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Esortare e resistere: Aiace e il modello enniano

Capitolo 2. AIACE CONTRO ETTORE: UN DUELLO ROMANO

4.1. Esortare e resistere: Aiace e il modello enniano

Resistere fino alla fine, esortando alla vittoria o alla morte, è un’attitudine non rara nei comandanti romani. E non rare sono le scene che, nel loro complesso, sembrano modellate sul momento culminante della resistenza sostenuta da Aiace alle navi. Questi due echi iliadici – l’esortazione e la scena di resistenza nel suo complesso – trovano in effetti la loro più antica attestazione latina in una delle primissime fonti storiografiche giunteci dalla letteratura romana: gli Annales di Ennio. Già in Enn. ann. 382-3 Sk. troviamo un incitamento alla gloria del combattimento, in vittoria o morte: nunc

est ille dies quom gloria maxima sese / nobis ostendat, si vivimus sive morimur. La frase si inserisce

nel più ampio, e perduto, discorso pronunciato da Scipione Emiliano alla vigilia della battaglia di Magnesia (190 a.C.), quando l’esercito romano si oppose alle ben più numerose truppe di Antioco III. Questo è il giorno in cui, più che in ogni altro, la fama arriderà all’esercito romano, dice Scipione, sia che si vinca o si muoia, poiché glorioso è, già in sé, l’affrontare una così difficile prova.

Anche l’esortazione di Aiace si appigliava alla necessità del momento, a quel νῦν decisivo come il dies delle truppe romane, quando l’unica azione da intraprendere era quella di combattere valorosamente, per vincere o morire (Hom. Il. 15.502-3: νῦν ἄρκιον ἢ ἀπολέσθαι / ἠὲ σαωθῆναι). Il poema enniano aveva certamente l’Iliade tra i suoi principali modelli e conosciuta doveva essere

143 Di un vero e proprio “training” alla resistenza parla Rosenstein (1990) 96-8 nel suo studio sulla gestione

delle sconfitte nella morale militare romana repubblicana. La stessa legislazione ce ne dà conferma: i soldati romani che venivano catturati dai nemici dopo essersi arresi (cioè dopo avere “smesso di resistere”) non potevano godere del postliminium, non potevano cioè sperare di essere reintegrati nel corpo dei cives, una volta finita la guerra e riaquistata la libertà. Cf. Leigh (2004) 57-77. Sulla percezione, nella morale militare romana, di due uniche alternative possibili, la vittoria o la resistenza fino alla morte, cf. anche Lloyd (1996) 4, 28, 105, 211-12.

dunque ad Ennio la scena della resistenza di Aiace e le parole più volte ripetute dall’eroe in quel frangente. Non è però necessario intravedere una diretta volontà di ripresa del caso iliadico. Scene di incitamento di questo tipo, del resto, si fissano come moduli narrativi frequentemente impiegati nei resoconti delle battaglie romane.144 E i toni sono sempre molto simili: si insiste sull’opportunità di una resistenza unita, sulla delicatezza del momento e sulla necessità di ottenere la vittoria o di morire nel cercarla. Anche Scipione Africano, alle soglie della battaglia di Zama, chiamò i soldati ad affrontare il nemico, ponendo davanti a loro due sole alternative, la vittoria o la morte (Plb. 15.10.6-7): διόπερ ἠξίου δύο προθεμένους, ταῦτα δ' ἐστὶν ἢ νικᾶν ἢ θνήσκειν, ὁμόσε χωρεῖν εἰς τοὺς πολεμίους. E la versione liviana dello stesso episodio presenta una situazione ancora più vicina a quella della scena iliadica (Liv. 21.41.14-15):

nec est alius ab tergo exercitus, qui, nisi nos vincimus, hosti obsistat, nec Alpes aliae sunt, quas dum superant, comparari nova possint praesidia. hic est obstandum, milites […].

Secondo lo Scipione liviano dunque, proprio come per l’Aiace omerico, non ci sono altre possibilità di aiuto o altre difese se non quelle offerte dal valore dei soldati stessi. Anche nei Punica di Silio Italico, l’esortazione alla “vittoria o morte” risuonerà nelle battute di un grande comandante, Lucio Emilio Paolo. Quando i nemici stanno ormai per prevaricare il contingente romano nella disastrosa sconfitta di Canne, Paolo si inoltra armato nel mezzo della mischia come una fiera che, seppur circondata, si lancia all’attacco a costo di qualunque ferita (Sil. 10.2-3): ceu fera, quae, telis

circumcingentibus, ultro / assilit in ferrum et per vulnera colligit hostem. Con un grido tremendo esorta

allora i suoi uomini a resistere, a per-stare, perché altro non rimane nisi gloria mortis.

La scena-tipo dell’esortazione alla resistenza, dove nient’altro si deve sperare se non il successo o la morte, è dunque un elemento diffusissimo nelle narrazioni belliche romane (e l’autorità enniana avrà probabilmente segnato una svolta importante nella fortuna della scena), pronto ad essere utilizzato come dimostrazione-simbolo di virtus guerriera. E proprio in quanto modulo narrativo di repertorio non è possibile ritrovare in ogni sua occorrenza l’eco omerica dell’esempio di Aiace. In certi casi, tuttavia, alcuni dettagli rendono la discendenza più chiara. Già nel discorso liviano di Scipione a Zama, l’insussistenza di ulteriori aiuti o difese riecheggia più da vicino la situazione dell’eroe omerico.

Sempre da Livio ci giunge un esempio forse più significativo. Il caso è quello di Vettio Messio, soldato dei Volsci che con il suo coraggio esortò i connazionali ad una, seppur impossibile, resistenza contro gli stessi Romani. La scena-tipo dell’esortazione alla resistenza si presta qui dunque a dare dimostrazione della virtus di un nemico di Roma. Ma Livio ha in realtà buon gioco a presentare esempi di grande valore da parte delle tribù italiche, avversarie nel tempo del racconto, ma ormai concordi fautrici della grandezza della Roma augustea.

In Liv. 4.28.5, leggiamo dunque il discorso di esortazione che Livio fa pronunciare a Vettio, un discorso in cui la tipica alternativa tra “resistenza o morte” si unisce all’immagine già iliadica dell’ultima difesa possibile: vos telis hostium estis indefensi, inulti? “aspetterete qui, inermi, i colpi dei nemici?” chiede Vettio ai suoi compagni, intimoriti e annichiliti quasi come i Danai sotto l’attacco troiano; non murus nec vallum sed armati armatis obstant, “non ci sono né mura né fossati, ma soldati contro soldati”. Nella grettezza incorrotta del loro coraggio, anche i popoli barbarici appariranno infine vicini alla più tradizionale virtus romana, soprattutto quando tale virtus risulterà sempre più lontana e appassita nella Roma imperiale. Così, nel descrivere la tenace resistenza opposta dai Caledoni in Britannia, Tacito assegna alla barbarica ma valorosa voce di Calgaco, alla voce cioè di un nemico di Roma, un’esortazione molto simile a quella dei generali romani repubblicani. E, anche in questo caso, l’eco percepibile non sembra essere solo quella degli eroi della res publica ma anche quella dell’esclamazione originariamente innalzata dall’Aiace iliadico (Tac. Agr. 30.3):

[…] nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias.

La resistenza, anche qui destinata a fallire, appare l’ultima speranza di salvezza per gli uomini di Calgaco e per la libertà della Britannia tutta. Non ci sono altri popoli che possono portare soccorso; non c’è nient’altro se non la scogliera e il mare, da un lato, e i nemici romani, dall’altro, alla cui superba sopraffazione non si può sfuggire se non combattendo. L’immagine creata da questa ormai tradizionale alternativa – resistere o morire – torna quindi a farsi più vicina al suo (altrove meno chiaro o inconsapevole) archetipo iliadico: anche Aiace aveva esortato l’esercito acheo, dichiarando l’impossibilità di una terza via praticabile. “Forse crediamo che ci siano rinforzi dietro di noi?” chiedeva retoricamente il Telamonio; “non c’è nessuna rocca fortificata in cui possiamo difenderci”; “in riva al mare noi siamo”, proprio come stretti fra il mare e i nemici saranno i Caledoni di Tacito.

Seppur assorbito e spesso annullato in una modalità esortativa che doveva essere sentita come tradizionalmente romana, il ricordo delle parole dell’Aiace iliadico poteva dunque essere sempre potenzialmente riattivato nella memoria latina, se non altro per l’autorità della fonte omerica.

Molto più tardi, in effetti, l’origine iliadica dell’episodio riemergerà chiaramente nel resoconto delle parole pronunciate da un imperatore romano sul campo di battaglia. Nell’orazione funebre per Giuliano l’Apostata, Libanio racconta infatti che l’imperatore, esortando alla resistenza durante la dura battaglia di Strasburgo,145 si rivolse all’esercito con le parole dell’Aiace iliadico (Lib. or. 18.58):

145 Un resoconto più dettagliato di questa (vittoriosa) battaglia del 357 d.C. contro i più numerosi

contingenti delle tribù germaniche è offerto da Ammiano (Amm. 16.12.1-70). Alla stessa battaglia rimandano alcuni frammenti di Eunapio, storico contemporaneo di Ammiano (Eunap. fr. 9, 14.7 HGM). Cf. Blockley (1981) 10-11, 159 n. 40 e 24-5 sulla eventuale dipendenza di Eunapio da Ammiano. Eunapio dichiara però di voler trattare con molta rapidità la vicenda, per non rischiare uno svantaggioso confronto con il lungo resoconto della battaglia fatto dall’imperatore stesso. Per altre testimonianze antiche sul racconto di Giuliano,

καὶ οὐδὲ τοῖς τὰ σημεῖα φέρουσιν οἳ φυλάττειν δὴ μάλιστα μεμελετήκασι τάξιν ὁ νόμος ἐσώζετο. ὡς δὲ ἐνέκλιναν, μέγα βοήσας ὁ βασιλεὺς καὶ τοὺς τοῦ Τελαμωνίου μιμησάμενος λόγους, ὁ μὲν γὰρ εἶπεν οὐκ εἶναι τοῖς Ἕλλησι διαφθαρεισῶν τῶν νεῶν ἐπάνοδον, ὁ δὲ ἡττηθεῖσι τούτοις κεκλείσεσθαι τὰς πόλεις καὶ τροφὴν δώσειν οὐδένα, καὶ ἐπέθηκε δὴ τελευτῶν ὡς εἰ δέδοκται φεύγειν, αὐτὸν δεήσει κτείναντας τότ᾿ ἤδη δραπετεύειν, ὡς ζῶντά γε οὐκ ἐπιτρέψειν, καὶ δείκνυσι δὴ τῶν βαρβάρων τοὺς ἐλαυνομένους ὑπὸ τῶν τρεψαμένων.

Quando nemmeno i portatori di insegne, addestrati più di ogni altro alla resistenza, furono più in grado di mantenere la posizione, l’imperatore Giuliano si rivolse al suo esercito riprendendo le parole del figlio di Telamone (τοὺς τοῦ Τελαμωνίου μιμησάμενος λόγους): come Aiace aveva detto ai Greci che non ci sarebbe più stata possibilità di ritorno, una volta distrutte le navi, così Giuliano – emulo di quell’exemplum omerico – dice ai propri uomini che, se fossero stati sconfitti, non avrebbero avuto né riparo né viveri. Certo, il diretto riferimento al modello di Aiace potrebbe essere un dettaglio aggiunto dal gusto descrittivo di Libanio. L’esortazione sembra in effetti assumere una forma diversa nel racconto di Ammiano. Dopo una serie di incoraggiamenti,146 la più forte esortazione di Giuliano arriva – come è solito accadere, utque amat fieri, precisa lo stesso Ammiano – nel momento di maggiore incertezza (Amm. 16.12.40-1): quo cedimus, “dove fuggiamo?” chiede Giuliano ai suoi cavalieri, che stavano volgendo in ritirata; “la fuga non è mai una via di salvezza ma anzi un vano tentativo, una prova di stoltezza”. Sebbene espressa nel momento di massima difficoltà, l’esortazione non si presenta dunque nella sua forma più tipica, quella dell’alternanza fra vittoria o morte. Eppure anche qui Giuliano si fa aemulus di un exemplum passato: imitatus veterem Sullam, scrive Ammiano. Giuliano imita cioè uno dei grandi protagonisti della Roma repubblicana che, come tanti altri comandanti, aveva rinsaldato con il proprio intervento l’incertezza della battaglia. Ma l’impresa di Silla che Giuliano prende a modello è un’impresa che, significativamente, anche da Aiace era stata compiuta.

Nell’estenuante lotta contro Mitridate, Silla, abbandonato dal proprio esercito in fuga, aveva infatti cercato di riaccendere l’animo dei propri soldati lanciando le insegne tra le fila nemiche e incitandone il recupero (Amm. 16.12.41): raptoque et coniecto vexillo in partem hostilem. Un’azione, questa,

saepe temptata (Liv. 34.46.12) dai generali romani, inscritta in un repertorio esemplare di virtus

militare e, come tale, ripresa anche dalla figura romanizzata di Aiace: l’Aiace ovidiano, infatti, aveva lui stesso proposto di scagliare, non le insegne, in questo caso, ma le armi di Achille tra le fila nemiche, pronto a dare concreta dimostrazione di valore guerriero nel recuperarle (Ov. met. 13.120-22).

per noi perduto, cf. Bidez–Cumont (1922) 28-9, 212-13. È proprio da questo resoconto di Giuliano che forse dipende Libanio. Cf. Norman (1987) 314-15.

146 Il Giuliano di Ammiano, durante tutte le prime fasi dello scontro, incita i propri uomini (Amm.

16.12.30-3), incoraggiandoli a combattere l’immodicus furor dei barbari (caratterizzati dalla violenza e dall’eccesso, come lo erano stati fin dai duelli repubblicani) con la forza guerriera moderata […] et cauta tipica del soldato romano.

Pur non riprendendo direttamente il caso dell’Aiace iliadico, anche il Giuliano di Ammiano Marcellino guarda dunque ad un modello di azione esortativa altrettanto diffusa, quella del lancio delle insegne, a cui lo stesso Aiace si era dimostrato pienamente ascrivibile. In effetti, un certo favore accordato al modello di eroismo incarnato da Aiace, autorevole per derivazione omerica ma, al contempo, di sapore romano e tradizionale, sembra emergere dagli scritti dello stesso Giuliano. Nell’elogio di Costanzo, Giuliano ricorre proprio alla figura del Telamonio, e in particolare all’episodio della resistenza presso le navi, come elemento di paragone per le gesta militari dell’imperatore: nella formulazione encomiastica, anzi, è Aiace ad assomigliare a Costanzo, che del resto assomma in sé tutte le qualità dei singoli eroi del mito (Iul. or. 2.54c-55c). Anche in questo caso, anzi, il modello omerico finisce per rivelarsi inferiore alla sua aemulatio romana (Iul. or. 2.67b): mentre i Greci si ritirano lasciando spazio all’avanzata di Ettore, il contingente romano non cede infatti all’attacco dei Parti. Là, un solo eroe, Aiace,147 era rimasto a combattere dalle navi come se fossero state le mura di una città (ricompare l’immagine del murus difensivo, ricorrente in tante riprese romane della scena di resistenza ma già presente nel τεῖχος e nei πύργοι del passo iliadico), fino a che tutto l’esercito greco, lui compreso, era stato costretto alla ritirata. I Romani, invece, dalle mura della città assediata, avevano resistito fino a respingere i nemici. Se l’antecedente omerico poteva essere rimasto implicito o inattivo nello sviluppo tutto romano della scena dell’esortazione, il passo di Libanio – trovando forse un terreno particolarmente fertile in questa attenzione riservata dallo stesso Giuliano alla figura di Aiace – recupera esplicitamente il modello del Telamonio, finendo per confermare la persistente percezione della derivazione iliadica dell’episodio, sempre potenzialmente esplicitabile.

Esortazione a parte, del resto, tutta la vicenda omerica della solitaria resistenza di Aiace doveva aver avuto una certa risonanza nel mondo romano. Nel suo opporsi come unico e ultimo baluardo difensivo all’avanzata nemica, Aiace finisce per assomigliare ad una tipologia di eroe molto celebrata nelle narrazioni epiche e storiografiche di Roma: quella dall’unus vir che, solo contro tutti, nel momento di massima difficoltà, sostiene con incredibile tenacia l’assalto dei nemici e spesso determina, da solo, la salvezza di tutto l’esercito.148 Anche in questo caso, il più antico prototipo attestato viene dagli Annales di Ennio. Secondo la testimonianza di Macrobio (Macr. Sat. 6.3.3), infatti, nel libro quindicesimo del poema149 trovava spazio la descrizione dell’eroica resistenza di un tribuno militare romano (Enn. ann. 391-98 Sk.):

147 L’eroe descritto da Giuliano combatte presso le navi in una chiara posizione difensiva, salendo sui

pontili come fossero le mura di una città sotto assedio: è quindi da identificare con Aiace (cf. Ponzone (2012) 126) e non con Ettore (come vorrebbe la traduzione di Cave Wright (1913) 179).

148 Santoro L'Hoir (1990) 230-32 identifica l’espressione unus vir come uno degli appellativi più ricorrenti

in Livio, assegnato a figure della storia romana che, con il loro solo intervento, garantirono in molte battaglie la salvezza dello Stato.

149 Sul contesto bellico in cui l’episodio deve essere inserito sono state in realtà avanzate diverse ipotesi.

undique conveniunt velut imber tela tribuno: configunt parmam, tinnit hastilibus umbo, aerato sonitu galeae, sed nec pote quisquam undique nitendo corpus discerpere ferro. semper abundantes hastas frangitque quatitque. totum sudor habet corpus multumque laborat, nec respirandi fit copia; praepete ferro Histri tela manu iacientes sollicitabant.

Da ogni lato i dardi convergono sul tribuno, come una tempesta. Nessuno riesce però a colpirlo ed egli anzi resiste ai colpi, con immensa fatica e sudore, mentre i nemici incalzano. La scena di resistenza rivela un innegabile debito verso l’episodio dell’Aiace iliadico. Lo stesso Macrobio, riportando per esteso il passo omerico (Hom. Il. 16.102-11) scrive che Ennio ad pugnam C. Aelii tribuni his versibus

transfert, e ci conserva quindi i sopracitati versi del poema latino. Alcune frasi sono in effetti

direttamente riprese dalla scena iliadica: come Aiace è incalzato dai colpi nemici (βιάζετο γὰρ βελέεσσιν) e da ogni lato (πάντῃ) il dolore si somma al dolore, così il tribuno di Ennio viene da ogni lato (undique) assalito dai dardi (conveniunt velut imber tela tribuno); sul capo di entrambi gli eroi, l’elmo risuona ai colpi (δεινὴν δὲ περὶ κροτάφοισι φαεινὴ / πήληξ βαλλομένη καναχὴν ἔχε; tinnit

hastilibus umbo / aerato sonitu galeae); entrambi sono coperti di sudore, con le membra fiaccate e

il respiro che ormai viene a mancare (αἰεὶ δ᾿ ἀργαλέῳ ἔχετ᾿ ἄσματι κὰδ δέ οἱ ἱδρὼς / πάντοθεν ἐκ μελέων ῥέεν ἄσπετος, οὐδέ πῃ εἶχεν / ἀμπνεῦσαι ἀμπνεῦσαι; totum sudor habet corpus multumque

laborat / nec respirandi fit copia); tuttavia entrambi resistono e i nemici, pur continuando a

incalzarli, non riescono ad abbatterli (οὐδ᾿ ἐδύναντο / ἀμφ᾿ αὐτῷ πελεμίξαι ἐρείδοντες βελέεσσιν;

sed nec pote quisquam / undique nitendo corpus discerpere ferro).

L’episodio enniano viene dunque costruito sull’autorevole modello dell’Aiace iliadico, creando un corrispondente exemplum romano di eroismo di resistenza. È però possibile che il recupero della scena iliadica arrivasse a Ennio attraverso un filtro storiografico già greco: quello delle storie fiorite intorno alle imprese di Alessandro Magno.

(così già per Skutsch (1985) 558-9). Skutsch propende dunque per ascrivere l’episodio al libro quindicesimo, nel contesto della battaglia di Ambracia. A questo libro appartiene in effetti il riferimento all’episodio enniano fatto da Macrobio subito prima (Macr. Sat. 6.2.30-2, su cui tornerò tra poco). Altri – da Müller (1884) a Warmington (1935) – propongono di correggere il numero del libro in XVI, identificando il tribuno protagonista della scena in Gaio Cecilio Teucro (il C. Aelius citato da Macrobio sarebbe in realtà Caecilius), uno dei due fratelli in onore dei quali (secondo Plin. nat 7.101) Ennio scrisse l’ultimo libro del suo poema. Un’altra ipotesi sembra suggerita da un passo liviano, dove si narra l’eroismo dei due Aelii, i due comandanti della terza legione che, nella guerra contro gli Histri (menzionati in effetti nel passo del tribuno enniano), si opposero all’avanzata nemica e riconquistarono accampamenti perduti (Liv. 41.4.3-5). Come Skutsch anche Martina (1979) 37 colloca l’episodio del tribuno nella narrazione della battaglia di Ambracia e spiega la menzione degli Histri come un tentativo di giustificare la successica campagna istriana, sostenuta da Vulso, un personaggio legato a Fulvio Nobiliore, eroe protagonista appunto della vittoria ad Ambracia. Per un resoconto più dettagliato e completo delle diverse posizioni critiche rimando al più recente commento Flores– Esposito–Jackson (2006) 393-4.

Molti secoli dopo, in effetti, lo storico Curzio Rufo descriverà una simile scena, con protagonista il re macedone.150 Nell’estenuante battaglia contro i Sudraci e i Malli, ai limiti orientali delle sue conquiste, l’esercito di Alessandro sembra perdere le forze e il vigore, cedendo alla potenza nemica. Solo contro tutti (Curt. 9.4.33: stabat enim in conspectu tanti exercitus velut in solitudine destitutus) il sovrano continua a resistere. Il braccio sinistro, quello che sosteneva lo scudo, era ormai fiaccato dalla fatica (9.5.1): iamque laevam, qua clipeum ad ictus circumferebat, lassaverat; un dettaglio descrittivo, questo, che, tralasciato dal caso enniano, viene direttamente dalla scena iliadica dove la spalla sinistra di Aiace appariva ugualmente gravata dal peso dello scudo. È a questo punto che, a differenza del modello iliadico, Alessandro si lancia volontariamente dentro le mura della città, tra i nemici, con un gesto forse più audace che glorioso (Curt. 9.5.1): […] ille rem ausus est incredibilem

atque inauditam multoque magis ad famam temeritatis quam gloriae insignem. Calatosi nella tana

del nemico, il re continua a resistere, e recupera altri dettagli descrittivi già presenti nella scena omerica. Ecco infatti che lo scudo appare ricoperto di dardi e l’elmo risuona, anche qui, sotto i colpi ricevuti (9.5.7): […] iam ingentem vim telorum exceperat clipeo, iam galeam saxa perfregerant […].

È possibile che Curzio Rufo derivasse non solo la scena ma anche la modalità iliadica in cui essa prende forma da uno (o più) dei tanti resoconti storici dedicati alla figura del sovrano macedone che avevano preso forma già a partire dalla sua morte.151 Resoconti, dunque, precedenti anche al poema enniano. Nello sceneggiare il proprio passo, Ennio poteva quindi aver trovato nelle storie di Alessandro un valido precedente storiografico per l’utilizzo della scena iliadica nella vicenda del proprio tribuno. In ogni caso, è proprio a partire dall’esempio di Ennio che la scena della resistenza solitaria, esemplata sull’autorevole caso omerico, si stabilizzerà come modulo descrittivo della storiografia e dell’epica romana, fissandosi, come vedremo, in una forma più o meno ricorrente e riconoscibile nell’immaginario e nella letteratura romani. Così, se il caso di Curzio Rufo avrà certamente alle spalle il modello omerico (e forse anche le più antiche fonti storiche su Alessandro), l’aspetto dell’episodio che leggiamo nelle Historiae Alexandri Magni sarà stato anche il prodotto dello sviluppo tutto romano della scena. Nelle due sezioni successive verrà dunque valutato tale sviluppo e saranno analizzati i più significativi esempi di questo modulo descrittivo nell’epica e nella storiografia latina: dalla resistenza-tipo di Orazio Coclite, il primo unus vir della storia di Roma, fino ai più ambigui eroismi solitari dei poemi di Lucano e di Stazio.

150 Sui rapporti tra la scena enniana, quella di Curzio Rufo e il modello iliadico cf. Galasso (2003). 151 Una certa attenzione all’esempio del Telamonio nella costruzione della figura di Alessandro è in effetti

emersa dalla ripresa dello scuto tegere (vd. supra sez. 3.3) alla visita che il re macedone avrebbe tributato alla tomba dell’eroe (vd. supra sez.1.2.3).

4.2. L’eroe-muro: l’esempio di Aiace da Orazio Coclite all’età augustea…