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Capitolo 1. UN EROE GRECO CHE PIACE A ROMA

1.1.1. Un σάκος latino

La smisurata corporatura e il vasto scudo, specchio della sua funzione eroica di baluardo degli Achei, sembrano dunque essere i tratti principali della figura guerriera di Aiace. Quale fu allora il loro esito romano? In che modo la stazza gigantesca e l’enorme σάκος avranno determinato l’accoglienza di questo eroe? È probabile che la percezione del carattere miceneo dello scudo di Aiace restasse lontana dalla realtà romana dove difficilmente poteva esprimersi la distinzione tipologica tra scudo pre-omerico e scudo oplitico, tra σάκος e ἀσπίς. E tuttavia, alcune caratteristiche essenziali che Omero assegnava al σάκος dell’eroe non restano del tutto inattive nel processo di ricezione. Di scudi, esistono anche a Roma tipi diversi. Generalmente associato agli eroi del mito – e dunque anche ad Aiace – agli dei e ai grandi protagonisti dell’epica e della storia romana è il clipeus, di forma rotonda e quindi forse più vicina al tipo omerico dello scudo oplitico, piuttosto che al quello miceneo.22 Nelle testimonianze archeologiche romane, è il clipeus, lo scudo rotondo e dotato di impugnatura, che appare dunque al braccio di Aiace, come a quello di altri eroi. Di questo è armato Aiace nelle pitture parietali della Casa del Criptoportico, a Pompei (FIG. 1.8) o nelle scene della Tabula Iliaca

Capitolina (FIG. 1.9), o ancora nel duello con Ettore raffigurato sulla sesta banda laterale della

Tabula Sarti (FIG.1.10).

FIGURA 1.8. Pittura murale, Casa del Criptoportico. 30 a.C. ca. Pompei I 6, 2-4 (ala E, parete E tratto N)

FIGURA 1.9. Tabula Iliaca Capitolina. I-II a.C. Roma, Musei Capitolini

FIGURA 1.10. Tabula Iliaca detta Tabula Sarti (perduta). I d.C.

Esistono poi, in latino, termini demandati a indicare scudi meno aulici e più autoctoni: lo scutum e la parma. Mentre la parma era lo scudo degli equites, più piccolo e leggero, di forma circolare e più maneggevole nel combattimento a cavallo, i tre corpi della fanteria pesante (hastati, principes e

triarii), nerbo della legione romana, si muovevano e lottavano sotto il peso dello scutum.23

22 Per alcuni esempi dell’uso di clipeus in associazione a grandi personaggi mitici, storiografici e letterari

cf. ThLL 3.0.1251.61-6. Sull’aspetto del clipeus cf. ThLL 3.0.1352.16-80, che registra le occorrenze in cui tale scudo si trova comparato a oggetti di forma circolare.

23 È soprattutto Polibio, osservatore acuto e attento di molti aspetti della società romana, ad offrirci

un’accurata descrizione dell’armamento dei diversi corpi militari (Plb. 6.19.142.6). Mentre gli equites contavano solo 200 o 300 uomini per legione, la componente decisamente più poderosa era quella della

Se anche lo scudo oplitico doveva aver avuto un peso piuttosto consistente, dimensioni e mole erano decisamente maggiori nello scutum del fante romano: ampio, pesante e di forma quasi rettangolare, esso era costituito da due spessi strati di legno alti quattro piedi e larghi due e mezzo; rivestito di tela e pelli di vitello, era poi completato da una placca in ferro al centro (l’umbone) e rinforzato con simili protezioni metalliche, ai bordi.24 Da un lato, dunque, tanto il clipeus rotondo ed eroico quanto la parma, rotonda, più piccola e in metallo, potevano assomigliare al tipo dello scudo greco. Polibio (6.25.7-11) parla addirittura di un processo di sviluppo dello scudo della cavalleria romana basato sull’imitazione della struttura metallica dello scudo greco, che avrebbe sostituito un modello romano arcaico, fatto di strati sovrapposti di pelle bovina. Allo scutum della fanteria – visibilmente distinto dallo scudo oplitico greco per materiale, forma rettangolare e più ampie dimensioni – sembra invece associarsi un volto nettamente più autoctono. Così, quando Livio (Liv. 9.19.7) paragonerà i Romani all’esercito di Alessandro, affermando ovviamente la superiorità dei primi, e coinvolgendo anche i diversi tipi di armamento nel confronto, è alle falangi oplitiche di Alessandro che assegnerà i clipei, mentre Romano scutum, maius corpori tegumentum.

Negli impieghi letterari, la classificazione terminologica non è rigida, certo, ma a grandi linee rispettata. La parma compare nell’epica latina come scudo dei guerrieri più giovani, trasposizione poetica dei parmae di cui erano dotati, nei resoconti storiografici, non solo gli equites ma anche i

velites, cioè i contingenti più giovani della milizia. Oltre al clipeus eroico, anche gli scuta compaiono

poi nel mondo dell’epica, ma quasi sempre al plurale, riferiti alla massa dei soldati sul campo di battaglia e non a un singolo eroe. Questo scudo da fanteria, tuttavia, può trovarsi talvolta associato a grandi protagonisti della storia romana, come Camillo e Scipione. E il contesto spesso particolare: si tratta di scene di salvataggio di compagni in difficoltà (come nel caso di Scipione in Cic. Tusc. 4.50) o di momenti in cui l’esito della battaglia è a rischio e allora, per rinfrancare l’esercito, il comandante si lancia, davanti a tutti, contro i nemici (così Camillo, in Liv. 6.8.6, prende lo scutum di un anonimo soldato e si lancia contro file avversarie, rinfrancando il coraggio delle truppe e ristabilendo la vittoria per Roma). In altre parole, lo scutum compare al braccio dei grandi

imperatores di Roma in situazioni di crisi, quando il nemico incombe e la fermezza dell’esercito

fanteria, composta da 4.200 uomini per legione, numero elevato a 5000 in caso di necessità (cf. anche Plb. 3.107.10-11) Hastati, Principes e Triarii (di cui Polibio discute dettagliatamente le differenze per abilità e impiego in battaglia) dispongono di un armamento molto simile tra loro: lo scudo (scutum), una grossa spada (gladius), una lancia (pila per gli Hastati, hasta per gli altri), schinieri, elmo piumato e, talvolta, protezioni per il petto. Da questi si distinguono i Velites, arcieri armati alla leggera, con elmo senza piume e uno scudo più maneggevole e rotondo (3 piedi di diametro), simile a quello dei cavalieri, e chiamato anch’esso parma. Per l’uso del termine parma in riferimento allo scudo di equites e velites cf. ThLL 10.1.410.68- 411.10. Per una discussione più approfondita del passo polibiano e, in generale, della composizione della legione romana cf. già Sumner (1970) 67-78; Treloar (1971) 3-5; Bishop–Coulston (1993).

24 La forma oblunga, quasi rettangolare, garantiva maggiore protezione, al prezzo però di un ingombro

maggiore (cf. Lee (1996) 200) e di un maggiore peso (quasi 10 Kg. contro i circa 8 dello scudo oplitico). Cf. Bishop–Coulston (1993) 59 e Hanson (2001) 97). Sullo scudo romano cf. Davison (1969) e Travis–Travis (2014). Per una presentazione del completo armamento oplitico cf. invece Hanson (2001) 85-124.

deve essere ritemprata: non la leggera parma, o il clipeus dal sapore mitico e greco, ma il pesante

scutum rettangolare è cioè l’arma dell’estrema resistenza.

È in questo “sistema romano” di scudi, dunque, che il σάκος di Aiace deve essere collocato e osservato. L’ampio scudo dell’eroe, anch’esso un maius corpori tegumentum rispetto all’ἀσπίς rotonda degli opliti, si avvicina infatti all’immagine dello scutum romano, rettangolare e ugualmente ricoperto di pelli bovine. Eroe dalla stazza vigorosa e resistente, del resto, Aiace non si muoveva veloce sul carro, come molti altri guerrieri iliadici, ma affrontava la battaglia appiedato, sostenendo il peso del suo ingombrante scudo rettangolare, come un fante romano. Tale analogia, potenzialmente e anche solo inconsciamente percepibile, potrebbe dunque aver garantito all’immagine omerica di Aiace un primo, immediato e visibile, elemento di contatto con modelli militari profondamente romani. In effetti, alcuni tratti specifici del σάκος vengono percepiti e conservati nell’immaginario latino. È il caso del rivestimento in pelle, il cui straordinario numero di strati (ἑπταβόειος) si fissa, a Roma, in una sorta di iconografia letteraria ricorrente: septemplex viene definito il clipeus di Aiace da Ovidio, in due espressioni identiche, dal sapore formulare (Ov. am. 1.7.7; met. 13.2): clipei dominus septemplicis Aiax. L’aggettivo septemplex, equivalente latino dell’epiteto omerico ἑπταβόειος, compare poi in riferimento allo scudo di Aiace anche nell’Ilias

Latina (Homer. 291, 609).25 E anche nell’Achilleide di Stazio, tra gli eroi che, pronti alla guerra, attendono l’arrivo di Achille, viene nominato Aiace, con il suo grande scudo (Stat. Ach. 1.470-1):

septemque Aiax umbone coruscet armenti reges atque aequum moenibus orbem.

Pur immaginato nella forma circolare (orbis) del clipeus eroico, il particolare rivestimento del σάκος di Aiace è anche qui mantenuto e completato, almeno implicitamente, da una similitudine che ne suggerisce robustezza e ampie dimensioni: della pelle di septem reges armenti, di sette capi-mandria, è composto lo scudo imbracciato da Aiace, arma di difesa pari alle mura di una città. L’immagine del poderoso scudo di Aiace si conserva almeno fino al II d.C., in contesti anche molto lontani dai campi di battaglia: il retore Frontone, discutendo di stilistica e retorica in un’epistola a Marco Aurelio, recupera l’immagine dello scudo di Aiace, in un’espressione di sapore quasi proverbiale o, quantomeno, di uso apparentemente comune. Passando al vaglio il lungo e, a suo giudizio, ripetitivo prologo del “poema di Annaeus” (cioè della Pharsalia di Marco Anneo Lucano), Frontone lamenta infatti come i sette versi d’apertura siano in realtà sette riformulazioni del medesimo concetto, la guerra civile. Arrivato quindi al commento del settimo verso, e all’apice del suo intento critico, Frontone scrive che, unito ai sei versi precedenti, l’ultima sententia del prologo lucaneo giunge appunto, con tutta la pesantezza di una settima ripetizione, come il settimo strato dello scudo di

25 L’Ilias Latina è una versione ridotta del testo omerico, redatta in latino e in esametri, forse composta

Aiace (p. 155.6 van den Hout): septimum de Aiacis scuto corium. Attraverso questa rapida battuta di Frontone, l’immagine dello scudo di Aiace (qui indicato proprio con il termine scutum e non con il termine clipeus) e dei suoi molteplici rivestimenti mostra non solo di essere sopravvissuta ma di essersi fissata nella memoria collettiva romana, tanto da poter essere impiegata come paragone di ingombrante pesantezza in un contesto lontanissimo da quello bellico. Lo scutum a septem coria di Aiace, uno scudo da soldato semplice, grosso e pesante, arriva dunque a farsi metafora di un eccesso stilistico, secondo Frontone, poco rifinito e curato. Ma la stessa idea di scarsa raffinatezza sembra associarsi all’immagine dello scudo dell’eroe, e in particolare al pellame di cui è composto, già in esempi letterari molto precedenti. È il caso dell’Aiace ovidiano. In Ovidio, gli strati dello scudo di Aiace si combinano infatti con il ritratto di un eroe dai tratti rozzi e primitivi. Nel passo degli Amores già menzionato (Ov. am. 1.7.7) Aiace, dominus di un clipeus septemplex, viene citato come paragone di impulsiva grettezza: il poeta innamorato ha colpito l’amata e maledice quel gesto, un gesto da

demens e da barbarus, degno di un Aiace dallo scudo di pelle. Ma la stessa arretratezza grossolana

appare chiaramente associata all’eroe, e sempre visualizzata nell’immagine dello scudo, anche nel terzo libro dell’Ars amatoria (Ov. ars 3.109-14):

si fuit Andromache tunicas induta valentes, quid mirum? duri militis uxor erat. scilicet Aiaci coniunx ornata venires,

cui tegumen septem terga fuere boum! simplicitas rudis ante fuit, nunc aurea Roma est

et domiti magnas possidet orbis opes.

Nell’aurea Roma augustea, città del cultus e del gusto raffinato, le sette pelli di buoi dello scudo di Aiace condensano l’immagine di un passato eroico ma primitivo, di una semplicità rude in cui donne come Andromaca o Tecmessa, compagne di duri milites, non potevano certo adottare gli ornamenti e l’eleganza che Ovidio si appresta a consigliare, nell’Ars, alle fanciulle del suo tempo. “Sicuro Tecmessa si presentava tutta ingioiellata ad Aiace” scrive ironico il poeta elegiaco “Aiace, uno che per scudo aveva sette schiene di buoi!”.26 Se dunque il carattere miceneo dello scudo di Aiace non trova un diretto riscontro nella percezione romana, esso sembra tuttavia conservarsi nel dettaglio del rivestimento in pelle, e tradurre così il proprio anacronismo pre-omerico in un’immagine autoctona: tanto quella dello scutum rivestito di pelli, in uso tra le file più umili dell’esercito, quanto quella del tipo più arcaico dello scudo romano che, almeno secondo quanto visto in Polibio, era originariamente composto di strati sovrapposti di pellame bovino.

26 Per una discussione più approfondita di questi passi, soprattutto in relazione con l’Aiace ovidiano delle

Metamorfosi, dove la gretta semplicità dell’eroe e del suo scudo a sette strati (Ov. met. 13.2, 346-7) si troverà a confronto con Ulisse nell’episodio della contesa, vd. Parte II sez. 3.3.

1.1.2. Aiace gigante e il modus di Roma

Combinata al σάκος, ampio e arcaico, la statura fuori-scala di Aiace completava l’aspetto omerico e immediatamente riconoscibile dell’eroe. Mentre l’immagine dello scudo, almeno nel dettaglio del suo rivestimento in pelle, si era trasposta nel repertorio letterario romano, vestendosi anche di associazioni autoctone, l’enormità della stazza di Aiace non sembra tuttavia sempre valorizzata nel mondo di Roma. Aiace non si distingue, per dimensioni, corporatura o altezza, nelle pitture murali della Villa del Criptoportico, né nei rilievi della Tabula Capitolina e neppure nel disegno della

Tabula Sarti (vd. supra p. 13 FIG. 1.8, 9, 10):nemmeno nel paragone con Ettore, a cui l’eroe appare

per esempio affiancato nella pittura pompeiana, si rileva una differenza di altezze. Il caso del confronto con il campione troiano è, in effetti, particolarmente interessante: se neppure il mondo greco aveva sistematicamente realizzato la superiorità della statura di Aiace in tutte le sue rappresentazioni,27 la scena del duello con Ettore era apparsa luogo deputato ad esprimerla (vd.

supra TAV.I FIG. 1.2, 3).

Del resto, già nel racconto omerico dell’episodio, la stazza dell’eroe veniva insistentemente visualizzata (Hom. Il. 7.207-16): come un πελώριος Ἄρης scendeva in campo il πελώριος Aiace, l’ἕρκος Ἀχαιῶν, che sorrideva con volto terribile; il suo aspetto sollevava l’animo dei compagni e incuteva paura ai Troiani, facendo tremare anche Ettore che, avendo proposto lui per primo la sfida (ἐπεὶ προκαλέσσατο χάρμῃ), non poteva ritirarsi e trovare riparo tra le file dell’esercito. Al contrario, nelle realizzazioni romane, o almeno in quelle a noi pervenute, i riferimenti alla grandezza del baluardo acheo scompaiono dall’episodio. E non solo nel caso delle testimonianze archeologiche ma anche, per esempio, in un passo delle Tusculanae Disputationes, in cui Cicerone richiama esplicitamente lo scontro iliadico (Cic. Tusc. 4.49). Ripresa è la descrizione delle reazioni dei due schieramenti: una di gioia, per gli Achei (laetitiam attulit sociis), davanti alla figura dell’Aiax apud

Homerum, ricorda Cicerone, che avanza sereno verso lo scontro (multa cum hilaritate); una di

terrore per i nemici (terrorem autem hostibus [attulit]) e per lo stesso sfidante (ut ipsum Hectorem). Dichiarata e insistita è, dunque, la riproposizione della scena: ciò che manca è proprio il riferimento alla stazza di Aiace, sottolineato in più punti da Omero ma trascurato da Cicerone. L’omissione ciceroniana acquista anche maggior rilevanza nel quadro di quella che appare un generale silenzio sul gigantismo del Telamonio, quasi sempre ignorato nelle realizzazioni romane dei suoi exploits militari. Per quanto riguarda le testimonianze archeologiche, solo in un caso la stazza di Aiace viene effettivamente concretizzata: in una gemma romana di I d.C. (FIG.1.11).

27 Nella famosa scena del gioco a dadi con Achille (schema rappresentativo che, dopo l’inventor Exekias,

si diffuse largamente), la corporatura di Aiace non supera quella del divino Pelide (LIMC s. v. Achilleus 391- 427); spesso ripiegata su se stessa, anzi, viene da quella superata. L’isonomia eroica viene mantenuta nelle rappresentazioni dell’episodio della contesa (LIMC s. v. Aias I 71-8, 81-6). Un’isonomia che, come vedremo a breve in questa stessa sezione, assume forse particolari significazioni.

FIGURA 1.11. Gemma romana (Hannover K 645). I d.C.

Un Aiace dalle misure straordinariamente fuori-scala si erge qui sulla prua di una nave, intento a riparare con il proprio scudo una figura molto più piccola, probabilmente il fratellastro Teucro.28 Se la necessità di comprimere la figura di Teucro è in parte determinata dal ridotto spazio del supporto, è certo il contesto e il senso dell’episodio rappresentato a rendere qui ragione del gigantismo “romano” di Aiace: la considerevole superiorità fisica ben si combina, infatti, con il ruolo difensivo assegnato nella scena all’eroe, il cui scudo deve essere grande abbastanza da ricoprire e proteggere l’intera figura dell’altro guerriero.

Scarse ma parimenti giustificate da particolari motivazioni sono le menzioni romane della stazza di Aiace che emergono dalle testimonianze letterarie. Alcune scene di guerra in cui la fisicità di Aiace appare sottolineata vengono dal testo della cosiddetta Ilias Latina: qui, espressioni come

fortissimus satus Telamonis (Homer. 198), magnus Aiax (588) e maximus Aiax (780) appaiono

tuttavia come diretti echi dell’epitetica omerica e, di conseguenza, giocano un ruolo marginale nella definizione di un immaginario più specificamente romano.29 Più funzionalmente connotate sembrano invece essere le allusioni alla grandezza dell’eroe che emergono da un passo di Ovidio, in un preciso contesto narrativo: quello della contesa tra Aiace e Ulisse del tredicesimo libro delle

Metamorfosi. L’Ulisse ovidiano ironizza sul fortis Aiax e sugli ingentia verba con cui quel magnus vir ha proclamato il proprio valore guerriero (Ov. met. 13.340-1): fortis ubi est Aiax? ubi sunt

ingentia magni / verba viri? cur hic metuis? “Dove era il forte Aiace, dove gli smisurati discorsi del

28 La scena è esito della fusione di due fatti iliadici: la lunga resistenza presso le navi (raccontata in

particolare tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo libro), e l’intervento di Aiace in difesa di Teucro (Hom. Il. 8, 266-72). Difficile istituire confronti con altre rappresentazioni romane dell’episodio. L’unico parallelo possibile, seppur incerto, viene da una scena di battaglia sulla Tabula Iliaca Capitolina (LIMC s. v. Aias I 52), dove un guerriero in genere interpretato come Aiace (anche se privo di iscrizione identificativa) protegge un compagno sulla prua di una nave: le dimensioni del Telamonio sono qui pari a quelle degli altri guerrieri, mentre la figura da lui protetta, accovacciata, sembra avere, anche in questo caso, ridotte proporzioni.

29 Un significato marginale hanno, per lo stesso motivo, i riferimenti alla straordinaria corporatura di Aiace

che affiorano in Ditti Cretese (si veda per esempio Dict. 1.13: primus omnium ingenti nomine virtutis atque corporis Aiax Telamonius).

grande uomo”, chiede Ulisse, quando occorreva penetrare nella città nemica per sottrarne il Palladio? Se Aiace è così valoroso come dice di essere, perché ha avuto paura di quell’impresa? L’immagine di grandezza veicolata dagli aggettivi ingens e magnus non si associa apertamente, è vero, alla corporatura di Aiace (ingentes sono le sue parole e, anche nell’espressione magnus vir, la grandezza potrebbe essere soprattutto metaforica, quanto lo sarebbe quella percepibile nell’italiano “grande eroe”). Nel ricordo del πελώριος eroe omerico, tuttavia, è impossibile che tale aggettivazione non attivasse l’immagine concreta di Aiace, veramente ingens: una grandezza fisica che si opporrebbe dunque, nell’immagine data dal rivale Ulisse, alla piccolezza d’animo dell’eroe, incapace di dimostrare tanto coraggio quanto quello promesso dalla sua stazza.30

La grandezza dell’eroe ricompare infine in un passo delle Metamorfosi di Apuleio (Apul. met. 10.33): assistendo ad uno spettacolo teatrale che inscena il giudizio di Paride, vinto da Afrodite con lusinghiere promesse, l’asino-Lucio lamenta la corruzione delle decisioni umane, a partire dagli antichi fatti del mito; cita dunque l’episodio della contesa per le armi di Achille, dove il modicus

Ulixes venne preferito al maximus Aiax. Il senso di maximus è, come quello del magnus ovidiano,

principalmente metaforico, anche se qui connotato in senso positivo: ingiusta è la sconfitta del grandissimo eroe Aiace. In ogni caso, la grandezza dell’Aiace romano, spesso taciuta in scenari più specificamente militari, conta dunque almeno una seconda occorrenza, dopo quella ovidiana, nel contesto della contesa con Ulisse. Una maggiore frequenza che sembra confermata dalle fonti archeologiche. La vicenda della contesa tra i due eroi per il possesso delle armi di Achille si trova per esempio rappresentata su un’urna funeraria di I/II d.C (TAV.III FIG.1.12) e in una pittura murale proveniente dalla Domus Transitoria di Nerone, databile al 55-66 d.C,31 fino a ripresentarsi in un piatto a rilievo databile al VI d.C. (TAV.III FIG.1.13): in tutti i casi, la figura di Aiace supera in altezza quella dell’avversario Ulisse. Nell’immaginario artistico romano, la straordinaria stazza di Aiace prendeva dunque concretamente parte alla costruzione del confronto tra questo πελώριος eroe e il meno vigoroso (modicus) ma πολύμητις Ulisse.

Significativa è infatti la differenza registrabile con le rappresentazioni greche del medesimo soggetto. Come accade, per esempio, nelle famose realizzazioni di Douris e del Pittore di Brygos (TAV. III FIG. 1.14, 15, 16) i due contendenti, disposti specularmente e separati da una figura mediatrice centrale, assumono dimensioni fisiche paritarie e conformi a quelle degli altri personaggi. Se dunque nella scena del duello con Ettore la stazza di Aiace veniva espressa nelle rappresentazioni greche ma non in quelle romane, nell’episodio della contesa si verifica la situazione opposta, con l’immaginario romano intento a sottolineare la fisicità dell’eroe e quello greco disposto invece a raffigurare visivamente la parità del confronto tra i due contendenti.

30 Su come l’immagine della vigorosa stazza di Aiace si inserisca nella più ampia opposizione qualitativa