito aemulus di Aiace (Ov. met. 13.17: sed demit

honorem aemulus) proprio come Minucio era apparso aequatus a Fabio già in Livio (Liv. 22.29.2: Fabio aequatus imperio) e ora anche in Silio (i loro imperia aequantur nel consolato, in Sil. 7.516).

Due rivali sono dunque, in entrambi i casi, i protagonisti di questa scena di salvataggio. L’indegno aemulus, in entrambi i casi, appare bisognoso dell’intervento e dell’aiuto proprio di colui che ha osato sfidare. Nel caso di Ulisse, Aiace racconta di come fosse giunto in suo soccorso e di come lo avesse visto, pallido e tremante, angosciato dalla fine ormai vicina (Ov. met. 13.74-5):

adsum videoque trementem / pallentemque metu et trepidantem morte futura. Misera è la vista

(miserabile visu) che si offre anche agli occhi di Fabio (cernere è il verbo): Minucio è abbattuto,

vulneribus fessus, impaurito anche lui (pavens) e invoca vergognosamente la morte (suprema ac foeda precans). Entrambi, Ulisse e Minucio, vengono quindi protetti e salvati dal clipeus del loro

rispettivo rivale: clipei texique iacentem / servavique (Ov. met. 13.75-6); clipeoque paventem /

protegit (Sil. 7.709-10). E in tutti e due i casi, infine, i salvati sembrano meritarsi poco il salvataggio:

in Ovidio è Aiace a screditare il suo servatus, giudicando quella di Ulisse una vita inutile (anima

iners). In Silio, invece, sono gli stessi salvati a sentirsi immeritevoli del gesto di Fabio (Sil. 7.725): sese meruisse negabant / servari.

Se dunque, attraverso il filtro epico autoctono di Ovidio, l’episodio del salvataggio di Ulisse da parte di Aiace sembra rivivere, anche lessicalmente, nella scena dei Punica, è forse possibile intravedere anche qualche memoria del quadro iliadico originario. Subito dopo il salvataggio, il fuoco della narrazione si sposta sulla ritirata di Annibale. Il comandante cartaginese viene quindi comparato ad un lupo, che riesce ad addentare un agnello ma poi, dopo l’intervento del pastore, teme per la propria vita e libera dalle fauci la preda moribonda, fuggendo, mesto e a stomaco vuoto (Sil. 7.721-2):

iam sibimet metuens, spirantem dentibus imis reiectat praedam et vacuo fugit aeger hiatu.

Il parallelo spesso citato è, ancora una volta, un caso virgiliano. Turno, spintosi troppo a fondo nel campo troiano, in preda al furore guerriero, era stato infatti assimilato a un leone123 incalzato dai colpi della folla (Verg. Aen. 9.792-6): ceu saevum turba leonem / cum telis premit infensis. La furia e il coraggio non gli permettevano di voltare le spalle e darsi alla fuga (neque terga ira dare aut virtus

123 Cf. Littlewood (2011) 241 per un ampio elenco di similitudini leonine latine, nonché per una discussione

del paragone tracciato per Annibale: non con il più comune leone ma con il lupus Martius, un lupus caro proprio a quel dio, Marte, padre e protettore di Roma.

patitur) ma, pur volendo (cupiens hoc), non avrebbe potuto affrontare tanti uomini e dardi. La stessa

immagine del leone, troppo ardente per darsi alla fuga ma bloccato, nell’impeto, da cani e pastori, era stata associata nell’Iliade ad Aiace (Hom. Il. 11.544-55). Dopo aver salvato Ulisse dalla mischia della battaglia, Aiace aveva proseguito il combattimento contro i Troiani. Davanti all’intervento di Zeus, che gli aveva “gettato paura nel cuore”, era stato costretto a retrocedere, senza però mai darsi davvero alla ritirata: simile quindi a una bestia feroce (θηρὶ ἐοικώς), a un leone (ὡς αἴθων λέων) desideroso di preda ma scacciato da cani e pastori. Come farà il leone-Turno dell’Eneide, anche il leone-Aiace aveva poi continuato a tentare l’attacco, ma senza riuscire ad avanzare: ὁ δὲ κρειῶν ἐρατίζων / ἰθύει, ἀλλ᾿ οὔ τι πρήσσει. Se è vero che il passo di Silio Italico non può trascurare l’antecedente virgiliano, anche il caso iliadico – a cui certamente Virgilio guardava – poteva ugulamente trovare eco nella scena della ritirata di Annibale. Annibale, è vero, non si trova “incartato” (come lo erano stati i leoni di Aiace e di Turno) tra un impossibile attacco e un’inammissibile fuga; tuttavia, alla fine, abbandona il campo affamato (vacuo fugit hiatu) e malconcio (aeger), non tanto come Turno quanto più come il leone iliadico della similitudine di Aiace, che si allontanava, anche lui, affamato ed affranto (Hom. Il. 11.554-5: ἐσσύμενός […] ἀπονόσφιν ἔβη τετιηότι θυμῷ). Non è improbabile che il ricordo di Aiace, attivo già nella scena del salvataggio di Minucio (attraverso il filtro ovidiano dell’episodio), avesse dunque riportato alla memoria di Silio il paragone del leone omerico, dedicato alla fallita avanzata di Aiace e collocato proprio poco dopo la scena del salvataggio di Ulisse. Non stupisce poi che il modello di Aiace venga impiegato per protagonista e antagonista (Fabio e Annibale): l’intenzione non è quella di presentare Fabio o Annibale come dei nuovi Aiace, ma di attivare nella scena quei modelli narrativi e epici che il mondo romano aveva assimilato dall’autorevole esempio omerico e che, da tempo, aveva integrato, impiegato e variato a piacimento nel proprio immaginario letterario.

Nella vicinanza costruita da Silio tra il suo Fabio e il modello di Aiace, in particolare dell’Aiace ovidiano, sembra tuttavia inserirsi un’ulteriore significazione. Fabio, come l’Aiace di Ovidio, trova il proprio indegno aemulus in preda ad un disperato terrore (Minucio e Ulisse sono entrambi paventes) e gli salva la vita. La ripresa dell’episodio, se riconosciuta, potrebbe in effetti acquisire una funzione particolare: quella di costruire uno scarto qualitativo tra l’archetipo greco e il – migliore ovviamente – gesto romano. L’episodio di Aiace e Ulisse si inserisce infatti nel contesto della contesa per le armi di Achille, che vede il salvato e il salvatore opporsi in una rivalità terribile e, in definitiva, inconciliabile. Al contrario, mentre salva il suo aemulus, Fabio appare libero da ogni rancore o risentita competitività. Se, già in Livio, Fabio dichiarava infatti apertamente di mettere la salvezza dei concittadini davanti ad ogni tentazione di rivendicazione o rivalsa (Liv. 22.29.2: aliud iurgandi suscensendique tempus erit) nel racconto di Silio Italico il superamento della rivalità individuale in nome della coesione sociale viene sottolineato da un movimento di reciproca ricomposizione. Fabio, senza cedere all’ira dell’offesa personale (Sil. 7.516-7: expers irarum), va in soccorso di chi lo aveva offeso. E Minucio non avrà difficoltà a riconoscere il merito di Fabio (Sil. 7.737): sancte genitor, lo chiama, onorandolo cioè come

un padre, proprio come era richiesto ai cives servati. Cur nobis castra virosque / dividere est licitum, si chiede Minucio (7.338-9), e sancisce così, nella giusta riconoscenza al merito, la ritrovata unità del corpo militare e civile di Roma. La scena del clipeo tegere appare dunque, in questo contesto, non come gesto di superiorità, da rivendicare e rinfacciare, ma come segno di appartenenza alla stessa

civitas concorde e ricomposta. L’eco dell’Aiace della contesa, finita in una rivalità inconciliabile, rende

chiarissima questa sostanziale differenza.

3.3. Salvare il rivale: Aiace, Alessandro e due centurioni di Cesare

Come Scipione, un altro giovane – destinato a diventare presto uno dei più grandi protagonisti della storia antica – era valorosamente intervenuto in soccorso del proprio comandante e padre: si tratta del grande Alessandro che, durante un tafferuglio scoppiato tra soldati macedoni e mercenari greci, aveva salvato la vita a Filippo. Era stato lo stesso Alessandro a rivendicare il merito di quell’azione, almeno secondo quello che leggiamo in Curzio Rufo (Curt. 8.1.23-6). Qualche anno dopo il fatto, con Filippo ormai morto, Alessandro si era trovato a banchetto con altri comandanti macedoni e, infervorato dal vino, aveva ricordato il vecchio episodio, raccontando di come il padre, al tempo re e comandante, prostrato da una ferita, si fosse trovato in una tale condizione di difficoltà da avere come unica speranza quella di fingersi morto: debilitatum vulnere […] iacuisse […] non alia re quam

simulatione mortis tutiorem. Ma lui, Alessandro, ne aveva protetto il corpo con lo scudo, e aveva

ucciso di suo pugno tutti quelli che cercavano di avventarsi contro il genitore: se corpus eius

protexisse clipeo suo, ruentesque in illum sua manu occisos. La scena sembra ormai fissata in uno

schema più o meno riconoscibile: anche qui, il ferito si trova accasciato a terra e ormai dispera di potersi sottrarre alla morte. Interviene allora l’eroe salvatore, a pro-tegere con il suo clipeus la vita del compagno/comandante/padre.

È probabile che l’episodio fosse già presente nei più antichi resoconti delle vicende del condottiero macedone, anche se non ci è dato sapere come venisse lì raccontato.124 Ciò che emerge in modo inequivocabile dal testo di Curzio Rufo è, in ogni caso, il grave senso di rivalità con cui il ricordo del salvataggio viene presentato: Alessandro, ubriaco, sta infatti reclamando i propri meriti, denunciandone la mancata riconoscenza o l’indebita appropriazione da parte del padre. Filippo non gli riconobbe mai – dice – il merito di avergli salvato la vita (Curt. 8.1.25): quae patrem numquam

aequo animo esse confessum, invitum filio debentem salutem suam. Mal sopportava infatti di dovere

124 La cronologia delle Historiae di Curzio Rufo è incerta, spostandosi dal regno di Augusto (25-23 a.C. in

particolare) fino a quello di Costantino. Sui problemi di datazione cf. Atkinson (1998-2000) XII-XV. Il materiale storico e leggendario che vi confluisce, inoltre, deriva certamente da racconti e resoconti precedenti, dedicati alle imprese di Alessandro. Curzio nomina in particolare tre fonti (Tolemeo, Clitarco e Timagene) ma altre e frastagliate dovevano essere state le narrazioni preesistenti, alle quali lo storico potè attingere, pur non nominandole. Nel caso di questo racconto è possibile ipotizzarne l’origine in Clitarco, che lo avrebbe aggiunto per colorire la narrazione. Cf. sempre Atkinson (1998-2000) XIX, 484.

a lui, suo figlio, la propria salvezza. Rivalità e rivendicazioni tematizzano l’intero banchetto, intrecciandosi nei discorsi degli altri commensali: Clito, in particolare, difende i successi militari di Filippo e lamenta l’ingrata abitudine dei re in carica di assegnare a se stessi tutti i meriti, senza tenere in alcun conto il sangue altrui versato in battaglia. Non solo. Lo stesso Clito, guerriero fedele a Filippo e poi ad Alessandro, aveva compiuto una nobile impresa di salvataggio. Solo pochi paragrafi prima della discussione a banchetto, infatti, era stato ricordato come Alessandro dovesse la propria vita a quel vecchio e valoroso soldato, che lo aveva salvato al Granico, proteggendolo clipeo suo (Curt. 8.1.20): hic erat qui apud Granicum amnem nudo capite regem dimicantem clipeo suo texit. Nonostante l’immenso debito dovuto a Clito, tuttavia, Alessandro finirà per ucciderlo, proprio a seguito del litigio scoppiato a banchetto.

L’ingratitudine e la discordia sembrano dunque segnare in più punti la narrazione di Curzio. Ma, soprattutto, appaiono specificamente associate alla scena-tipo dello scuto/clipeo tegere e al suo mancato riconoscimento. Lo stesso tema viene sollevato più avanti, sempre nel libro ottavo, dai fautori della tentata congiura contro Alessandro (Curt. 8.7.4): essi ricordano Parmenione, Clito e altri valorosi guerrieri che avevano protetto Alessandro con i loro scudi (clipeis suis te protegunt et pro gloria tua,

pro victoria vulnera excipiunt) e che sono stati ripagati, da Alessandro, con la morte. Anche allo stesso

sovrano capiterà poi di vedersi negata la giusta gratitudine, e il lamento che solleva allora richiama ancora una volta l’immagine del clipeo tegere. Siamo all’inizio del libro successivo (Curt. 9.2.28-9), quando Alessandro cerca di convincere i soldati a seguire la sua interminabile volontà di conquista, facendo leva su quel debito di riconoscenza reciproco che avrebbe dovuto tenerli legati a lui: perque

et mea in vos et in me vestra merita, quibus invicem contendimus oro quaesoque ne […] deseratis.

Non possono abbandonare proprio adesso il loro comandante, continua Alessandro, che è sempre stato in prima fila ad affrontare i pericoli e che tanto spesso ha fatto da scudo a tutto l’esercito: qui saepe

aciem clipeo meo texi.

Il clipeo tegere sembra quindi farsi finalmente figura di quel collante militare e sociale che aveva chiaramente espresso nel caso di Fabio e Minucio. Ma difficile è dimenticare quanto, nel caso delle vicende macedoni, la stessa meritevole azione fosse rimasta tante volte priva dei dovuti riconoscimenti. L’effetto di collante reciproco (invicem), implicato da Alessandro nella riconoscenza del clipeo tegere, risulta ormai poco efficace: l’esercito, stanco e provato, inizia a dare i primi segni di cedimento e le parole del re vengono accolte da un lungo e pesante silenzio; solo alla fine, consci del proprio dovere, i soldati si dichiareranno disposti a seguire gli ordini, ma non desiderosi di farlo, incapaci ormai di