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Aiace contro Giove? Il ricordo del duello nella contesa

Capitolo 2. AIACE CONTRO ETTORE: UN DUELLO ROMANO

2.1. Aiace contro Giove? Il ricordo del duello nella contesa

L’episodio del duello si colloca in ogni caso tra le più importanti imprese di Aiace. Viene così ricordato dal Teucro di Sofocle, che lo elenca tra i grandi meriti del fratellastro: Aiace ha rischiato la vita lottando per i capi achei, ha difeso le navi dall’assalto di Ettore e, scelto dalla sorte, lo ha affrontato in duello, da solo a solo (S. Aj. 1283-4) χὤτ᾿ αὖθις αὐτὸς Ἕκτορος μόνος μόνου / λαχών τε κἀκέλευστος ἦλθεν ἀντίος. Il duello con Ettore appartiene cioè all’elenco di quelle grandi gesta dell’eroe che, almeno secondo Teucro, a causa dell’ingratitudine degli Atridi rischiano di non ricevere il giusto riconoscimento e, anzi, con la morte dell’eroe, di cadere nell’oblio (S. Aj. 1272): ἀλλ᾿ οἴχεται δὴ πάντα ταῦτ᾿ ἐρριμμένα.79

78 Sul duello tra Aiace e Ettore come anticipazione (in sordina) di quello tra Achille e Ettore, cf. già

Schadewaldt (1966) 70 ma anche O’Higgins (1989); Panoussi (2002) 119-20, in particolare n. 84; Greco (2007).

79 Come nel caso sofocleo, è probabile che i meriti di Aiace venissero spesso ricordati nei contesti narrativi

inerenti all’episodio della contesa, dove la rivendicazione di imprese militari doveva essere uno dei principali argomenti impiegati per vincere il dibattito, tutto teso a dimostrare chi dei due contendenti fosse il migliore. Già nella Piccola Iliade, in effetti, il ricordo dei meriti militari di Aiace (in particolare, il trasporto del cadavere

In che modo questa grande impresa di Aiace verrà allora assimilata nel mondo romano? Il merito di aver sfidato Ettore in duello viene rivendicato, dall’Aiace latino, già sulle scene del teatro tragico. Carisio ce ne dà testimonianza, nella sua Ars Grammatica. Soffermandosi sulla pratica retorica del

mycterismon (Char. I, 284, 1-5 Keil: per mycterismon, id est derisum quendam), il grammatico

menziona e conserva un frammento che molti riconoscono come appartenente all’Armorum iudicium di Accio.80 Le battute sono quasi sicuramente pronunciate dal Telamonio in persona che, nel perorare la superiorità della propria virtus rispetto a quella del rivale Ulisse, assume un tono di duro sarcasmo (inc. trag. 61-3 R3):

vidi te, Ulixes, saxo sternentem Hectora, vidi tegentem clipeo classem Doricam ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam.

“Ho visto proprio te, Ulisse, abbattere Ettore con un sasso e proteggere la flotta greca con il tuo scudo mentre io, impaurito, esortavo alla vergognosa fuga.” Ovviamente, Aiace sottintende l’esatto contrario: era stato lui a battersi con Ettore ed era stato sempre lui a proteggere le navi achee, mentre Ulisse, insieme a tutto il resto dell’esercito, si era riparato nelle concave navi.

Se alcuni indizi emergono dunque già dal teatro arcaico, saranno le Metamorfosi ovidiane ad offrirci un’estesa versione dell’arringa di Aiace, e dei meriti dell’eroe lì ricordati. Meriti tra i quali compare, anche in questo caso, il ricordo del duello con il campione troiano. Sempre cercando di dimostrare la superiorità del proprio valore in confronto ad Ulisse, l’Aiace ovidiano unisce quasi in un’unica menzione il ricordo dei suoi due grandi scontri con Ettore, quello del libro settimo e quello della battaglia presso le navi. Se già nel testo omerico l’andamento dei due episodi aveva rivelato molte somiglianze, Ovidio mostra di percepirne l’analogia e accosta quindi la memoria delle due scene (Ov. met.13.82-90):

Hector adest secumque deos in proelia ducit, quaque ruit, non tu tantum terreris, Ulixe, sed fortes etiam: tantum trahit ille timoris. hunc ego sanguineae successu caedis ovantem eminus ingenti resupinum pondere fudi,

hunc ego poscentem, cum quo concurreret, unus sustinui: sortemque meam vovistis, Achivi, et vestrae valuere preces. si quaeritis huius fortunam pugnae, non sum superatus ab illo.

di Achille) sembra essere stato il metro di giudizio impiegato nel soppesare il suo valore rispetto al Laerziade. E così, come vedremo, anche in Antistene l’arringa che Aiace verrà immaginato pronunciare insisterà sui meriti guerrieri, sugli ἔργα da lui compiuti. Vd. Parte II cap. 3.

80 Warmington (1936) lo colloca direttamente tra i frammenti attribuiti all’Armorum iudicium (Acc. trag.

“Io, da solo, ho sostenuto (unus sustinui) la sfida di Ettore (hunc poscentem)” dice Aiace e – in conformità con l’effettivo episodio omerico – ricorda come la sorte, che scelse lui come avversario nel duello, avesse in effetti rispecchiato il desiderio degli stessi Achei (vestrae valuere preces). “Se chiedete l’esito di quello scontro” prosegue l’Aiace ovidiano “ebbene, non fui battuto.” La litote, apparentemente ingegnosa, permette ad Aiace di non esplicitare l’esito paritario della vicenda, forse non troppo lusinghiero per chi, come lui, puntava soprattutto sulla propria superiorità guerriera per mostrarsi il valido successore di Achille nella contesa delle sue armi. E, tuttavia, la scelta stessa di alludere all’esito del duello – marcandolo con una formula artificiosa, la litote, appunto – non sembra una mossa vincente. Di gran lunga migliore era stata la via scelta dal Teucro di Sofocle (S. Aj. 1283- 7): senza nemmeno menzionare la fine dello scontro, egli aveva insistito sul coraggio di Aiace, il quale, nel mettere il proprio contrassegno nell’urna per l’estrazione, ne aveva scelto uno grosso e pesante, facile da pescare. Insistere sull’esito di un duello che ci si aspetta di vincere, ma non si ha vinto, non è dunque l’unica o la migliore soluzione possibile. Ma è quella che Ovidio sceglie per il suo Aiace, quasi a incrinarne da subito uno dei punti a favore.

Il ricordo del duello tra Aiace e Ettore è preceduto dal riferimento all’altro, lunghissimo scontro tra i due medesimi eroi: quello che li vide più volte uno di fronte all’altro, durante l’assalto alle navi. Lì Ettore era avanzato, forte del proprio successo (Hom. Il. 14.364-7), e Aiace allora l’aveva colpito con un masso (14.409-13). Ora, nel passo delle Metamorfosi, l’Ettore ovans, baldanzoso anche lui per la propria avanzata, viene colpito dall’ingens pondus dell’Aiace ovidiano. Se tuttavia, nel passo omerico, l’aquila di Zeus aveva rivelato lo schierarsi del favore celeste per l’esercito acheo (che infatti, pur soffrendo duramente l’attacco troiano, sarà destinato alla vittoria), a fianco dell’Ettore ovidiano si schiera apertamente il sostegno divino: secumque deos in proelia ducit, così Aiace ricorda l’avversario contro cui aveva combattuto, scagliandogli contro il pesante masso. Un sostegno divino che il troiano avrà, in Omero, solo in una fase successiva – e temporanea – dello scontro presso le navi (Hom. Il. 15.306-27 e 610-11).81 Ovidio insomma anticipa, nelle parole dello stesso Aiace, l’esplicitarsi dell’aiuto divino accordato a Ettore: è un pupillo degli dei, dunque, l’eroe che il Telamonio cerca di abbattere con un ingens pondus.

L’effetto ricercato dal racconto di Aiace, almeno a un primo livello, doveva essere quello di dimostrare la grandezza della propria virtus: il suo valore di vir gli aveva permesso di non essere

superatus dal confronto con un rivale che fondava invece la propria forza sulla protezione divina. Il

rischio di empietà, tuttavia, è tremendamente vicino, e Ovidio lo fa correre in pieno al suo Aiace: subito dopo, infatti, quando nella menzione dei ricordi riaffiorerà l’episodio della difesa delle navi, Aiace dirà (Ov. met. 13.91): ferunt Troes ferrumque ignesque Iovemque.

Con un accostamento opportunamente infelice, tra gli avversari a cui Aiace si vanta di aver opposto la propria resistenza compaiono i Troiani, il ferro, il fuoco ma, alla fine, nientemeno che lo stesso Giove. Nel ricordo delle imprese di Aiace, insomma, Ovidio espande e amplifica il sostegno accordato da Giove a Ettore. Così facendo, incrina irreparabilmente la dimostrazione di valore sostenuta dall’eroe, che finisce per assomigliare a un’opposizione agli dei di sapore gigantomatico. Eccessi ubristici, del resto, non erano sconosciuti alla storia mitica e letteraria di questo personaggio (S. Aj. 767-9, 774-7): disdegnando l’aiuto divino già l’Aiace di Sofocle aveva sostenuto come anche un uomo da poco potesse fare affidamento su quello, mentre lui, forte del proprio vigore militare, era sicuro di bastare a se stesso.L’indebolimento della posizione del Telamonio, ottenuto da Ovidio attraverso il potenziamento delle derive ubristiche del suo valore guerriero, viene poi affiancato da un diverso tipo di svilimento: quello esercitato dalle parole del suo rivale. Ulisse si impegna infatti a svelare l’inconsistenza di quei meriti militari che Aiace aveva rivendicato (Ov. met. 13.275-9):

ausum etiam Hectoreis solum concurrere telis se putat, oblitus regisque ducumque meique, nonus in officio et praelatus munere sortis. sed tamen eventus vestrae, fortissime, pugnae quis fuit? Hector abit violatus vulnere nullo!

Aiace si vanta tanto di essere stato il solo ad affrontare in duello Ettore, dice Ulisse, ma si dimentica forse di essersi fatto avanti insieme ad altri otto guerrieri achei e, anzi (dettaglio assente in Omero), di essersi proposto per ultimo. L’onore della sfida gli era stato poi assegnato solo per volere della sorte. E quale ne era stato l’esito? Ettore ne era uscito senza nemmeno un graffio! Così racconta la vicenda il rivale di Aiace. L’intervento sull’antecedente omerico è piccolo ma decisivo. Non solo Aiace appare ora l’ultimo ad aver avuto il coraggio di offrirsi alla sfida ma, nell’insoddisfacente esito paritario dello scontro, si arriva anche a negare ciò che in realtà l’eroe omerico era riuscito a fare: nel duello iliadico egli aveva infatti ferito Ettore al collo e lo aveva abbattuto con il lancio dell’enorme masso; nel racconto dell’Ulisse ovidiano, invece, Ettore resta illeso. Lo scopo è chiaro: plasmando ai propri scopi la materia omerica, Ulisse svuota le gesta e le imprese ricordate da Aiace nel suo discorso, facendo del Telamonio un fanfarone, che gonfia e rivendica meriti militari in realtà inconsistenti. Quasi come se ai ben più pericolosi eccessi gigantomatici, traditi da Aiace nel suo stesso discorso, si affiancasse ora l’altra faccia di quello stesso eccesso: il volto comico, ridicolo ed esagerato di un miles gloriosus.

2.2. Di Romani e gladiatori, di barbari e giganti: Aiace in Cicerone

Dopo aver osservato la presenza del duello iliadico nel panorama letterario latino, come argomentazione a favore (o a sfavore) di Aiace nella contesa per le armi di Achille, è ora opportuno

porre una domanda diversa sulla ricezione romana dell’episodio: in che modo, secondo quali categorie culturali e letterarie, con quale gusto e sensibilità un romano poteva cogliere e interpretare l’impresa di Aiace? A quali assimilazioni e suggestioni si poteva prestare questo episodio omerico? Due sono, a mio parere, i modelli fondamentali a cui la mente romana poteva ricondurre la scena: il modello storico e storiografico dei duelli repubblicani e quello, molto più concreto e quotidiano, della lotta tra gladiatori. Proprio a queste due tipologie di scontro si trova in effetti accostato il caso di Aiace nell’unica trattazione latina dell’episodio estranea al contesto della contesa: quella che ci arriva dalle Tusculanae Disputationes.82 In un passo del quarto libro, Cicerone si trova impegnato a sostenere una tesi precisa, in linea con il colore stoico dell’opera: quanto le passioni dell’anima, in particolare l’ira e il furor, siano in realtà inutili all’uomo, inutili anche nelle manifestazioni del vigore guerriero, che solo all’apparenza sembra incrementato da sentimenti come la rabbia o l’esaltazione. Per dimostrare la propria tesi, Cicerone ricorre proprio al ricordo della scena omerica, facendo di Aiace uno degli eroi-modello dell’argomentazione (Cic. Tusc. 4.49):

at sine hac gladiatoria iracundia videmus progredientem apud Homerum Aiacem multa cum hilaritate, cum depugnaturus est cum Hectore; cuius ut arma sumpsit, ingressio laetitiam attulit sociis, terrorem autem hostibus, ut ipsum Hectorem, quem ad modum est apud Homerum, toto pectore trementem provocasse ad pugnam poeniteret. atque hi collocuti inter se, prius quam manum consererent, leniter et quiete nihil ne in ipsa quidem pugna iracunde rabioseve fecerunt […].

A differenza dell’ira violenta che muove i gladiatori uno contro l’altro, Aiace ci viene presentato mentre avanza con serena sicurezza (multa cum hilaritate), pronto ad affrontare il proprio avversario. La figura di Aiace diventa, nel passo ciceroniano, autorevole esempio mitico di una

virtus militare tarata in effetti sull’ideale romano-stoico della fortitudo: la fermezza controllata,

estranea, anzi avversa, alle temerarietà dell’ardore emotivo; quella stessa saldezza d’animo che, già secondo Polibio, era tipica del comandante romano, opposta all’Ἑλληνικὴ ὁρμή o all’animus elatus, varchi di pericolosi eccessi.83

82 Eccezion fatta, ovviamente, per quei testi che si presentano come riassunti o riscritture del racconto

iliadico. Riporto, per completezza, le due pertinenti occorrenze. L’Ilias Latina riassume l’evento iliadico, riportando i fatti più o meno fedelmente (Homer. 602-30): dopo il sorteggio, il magnus Aiax avanza verso Ettore e lo scontro comincia. Aiace, animis teloque furens, riesce a ferire il troiano al collo; quello solleva una pesante roccia e la scaglia contro il Telamonio, che si ripara con il suo ingens clipeus septemplex; con la medesima pietra (non con una più grande, come in Omero) Aiace colpisce di rimando Ettore, e lo abbatte, ma Apollo aiuta il troiano a rialzarsi. Ecco che giunge la notte e i due depongono le armi senza indugio (nec segnius, a differenza di Omero), calmando quell’«ira eroica» (Scaffai (1982) 336) che li aveva guidati nel duello. Lo stesso episodio compare anche nel riassunto del settimo libro iliadico delle Periochae Homeri Iliados et Odyssiae (7.5), attribuite ad Ausonio (sui problemi di questa attribuzione cf. Green (1991) 677): ab Aiace Telamonio proelium singulare conseritur: in quo Hector lapide ictus in suorum se recipit multitudinem. Si legge quindi di Aiace che ingaggia il duello e di Ettore che viene colpito dal masso, ritirandosi tra i suoi compagni. Interviene poi l’araldo Ideo e i due interrompono la battaglia, scambiandosi doni reciproci.

A questa salda e composta qualità guerriera poteva dunque facilmente assimilarsi la natura salda e difensiva dell’Aiace omerico, fino a fare dell’eroe a duello con Ettore un modello della misurata fermezza tipica del guerriero romano. Per aiutare l’assimilazione, alcune modifiche dell’originale omerico possono rendersi necessarie: il terribile sorriso omerico (Hom. Il. 7.211-2: Αἴας…μειδιόων βλοσυροῖσι προσώπασι) diventa hilaritas in Cicerone, una perfusa serenità che accompagna il valoroso guerriero nel suo fermo avanzare contro lo sfidante. Ma anche le riprese apparentemente più fedeli celano un certo grado di “romanizzazione”. Così accade, per esempio, nell’effetto dell’avanzata di Aiace, che si irradia sui presenti: ingressio laetitiam attulit sociis, i compagni si rallegrano, mentre i nemici cadono in preda al terrore (terrorem autem hostibus) Ettore compreso. L’immagine era certo già omerica (Il. 7.214 -216): τὸν δὲ καὶ Ἀργεῖοι μὲν ἐγήθεον εἰσορόωντες / Τρῶας δὲ τρόμος αἰνὸς ὑπήλυθε γυῖα ἕκαστον / Ἕκτορί τ᾽ αὐτῷ θυμὸς ἐνὶ στήθεσσι πάτασσε. Per i lettori romani, tuttavia, la ripresa di questo dettaglio della vicenda poteva avvicinarsi a una scena molto più autoctona, parte del repertorio narrativo della storiografia nazionale: quella dell’avanzata del comandante in campo, che rinsaldava gli animi nell’esercito e sbaragliava il nemico. L’arrivo di Antonio, per esempio, mette in fuga i pompeiani e rinfranca le truppe cesariane in Caes. civ. 3.65.1:

cuius [Antonii] adventus Pompeianos compressit nostrosque firmavit, ut se ex maximo timore colligerent. Similmente, secondo il racconto liviano, la vista di Camillo che avanza tra le truppe, a

cavallo, brandendo un grande scutum, ristabilisce le sorti della battaglia contro i Volsci, in favore dei Romani (Liv. 6.8.6): ita quocumque se intulisset victoriam secum haud dubiam trahebat.

Maxime id evidens fuit, cum in laevuum cornu prope iam pulsim arrepto repente equo cum scuto pedestri advectus conspectu suo proelium restituit, ostentans vincentem ceteram aciem. Quello del

generale che con la sua presenza risolleva la situazione è un modello narrativo molto diffuso nei racconti della storia militare di Roma, corrispondente, in parte, ad una pratica militare concretamente definita: la stessa organizzazione della schiera romana prevedeva il posizionarsi dei comandanti nelle zone dello schieramento da dove con più forza e rapidità potessero intervenire ad esortare le proprie truppe.84 Nell’intento di fare di Aiace un modello di virtus autoctona, Cicerone non si lascia dunque sfuggire l’uso di un dettaglio omerico che tanto si avvicinava a un’esemplare pratica romana. Il processo di reimpiego dell’episodio, tuttavia, non si limita alla ripresa di quei tratti dell’eroismo omerico di Aiace che appaiono più consoni a fare dell’eroe un exemplum romano. Tutto il duello può essere infatti interpretato secondo il modello assolutamente romano dei duelli repubblicani. È lo stesso Cicerone a esplicitare la connessione. Subito dopo il ricordo di Aiace, e a dimostrazione della medesima tesi, Cicerone ricorre infatti all’esempio dei grandi protagonisti dei duelli repubblicani (Cic. Tusc. 4.49-50):

84 Veg. mil. 3.18: ideo autem inter utrosque consistit, ut et consilio regere et auctoritate tam equites quam

[…] ego ne Torquatum quidem illum, qui hoc cognomen invenit, iratum existimo Gallo torquem detraxisse nec Marcellum apud Clastidium ideo fortem fuisse, quia fuerit iratus […].

Non era in preda all’ira Tito Manlio, scrive Cicerone, quando si guadagnò il cognome di Torquato, sconfiggendo un guerriero gallo e sottraendogli la torques (il collare di ferro che i Galli spesso portavano in combattimento); né combatté in preda al furore Claudio Marcello, che sconfisse il re dei Galli Viridomarus a Clastidio, guadagnandosi gli spolia opima. Sullo scontro tra Marcello e

Viridomarus abbiamo scarse testimonianze, tanto che non è chiaro se le narrazioni lo presentassero

come un vero e proprio duello (a schieramenti “fermi” quindi)o se i due si fossero trovati semplicemente faccia a faccia, nel pieno della battaglia.85 Famosissimo, invece, il duello di Torquato, descritto ampiamente in Liv. 7.9.8-7.10.11. Nella battaglia presso il fiume Aniene, scrive Livio, un Gallo di statura immane (eximia magnitudo) aveva sfidato i Romani, con parole simili a quelle dell’Ettore omerico: “si faccia avanti il guerriero più forte che Roma può offrire (quem Roma

uirum fortissimum habet) e si proceda alla lotta, così che l’esito mostri chi è il migliore tra i nostri

due popoli” (procedat agedum ad pugnam, ut noster duorum eventus ostendat utra gens bello sit

melior). Segue un lungo silenzio perché i soldati romani, proprio come l’esercito acheo in Omero,

da un lato si vergognavano a rifiutare il duello (abnuere certamen vererentur) dall’altro non volevano affrontare un tale rischio (praecipuam sortem periculi petere nollent). È allora che Tito Manlio chiede al comandante il permesso di rispondere alla sfida. Ottenutolo (l’eroismo solitario, nella morale collettiva dell’esercito romano, deve essere sempre approvato da chi quella collettività rappresenta), Tito si arma quindi di uno scutum pedestre e avanza verso il barbaro-belva che ha gettato la sfida, e che tanto spavaldamente esulta (adeo praesultat). Stolide laetus, il Gallo arriva addirittura a sbeffeggiare con boccacce l’avversario romano (linguam etiam ab inrisu exerens), sicuro della sua immensa prestanza fisica (di nuovo viene definito eximius magnitudine) e, quindi, della vittoria. Ovviamente, rimanendo ben lontano dal clamore e dalla baldanza del Gallo e convogliando tutto il suo impeto nell’unica cosa che conta, cioè nella battaglia, sarà Torquato a vincere lo scontro e a indossare la torques, ancora macchiata di sangue.86

85 Il duello romano repubblicano risponde a una pratica precisa, ripetuta e riconoscibile: essa richiede, in

particolare, l’interruzione dello scontro generale, la disposizione dei due schieramenti nel ruolo di pubblico spettatore (simile a quanto accadeva già nel libro settimo dell’Iliade) e, infine (tratto, questo, romanissimo) il permesso, accordato dal comandante, di rispondere alla sfida lanciata dal campione nemico. Per la descrizione di queste procedure cf. Feldherr (1998) 92-9. Il caso di Marcello, menzionato per esempio da Properzio (Prop. 4.10.39-44), non si configura esplicitamente come un duello, ma rivela comunque alcune affinità con il modello di Torquato (una su tutte la presenza della torques). Plutarco, da parte sua, ricorda semplicemente il fatto che Marcello si aggiudicò gli spolia opima per aver battuto il re dei Galli (Plu. Rom. 16.7-8).

86 L’impeto controllato di Torquato viene chiamato da Livio tacita ira, con una scelta lessicale che

sembrerebbe opposta al caso del passo ciceroniano, dove Torquato, nella medesima impresa, viene menzionato come esempio di fortitudo priva di iracundia. Ma il senso in realtà è lo stesso. Cicerone, fedele allo sfondo stoico della sua opera, impiega una terminologia precisa e codificata, dove i due termini si collocano in opposizione distintiva. Ma anche l’ira silenziosa, interna e misurata, del Torquato liviano si avvicina molto di

Sullo stesso famoso duello si soffermava, già prima di Livio, in età sillana, l’annalista Quinto Claudio Quadrigario di cui Gellio ci riporta, in parte, il racconto (Gell. 9.13.1-20). Seppur sintetizzato, l’andamento dell’episodio rispecchia il medesimo schema narrativo che sarà poi adottato da Livio: l’enorme Gallo avanza, nudo eccetto che per lo scudo, la spada e due torques al collo; lancia la sua sfida ai Romani e subito cala il silenzio (extemplo facto silentio); dapprima,