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Collera e sarcasmo: gli errori di Aiace nell’oratoria romana

Capitolo 2. L’ARMORUM IUDICIUM: UNA CAUSA ROMANA

2.2. Collera e sarcasmo: gli errori di Aiace nell’oratoria romana

La fortuna conosciuta dalla rivalità tra Aiace e Ulisse come contesto narrativo di insegnamenti oratori sembra agire di riflesso sulle realizzazioni letterarie dell’episodio della contesa. Ed è proprio sulla qualità retorica del discorso di Aiace che i frammenti a disposizione offrono maggiori indicazioni: più di quella di Ulisse – la cui competenza oratoria era del resto tradizionalmente riconosciuta – l’arringa di Aiace appare infatti caratterizzata da tratti (e anche difetti) riconducibili a giudizi e istruzioni della trattatistica retorica. Già in Pacuvio, l’Aiace della contesa appare fortemente connotato da un’emotività cupa e feroce che ne determina, da un lato, una sicurezza di sé a tratti eccessiva e, dall’altro, qualora questa sicurezza venga inficiata, un’ira cieca e testarda.

Ferox e torva è la confidentia dell’eroe (Pacuv. trag. 36 R3: cum recordor eius ferocem et torvam

confidentiam), supportata e riflessa dall’aspetto altrettanto torvo e feroce, e dalla sua immensa stazza

(Pacuv. trag. 37 R3: feroci ingenio, torvus, praegrandus gradus).76 Questa emotività cupa e pesante, questa confidentia irritata e violenta sembrano poi rendere l’eroe incapace di controllare con efficacia le proprie reazioni. È ad Aiace che pare infatti rivolto il poco lusinghiero paragone con un cane che, colpito da una pietra, vi si scaglia contro invece di attaccare l’autore del lancio (Pacuv.

trag. 38-9 R3): nam canis, quando est percussa lapide, non tam illum adpetit / qui sese icit, quam

illum eumpse lapidem, qui ipsa icta est, petit. Accecato da una reazione emotiva intensa quanto

ottusa, Aiace sembra incapace di trovare una strategia ponderata e vincente contro i propri avversari.77 Violente passioni scuotono anche l’emotività dell’Aiace di Accio. Un frammento descrive, per esempio, la smisurata brama delle armi di Achille, tanto desiderate da far apparire insulsa ogni altra cosa (Acc. trag. 145-6 R3): sed ita Achilli armis inclutis vesci studet / ut cuncta

opima levia ‹iam› prae illis putet.78

76 L’immensa falcata rende bene l’immagine del πελώριος eroe omerico, cf. Schierl (2006) 155.

Praegrandus non è però un aggettivo comune, soprattutto in relazione a tratti umani: ricomparirà significativamente in Svetonio nella descrizione dell’imperatore Tiberio (Svet. Tib. 68.1-2), il cui aspetto grande e forte (corpore fuit amplo atque robusto) e l’apparenza positiva (facies honesta) si combinavano però ai toni nefasti di crebri et subiti tumores, cum praegrandibus oculis che potevano scrutare anche nelle tenebre della notte. Sull’aspetto cupo di Aiace si veda già Theocr. 16.73-5, dove l’eroe sembra fissarsi in un’immagine di tetra gravità ormai svincolata dal triste esito della sua vicenda mitica ma estesa a caratterizzare la sua figura in modo apparentemente assoluto. Una caratterizzazione che persisterà almeno fino alle Imagines di Filostrato, dove Aiace apparirà infatti parimenti truce, pur nel neutro contesto di una rassegna di eroi (Philostr. im. 2.7.2: βλοσυρός).

77 Impiegata come metafora di un comportamento umano, l’immagine è già presente nella Repubblica di

Platone (R. 469e) e poi nella Retorica di Aristotele (Arist. rhet. 1406b 32-4). Dovette poi conoscere una certa diffusione sia sulle scene tragiche romane sia nelle scuole di retorica, tanto da diventare un’espressione quasi proverbiale per definire, significativamente, contesti di litigiosità e discordia (Plin. nat. 29.102: lapidem a cane morsum usque in proverbium discordiae venisse). Cf. Biliński (1962) 47 e Schierl (2006) 157. La similitudine canina sembra tuttavia avvicinare Aiace al protagonista, ugualmente adirato, di un altro famoso diverbio: anche Achille, infatti, nella lite del secondo libro iliadico, aveva guardato con occhi di cane il suo interlocutore Agamennone (Hom. Il. 2.376)

78 Dangel (1995) 141 ricostruisce il primo verso in modo completamente differente: ‹dicto› sedit ‹ita›

Achilli. La studiosa vi individua un riferimento a disposizioni (dictum) inerenti alla contesa delle armi, simili a quella dictio a cui fa riferimento anche il già citato inc. trag. 49-54 R3.

Sebbene non sia purtroppo possibile assegnare con certezza questa alterazione emotiva ad Aiace, più chiara appare invece l’indole cruenta dell’eroe in uno dei frammenti successivi (Acc. trag. 151 R3): inter quos saepe et multo inbutos sanguine. L’immagine sembra riportare alla figura omerica e guerriera di Aiace, quella di un soldato spesso circondato da sanguinosa battaglia.79 Un aspetto che potrebbe risultare elemento a favore dell’eroe, in una contesa de virtute. Tuttavia, la cruenta violenza con cui questa qualità militare viene ricordata sembra fare di Aiace un eroe torvus e ferox, simile a quello già pacuviano, forse meno adatto al contesto giuridico e oratorio di un iudicium.

Non che l’arte oratoria, per essere efficace, debba rimanere priva di forte emotività: nel De

Oratore di Cicerone, al contrario, Antonio sostiene che sia necessario saper rivestire il proprio

discorso di espressività emotiva (de orat. 2.196: […] hoc vos doceo […] ut in dicendo irasci, ut

dolere, ut flere possitis). Uno degli scopi principali dell’oratore, del resto, è movere il proprio

pubblico, secondo una «comunicazione emozionale» spesso accomunata a quella teatrale.80 Il carico emotivo del retore, tuttavia, non deve mai essere eccessivo: egli deve dare l’impressione di provare certi sentimenti, per innescarli nell’audience, senza venirne trascinato lui stesso.81 Non deve cioè cedere all’ira, all’eccesso emotivo, ma al massimo simularla (Cic. Tusc. 4.55): oratorem irasci

minime decet, simulare non dedecet. Aiace, al contrario, è animato da un odio violento contro il

proprio avversario. Un odio che ancora una volta lo avvicina più al contesto di una lotta fisica, che a quello di una sfida oratoria. Assomiglia cioè al gladiatore di Lucilio che, sicuro di sé e risentito della disparità del confronto con un inferiore, affrontava la sfida pieno di odio verso il proprio avversario (Lucil. 156 Marx): odi hominem, iratus pugno. Trasferito in una contesa che non è fisica ma retorica, questo odio rischia quindi di penalizzare la qualità oratoria di Aiace. E lo stesso eroe sembra averne sentore (Acc. trag. 152 R3): huius me dividia cogit plus quam est par loqui. Il dissidio con Ulisse spinge cioè Aiace a un eccesso retorico, a parlare più di quanto sia giusto. Similmente, anche l’irritata convinzione di essere superiore al proprio sfidante si risolve in un’argomentazione retorica non sempre impeccabile. In un altro – già citato – frammento tragico, Aiace appare tanto sicuro di essere destinato alla vittoria da rivendicare come dato incontrovertibile ciò che in realtà è il punto di discussione centrale della contesa, cioè il fatto stesso che le armi di Achille spettino a lui (inc. trag. 49, 52-3 R3: aperte fatur dictio […] mest aecum frui / fraternis armis).

79 La battuta potrebbe essere pronunciata, contro Aiace, da Ulisse o dagli Atridi, cf. Dangel (1995). Poco

probabile, per i toni e per il tipo di eroismo incarnato dal personaggio, che il verso sia un’autorivendicazione di valore guerriero da parte di Ulisse, come vorrebbe invece Ribbeck (1969) 371.

80 Petrone (2004) 159. L’oratoria, scrive Quintiliano, deve comunicare emozioni e smuoverle nell’audience

anche tramite le espressioni del vultus, così come avviene nella costruzione dei personaggi drammatici (Quint. inst. 11.3.73): itaque in iis, quae ad scaenam componuntur, fabulis artifices pronuntiandi a personis quoque adfectus mutuantur, ut sit Aerope in tragoedia tristis, atrox Medea, attonitus Aiax, truculentus Hercules. Sullo stretto rapporto tra processi comunicativi che accomunano teatro e retorica cf. Narducci (1997) 84-6. Rimando anche ai più recenti Nocchi (2013) 42-3 e Salm (2015) per ulteriori riferimenti bibliografici.

81 L’emotività dell’oratore è ben diversa dal turbamento d’animo: è creata e comunicata a piacimento, in

una sorta recitazione in cui l’oratore/attore è (o dovrebbe) essere sinceramente partecipe alle emozioni innescate ma, al contempo, pilotarle sapientemente. Cf. Li Causi–Marino–Formisano–Romano (2015) 494-5.

Il presentare come certo e scontato un nodo cruciale del dibattito appartiene a una tipologia codificata di errori retorici, segnalata nel De Inventione (Cic. inv. 1.92). E proprio queste battute tragiche di Aiace vengono in effetti citate dalla Rhetorica ad Herennium come esempio di cattiva argomentazione (Rhet. Her. 2.26.42): item vitiosum est cum id de quo summa controversia est,

parum expeditur et quasi transactum sit relinquitur hoc modo. Forse proprio l’astio per un rivale

giudicato senza alcun dubbio inferiore impedisce cioè ad Aiace di mettere in discussione la superiorità dei propri meriti e dunque l’idea stessa che le armi di Achille possano spettare a qualcun altro. Infine, conseguenza dell’eccessivo coinvolgimento emotivo sembra essere anche il tono sarcastico che emerge da alcune battute attribuite a Aiace, forse sempre nella tragedia di Accio (inc.

trag. 61-3 R3):82

vidi te, Ulixes, saxo sternentem Hectora, vidi tegentem clipeo classem Doricam ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam.

Aiace si rivolge qui a Ulisse, presentandolo ironicamente come l’eroe che aveva colpito Ettore e protetto la flotta achea, mentre lui stesso, Aiace, sarebbe stato impaurito e volto alla fuga. I ruoli risultano chiaramente invertiti rispetto a quelli della realtà iliadica dove Aiace, e non Ulisse, aveva affrontato Ettore e difeso da solo le navi dall’assalto troiano. L’inversione è tesa ovviamente a generare una tagliente ironia e i versi vengono infatti citati da Carisio (I 284.1-5 Keil) come esempio di mycterismon, id est derisum quendam. Ma la risata sarcastica rischia sempre di assumere i toni di un’implicita arroganza. Se poi il sarcasmo è quello di Aiace, diventa possibile riconoscervi il proverbiale Αἰάντειος γέλως, la risata sbeffeggiante rivolta dall’eroe ai suoi avversari già sulle scene tragiche greche: un riso che, nell’immaginario romano, può avvicinare pericolosamente il Telamonio agli sfidanti barbari dei duelli repubblicani, sprezzanti e scioccamente irridenti (Liv. 7.10: stolide laeti), contrapposti ai molto più composti avversari romani, da cui finiranno sconfitti.83

Fin dalle prime apparizioni nel teatro romano arcaico, il “retore” Aiace appare dunque mosso da una carica emotiva fuori misura, sia essa l’eccessiva confidentia, l’irritazione per una sfida giudicata impari o l’odio per il rivale. Gli effetti si riscontrano nell’eloquio, determinando una serie di tratti rilevati e giudicati dalla trattatistica retorica. L’immagine di un’oratoria animata dall’ira, intesa come eccesso emotivo, dovette in effetti associarsi profondamente all’Aiace della contesa, tanto da fare dell’eroe una metafora, per antonomasia, di questo stesso tipo retorico.

82 «Ajax ètat coutumier du procédé rhétorique de l’ironie» scrive Dangel (1995) 302-3, che nel suo

commento all’Armorum iudicium acciano riporta questo frammento di attribuzione incerta. Sul ricorso al processo retorico dell’ironia da parte dell’Aiace delle contese romane cf. Puccioni (1974) 310-13, Bona (1984) 47 n. 80. Sull’attribuzione acciana del frammento, vd. Parte I n. 80.

83 Sul topos della risata di Aiace e sulla sua presenza nel frammento tragico cf. Puccioni (1985) 147 e

Così Giovenale, nel descrivere un infervorato oratore contemporaneo, che si mangia il fegato (rumpere iecur) davanti a un giudice poco capace, gli assegnerà proprio i panni di Aiace, l’Aiace reso

pallidus dall’ira della contesa (Iuv. 7.115-18):

consedere duces, surgis tu pallidus Aiax dicturus dubia pro libertate bubulco

iudice. rumpe miser tensum iecur, ut tibi lasso figantur virides, scalarum gloria, palmae.

La ripresa dell’incipit ovidiano è evidente: con consedere duces si apre infatti la narrazione della contesa nelle Metamorfosi (Ov. met. 13.1) dove ugualmente Aiace si alza a prendere la parola (surgere è già il verbo ovidiano) impatiens irae come il pallidus oratore dei versi satirici. La vicenda mitica della contesa viene cioè trasposta da Giovenale in una molto più pedestre scena contemporanea, con un povero avvocato che arriva a rodersi il fegato, livido di rabbia. Nonostante il chiaro abbassamento di contesto, tuttavia, è forse fuorviante affermare che «one can hardly imagine Ajax affected by the nervousness of the declaimer»:84 certo Aiace era un’eroica figura del mito ma, con il suo coinvolgimento nella contesa e con il riversarsi della stessa vicenda mitica nella pratica comune di esercitazioni retoriche, appariva facilmente disposto a svestire i panni epici e avvicinarsi al più prosaico mondo dei tribunali di Giovenale. Il tipo retorico a cui l’Aiace della contesa si era accostato, forse già con il ferox Aiax dei testi tragici, offriva infatti al poeta satirico un perfetto prototipo mitico per il suo iroso avvocato, pallido d’ira davanti a un giudice incompetente (bubulcus), proprio come Aiace aveva spesso lamentato l’incompetenza e l’ingiusto comportamento della propria giuria giudicante.85

L’Aiace della contesa sembra dunque capace di stabilizzarsi come possibile parallelo mitico nella costruzione letteraria di oratori reali o inventati. Così, due secoli dopo Giovenale, la figura di un retore molto più pedestre di quello della scena satirica riprenderà alcuni tratti del Telamonio “oratore”, brusco e collerico. Il personaggio in questione è un panettiere, in lite con un cuoco per decidere chi dei due svolga il mestiere più importante. L’episodio è narrato da Vespa, poeta altrimenti sconosciuto, in un carme di 99 esametri databile tra IV e V d.C e tramandato all’interno dell’Antologia Latina (AL 199 Riese2).86

84 Courtney (1980) 319.

85 La critica d’incompetenza, nel testo di Giovenale, è direttamente riferita alla situazione contemporanea.

A seguito di modifiche del regolamente già augustee, ogni uomo che non fosse stato precedentemente soggetto a condanna poteva infatti svolgere il compito di giudice, fatto che ne inficiava spesso la qualità dell’operato. Non poche sono in effetti le critiche attestate in merito (cf. Mayor (1979) e Courtney (1980) 318). Nel parallelo costruito dallo stesso Giovenale, tuttavia, il problema di un giudice inesperto ben si accorda con il caso della contesa dove, già per voce dell’Aiace di Antistene, venivano sollevati dubbi sull’inadeguatezza della giuria, testimone solo indiretta dei fatti da giudicare: dubbi che non mancano, lo abbiamo visto, anche nelle contese tragiche romane (per esempio in Acc. trag. 157 R3).

86 Recenti studi sull’Antologia Latina, con rilevante rassegna bibliografica, sono raccolti in Privitera–Stok

In quella che appare una vera e propria contesa (il verbo è contendere), con un vero e proprio giudice (Vulcano, dio del fuoco ben adatto a esprimere un verdetto “di cucina”), il panettiere prende la parola per primo. “Imbiancato di farina” – immagine che appare come una deformazione parodica del pallore dell’ira – egli si dice indignato dall’ardire del cuoco, che ha osato sfidarlo (Vespa 7-15):

contendit pistor, cocus est contrarius illi, his est Vulcanus iudex, qui novit utrosque. ad causam pistor procedit primus agendam, canitiem capiti toto praebente farina:

‘numina per Cereris iuro, per Apollinis arcus! miror enim – fateor – et iam vix credere possum, quod cocus iste mihi sit respondere paratus, de cuius manibus semper fit pane satullus, quisue sit utilior, audet contendere mecum’.

Il riferimento all’Aiace-retore e al modello della contesa non è esplicito come in Giovenale.87 Eppure, il pistor, piccato dall’inferiorità del suo rivale, esplode in un audet contendere mecum che sembra davvero riprendere la stessa irritazione dell’Aiace della contesa, sfidato da un indegno rivale fin dalle scene tragiche (Pacuv. trag. 25 R3; Acc. trag. 147 R3). I due episodi, certo, potrebbero semplicemente seguire il medesimo schema narrativo, senza la necessità di una diretta influenza. Tuttavia, l’autorità mitica dell’episodio della contesa e la sua fortuna nella riflessione retorica romana potevano aver agito sull’immaginario di questo parodico agone. Se Aiace per esempio si era indignato per l’ardire di Ulisse, che in effetti osava sfidarlo dopo aver contato sul suo soccorso in battaglia, così anche il panettiere si dice sdegnato dal comportamento del cuoco che, dopo aver sempre fatto uso del suo pane, si permette ora di gareggiare con lui.88 Il nome di Aiace non manca poi di essere esplicitamente menzionato, anche se dalle parole del rivale. Vantandosi dell’utilità del proprio mestiere, il cuoco sostiene di avere sempre qualcosa pronto per ciascuno, “dell’agnello per

87 La forma agonale del carme, nonostante sia chiaro l’intento parodico nei confronti della poesia alta e

dell’epica, avvicina il componimento a generi letterari come il dialogo cinico-menippeo, o la poesia bucolica con i suoi agoni pastorali o ancora al tipo della contesa tra artes o tra diversi modi di vita che avrà più ampia fioritura soprattutto in epoca successiva. Cf. Berti (2018) 165. Ma, proprio come la contesa delle armi, il iudicium di Vespa assume una forma chiaramente giudiziaria: ad causam pistor procedit primus agendam, proprio come la causa a cui venivano condotti i due eroi già nella contesa pacuviana (Pacuv. trag. 23-4 R3).

Come la rivalità tra Aiace e Ulisse era diventata oggetto di esercitazioni retoriche, così questo iudicium potrebbe infine essere riconosciuto come un prodotto di scuola (cf. già Tandoi (1959) 206-13). Anche se in modo non esplicito, sembra che la contesa tra il cuoco e il panettiere faccia riferimento anche ad un premio in serbo per il vincitore, spesso in palio nelle controversiae del genere comparativo, come quella tra due viri fortes (cf. ancora Berti (2018) 171): un premio dunque, proprio come quello in palio nella contesa tra i viri fortes Ulisse e Aiace. Anche Berti (2018) 178-81, infatti, nell’ultima parte del suo contributo, identifica l’Armorum iudicium come modello poetico principale di questa contesa.

88 Anche i dulcia facta rivendicati dal panettiere ai versi 50-5 in contrapposizione ai crudelia facta del

cuoco (con un riferimento ai prodotti culinari come “imprese” guerriere che risponde all’intento parodico di tutto l’episodio) sembra riprendere l’opposizione costruita dall’Aiace della contesa, già in Antistene e poi in Ovidio, tra le proprie azioni eroiche e quelle deprecabili del rivale. Cf. Berti (2018) 180.

Pelia, della pelle di bue per il lingua-lunga Aiace” (Vespa 88): agninam Pelias, taurinam lingulus89

Aiax. La figura del Telamonio, a cui il panettiere sembrava accostarsi nel suo modo di affrontare la

contesa, viene dunque ricordata dal cuoco con un riferimento al suo più caratterizzante elemento eroico: lo scudo a sette strati. L’allusione però è ottenuta attraverso quel tratto peculiare che tanto si era rivelato potenziale ricettacolo di critiche: l’essere fatto di pelli bovine, come gli scudi romani più rozzi e più arcaici, specchio della natura grezza e primitiva dell’eroe.90 Pelli bovine che, nell’abbassamento comico del passo, sarebbe lo stesso cuoco a fornirgli.

Aiace è infine definito lingulus: un aggettivo che viene da ligula o lingula (intesa nel suo significato di piccola spada, di tipo più arcaico del gladium) e sembra dunque indicare un carattere litigioso e pronto allo scontro. Un carattere ben adatto, per animosità e patina arcaizzante, all’immagine dell’eroe. Nel contesto di un diverbio retorico, tuttavia, non è impossibile che il termine lingulus si attivasse in implicita contrapposizione con un termine foneticamente molto vicino: lingua.91 Già nelle battute dell’Aesiona di Nevio, in effetti, lingua e lingula si erano combinate in un gioco di parole volto a comparare e opporre la parola, la lingua, alla spada, la lingula (Naev. trag. 1 R3): ne mihi gerere morem videar lingua, verum lingula. È verosimile allora che la scelta di definire Aiace con un aggettivo come lingulus, soprattutto all’interno di una contesa, contribuisce a definire il carattere rissoso dell’eroe nel preciso contesto dell’agone oratorio (un contesto “di lingua”, appunto), dove Aiace era davvero apparso, in effetti, animato da un’emotività collerica, da combattimento, sempre sul punto di “sguainare la spada.”