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Capitolo 2. AIACE CONTRO ETTORE: UN DUELLO ROMANO

3.1. Cives servare, scuto tegere

La chiave dell’attenzione riservata a Roma ai salvataggi compiuti da Aiace risiede proprio nel verbo con cui sia Pacuvio che Ovidio li identificano: servare. Servare la vita di un compagno in battaglia era uno dei più alti meriti militari romani, premiato con il conferimento della preziosa corona civica: una corona ricavata da foglie di quercia che veniva infatti conferita ob cives servatos (Val. Max. 2.8.7; Sen. clem. 1.26.5). Nella sua Naturalis historia, Plinio il Vecchio ci fornisce una descrizione di questa corona, il resoconto delle modalità con cui viene assegnata e l’elenco degli illustri insigniti (Plin. nat. 22.4-6). Sia che l’intero esercito venga sottratto alla morte, scrive Plinio, sia che la vita salvata sia una sola, o anche di poco conto (come quella che l’Aiace ovidiano attribuisce ad Ulisse) l’atto stesso del servare si merita l’honos della corona: civicae honos uno aliquo ac vel humillimo

110 Anche nella Tabula Iliaca Capitolina, dove pure le rappresentazioni si pongono come epressioni

figurate e fedeli del testo omerico, i due episodi appaiono condensati (LIMC s. v. Aias I 52).

111 In effetti, almeno nel caso della gemma – un prodotto appartenente al mondo aristocratico, dove le virtù

degli eroi erano celebrate e assimilate dai committenti quasi come modelli di qualità personali – sarebbe forse poco probabile vedere la figura di Ulisse, capo acheo e guerriero iliadico di primo piano, ridotta ad una così esplicita posa di terrore e dipendenza. È però vero che lo stesso tipo di svilimento era proprio quello attuato dall’Aiace ovidiano, in un tempo quindi non molto lontano da quello della gemma stessa (I a.C.) o della Tabula Iliaca (I d.C.). In Ovidio, Aiace appare tutto teso a fare di Ulisse un iners, in preda al timore e ai tremiti, rannicchiato sotto il saldo scudo del suo salvatore. Anche durante l’attacco troiano alle navi achee, del resto, Ulisse era fuggito in ritirata, riparandosi come tutti gli altri achei nelle chiglie delle navi, e lasciando Aiace solo nella sua strenua resistenza. Questa fuga, dunque, nella condensazione delle due scene, potrebbe essersi trasferita anche al comportamento di Ulisse nell’episodio del salvataggio, fino a fare di lui l’eroe pavido e accucciato sotto lo scudo che ci descrive l’Aiace ovidiano.

cive servato praeclarus sacerque habetur. A differenza delle altre onorificenze militari, nota sempre

Plinio, la corona civica è inoltre l’unico merito che può essere assegnato non dai comandanti ma dai soldati semplici: la corona viene infatti accordata ai meritevoli direttamente dalle mani di coloro che sono stati salvati. Può essere conferita quindi dai singoli soldati al loro salvatore112 o da intere guarnigioni al comandante che le ha tratte in salvo: tra i casi citati da Plinio (Plin. nat. 22.5-6) c’è per esempio quello di Decio Mure, insignito della corona dai soldati del contingente che aveva sottratto alla morte. In casi del tutto eccezionali, la corona può essere assegnata dal Senato e dal Popolo Romano: così avviene per Fabio Massimo e per Augusto, che salvarono non tanto singoli compagni, intere guarnigioni o tutto l’esercito sul campo di battaglia, quanto piuttosto la stessa res

publica (da Annibale l’uno, dalle guerre civili l’altro).

La riconoscenza dovuta al “salvatore” da parte del “salvato” era immensa: quest’ultimo era infatti chiamato a rendere al primo gli stessi onori e lo stesso rispetto dovuti al proprio padre (Plb. 6.39.7). Patres dello Stato vennero infatti chiamati Fabio Massimo e Augusto, loro che avevano salvato lo Stato e a cui lo Stato aveva riconosciuto il premio della corona civile. Il peso di una gratitudine così grande, tuttavia, può generare qualche difficoltà. Già Cicerone, nella pro Plancio, fa menzione di una tendenza evidentemente comune anche tra i soldati di più basso rango: quella di assegnare mal volentieri la corona civica e mal volentieri ammettere di dovere a qualcun altro la propria salvezza (Cic. Planc. 72): id etiam gregarii milites faciunt inviti, ut coronam dent civicam et

se ab aliquo servatos esse fateantur. Non perché sia motivo di vergogna essere scampati alle mani del

nemico grazie all’intervento di terzi (non quo turpe sit protectum in acie ex hostium manibus eripis). Solo al fortis vir et pugnans accade infatti di aver bisogno di aiuto, proprio perchè combatte nel vivo della battaglia. La riluttanza nella riconoscenza nasce piuttosto dalla grandezza del debito cui si resta legati: come ribadisce Cicerone, nei confronti del proprio salvatore si è infatti chiamati a porgere gli stessi onori dovuti a un genitore (sed onus beneficii reformidant, quod permagnum est alieno debere

idem quod parenti). Tale riluttanza doveva essere un fatto reale a Roma se Cicerone può farne una

così spontanea allusione nella sua arringa. La ritroviamo, in un certo senso, anche nel già citato passo pliniano: Curio Dentato, scrive Plinio (Plin. nat. 22.5), ottenne una sola corona civica (donatus

est ea semel), nonostate ne avesse meritate quattordici e avesse combattuto centoventi battaglie, tutte

da vincitore.

112 Così accadeva in origine, almeno secondo Plb. 6.39.6 e Gell. 5.6.11-12 Il riconoscimento diretto

continua a verificarsi fino all’età imperiale, come sembra attestare un passo di Tacito (Tac. ann. 3.21.3), anche se il conferimento della corona appare ormai limitato all’autorità imperiale. Il gregarius Elvio Rufo, per esempio, dopo aver salvato un concittadino in battaglia, viene immediatamente insignito di torques e hasta pura (collare e lancia senza punta), come riconoscimento al valor militare. Solo dopo, al cospetto dell’imperatore – che pure si mostra (anche se forse solo formalmente) rammaricato per non essere stato preceduto dal proconsole in questo riconoscimento – avviene l’assegnazione della corona: Caesar addidit civicam coronam, quod non eam quoque Apronius iure proconsulis tribuisset questus magis quam offensus.

La situazione dell’Aiace ovidiano pone in effetti un caso non troppo diverso. Egli rivendica il merito del proprio servare (Ov. met. 13.76: servavique animam […] inertem; ma si veda già Pacuv.

trag. fr. 40 R3: men servasse ut essent qui me perderent). Rivendica, cioè, la gratitudine che, a Roma più che mai, gli sarebbe spettatata per aver salvato la vita a un compagno: le armi di Achille sono, in un certo senso, la corona civica che Aiace si meriterebbe e vuole ob cives servatos. Ma, a negare questa ricompensa, è proprio Ulisse, simile, in questo, ai soldati ciceroniani che mal volentieri ammettevano il proprio debito verso chi li aveva salvati.

Se l’azione del servare traduce nell’immaginario romano le imprese di salvataggio di Aiace, anche la modalità con cui questo salvataggio avviene – con lo scudo posto a protezione del compagno ferito – trova il suo corrispettivo in un particolare repertorio di imprese romane: quello dello scuto tegere. L’espressione ricorre a marcare una situazione narrativa che appartiene alla categoria del servare e che si realizza nella specifica immagine, reale o metaforica, di un guerriero che frappone il proprio scudo (e/o il proprio corpo) tra il pericolo incombente e il soggetto in difficoltà. Scene di questo tipo compaiono frequentemente sia nei resoconti di vicende militari sia nelle loro trasfigurazioni poetiche, muovendosi a metà strada tra la loro cifra reale (quella di proteggere i compagni in difficoltà è una scena a cui tutti i cittadini romani dovevano aver assistito, o almeno aver avuto presente, nei lunghi anni di servizio militare) e l’elevazione a episodio canonicamente letterario. Nel passo delle Tusculanae immediatamente successivo a quello in cui Cicerone accostava la fortitudo dimostrata da Aiace a quella di Torquato, trova spazio anche la figura dell’Africano Minore, Scipione Emiliano,113 citata come esempio della stessa calma fermezza (Cic.

Tusc. 4.50): non certo in preda alla furia era Scipione, scrive Cicerone, cum in acie M. Allienum Pelignum scuto protexerit gladiumque hosti in pectus infixerit, “quando, sul campo di battaglia,

protesse con il proprio scudo Marco Allieno Peligno e affondò la spada nel petto del nemico”. L’episodio non è altrimenti noto e poche sono le possibilità di identificare il Peligno, qui menzionato, così come praticamente impossibile è collocare la vicenda con precisione in una delle tante campagne militari di Scipione. Appare però chiaro come il gesto di Scipione dovesse essere comunemente noto al tempo di Cicerone (che altrimenti non avrebbe potuto introdurre una menzione così rapida dell’episodio) e fosse riconosciuto come un esempio positivo di valore militare.

Casi storici come quello di Scipione trovano ovviamente il loro corrispettivo leggendario nei tanti eroi dell’epica romana, che non esitano a soccorrere i propri compagni. Tegere, proteggere un guerriero con il proprio scudo o con la propria vita, diventa una scena comune nel repertorio narrativo delle battaglie epiche. Chiaro è l’esempio virgiliano: nel libro decimo dell’Eneide, quello che più di ogni altro è dedicato alla descrizione dell’infuriare della battaglia, Virgilio concentra tutti gli episodi di scuto tegere e cives servare del suo poema, quasi a rivelarne la natura di moduli di

113 Dougan (1979) 157 nota come Cicerone definisca recens la memoria di questo episodio. L’Africanus

repertorio per la costruzione di grandi scene di guerra. C’è per esempio Aleso, che protegge Imaone, finendo però per scoprire se stesso, vulnerabile, ai dardi nemici (Verg. Aen. 10.424-5: dum texit

Imaona Halaesus / Arcadio infelix telo dat pectus inermum). C’è poi Lauso, che si lancia nella mischia

per proteggere il suo comandante e padre Mezenzio dal colpo fatale di Enea (10.790-820): mantenendo salda la posizione, Lauso sostiene l’urto della spada nemica (Aeneae subiit mucronem

ipsumque morando / sustinuit) e permette così al padre di allontanarsi e salvarsi, protetto dallo scudo

del figlio (genitor nati parma protectus abiret).114 Sembra poi che Virgilio finisca anche per cogliere la curiosa sovrapposizione lessicale che nell’Iliade associava la protezione dello scudo, offerta da Aiace, a quella garantita dall’intervento divino. Sempre nel libro decimo, quasi a rendere più chiaro il parallelo, Venere chiede infatti a Giove di poter almeno proteggere, se non il figlio Enea, il nipote Ascanio, per sottrarlo alla crudele battaglia (Aen. 10.50): hunc tegere et dirae valeam subducere

pugnae.115 L’azione di Venere, tegere, è la stessa compiuta dagli scudi, così come l’azione compiuta dall’Afrodite iliadica, che aveva protetto Enea in battaglia, era stata descritta con lo stesso verbo, καλύπτω, riservato al salvataggio di Teucro da parte di Aiace. In questa maglia di “episodi protettivi” che Virgilio intesse e ripete nel corso della battaglia del libro decimo, si inserisce per lessico e per andamento un episodio dall’esito diametralmente opposto: l’uccisione di Emonide da parte di Enea. Enea va incontro a Emonide, che è a terra; poi lo sovrasta e lo uccide, e lo copre con la sua ombra immensa. (Verg. Aen. 10.540-1):

quem congressus agit campo, lapsumque superstans immolat ingentique umbra tegit.

Il vicino ricordo delle altre scene di salvataggio, tutte presenti nello stesso libro, rende inevitabile la percezione di alcune somiglianze. L’andamento è simile a quello che caratterizza la scena-tipo del soccorso, fin dal modello omerico: Enea si avvicina al guerriero caduto, gli sta sopra e, se l’episodio fosse davvero un salvataggio, dovrebbe proteggerlo (tegere) con il suo scudo. Ma la scena non è quella di un salvataggio, è un’uccisione. Curiosamente, però, il verbo tegere compare, quasi a colmare

114 La presenza della parma, qui, invece del più saldo e massiccio scutum o dell’eroico clipeus risponde ad

un uso epico piuttosto diffuso: quello di affidare ai guerrieri più giovani questo tipo di scudo, specchio della consuetudine reale e storicamente attestata di dotare della parma non solo gli equites ma anche i contingenti più giovani dell’esercito romano, i velites. Vd. supra n. 23. La parma riflette la fragile giovinezza di Lauso che, seppur sostenuta – o proprio perché sostenuta – da un animus valoroso, è destinata a spezzarsi. Giovani valorosi che muoiono per proteggere padri e/o generali non sono rari nell’epica romana: simile al gesto di Lauso sarà anche quello di Gestar, il giovane cartaginese che, nei Punica, farà scudo con il proprio corpo ad Annibale, permettendogli di salvarsi (Sil. 12.62-7).

115 L’intenzione protettiva di Venere, apparentemente negata da Zeus, si accosta anche a quella tentata

dalle mura dell’accampamento, che ormai non possono più proteggere i Teucri (Verg. Aen. 10.22): non clausa tegunt iam moenia Teucros. In Omero il guerriero che offriva protezione con lo scudo a torre era l’ἕρκος Aiace, il baluardo difensivo dei Greci; e Afrodite proteggeva (con lo stesso verbo) il proprio figlio, facendosi per lui un muro diversivo, ἕρκος anche lei (Hom. Il. 5.314-7). Anche in Virgilio, dunque, questi tre elementi protettivi – la divinità, il guerriero e le mura – si assimilano l’uno all’altro, agendo tutti, nello stesso libro, allo stesso modo (tegere).

un’aspettativa distorta: avvicinando cioè la situazione al modello delle imprese di soccorso, la comparsa del verbo chiave tegere finisce per sottolineare, ancora più crudelmente, l’opposta natura della scena. Il tentativo di riecheggiare il modulo narrativo del salvataggio, per contrapporlo alla dura realtà del gesto di Enea, potrebbe tra l’altro aiutare a spiegare lo strano andamento in ὕστερον πρότερον del passo: Enea, superstans sul guerriero abbattuto, prima lo uccide e poi lo copre con la sua ombra. In realtà, l’ombra del troiano doveva aver sovrastato il nemico prima che gli fosse così vicino da sferrare il colpo fatale. Porsi problemi di stretta consequenzialità logica in un testo poetico non sempre è utile, è vero. Tuttavia, l’aggiunta di quel umbra tegit che sovverte la sequenza (crono)logica delle azioni potrebbe davvero rispondere all’amaro tentativo di dare a una scena di morte la forma tipica delle scene di soccorso: in queste, coprire il compagno è l’ultima azione agìta dal salvatore, appena prima che il ferito venga riportato all’accampamento. Nel passo virgiliano, invece, tegere è l’ultima azione compiuta da Enea prima che Seresto muoia, rimettendo le sue spoglie al dio della guerra (Verg.

Aen. 10.541-2): ingentique umbra tegit, arma Serestus / lecta refert umeris tibi, rex Gradive, tropaeum.

Così, interpretando la comparsa di tegere come un tentativo di ripresa e distorsione dell’andamento tipico dei salvataggi, si spiegherebbe anche la sua posizione finale e l’apparentemente illogico ὕστερον πρότερον.

L’intervento di soccorso si rivela dunque un modulo narrativo ripetibile, ed eventualmente sovvertibile. Se implicito resta l’impiego nel caso dell’Enea virgiliano, un chiaro stravolgimento del medesimo schema di salvataggio emerge da un passo della Pharsalia di Lucano, nella cupa e distorta atmosfera delle guerre civili: proprio perché canonizzato e riconoscibile, questo prototipo narrativo diventa cioè un utile elemento da recuperare e alterare nella costruzione del mondo lucaneo. Così accade in Lucan. 3.603-34, dove la vicenda coinvolge non solo due compagni d’arme ma proprio due fratelli, come nel caso omerico di Teucro e Aiace. L’episodio assume tuttavia una forma inaspettata: in un combattimento navale, uno dei due fratelli cerca di assaltare, dalla propria nave, una nave della fazione nemica, e la “aggancia” con il braccio destro; gli viene però mozzata la mano e egli cerca allora di continuare l’assalto con la sinistra; perde anche il braccio sinistro e si ritrova quindi completamente inerme, esposto al nemico. Ormai senza scudo e senza possibilità offensive (iam clipeo telisque carens), il soldato non si rifugia però nella chiglia della nave ma si sporge a proteggere, con il proprio petto ormai nudo, le armi del fratello (Lucan. 3.619-20):

expositus fraternaque pectore nudo arma tegens.

Qui non è un’arma dunque, il clipeus o lo scutum, quella con cui il fratello protegge il fratello: privato dello scudo, il salvatore si trova paradossalmente a tegere pectore nudo, quasi in una consapevole variazione del tegere clipeo; e, altrettanto paradossalmente, da disarmato, fa da schermo non al fratello inerme o ferito ma agli arma di quello. Il paradosso, del resto, è la cifra del poema lucaneo. Ma

l’estrema assurdità del gesto funziona con ben maggior efficacia in un sistema narrativo in cui la scena del salvataggio sia canonizzata e la sua alterazione perfettamente riconoscibile: dall’arma del salvatore, lo scudo, che faceva da protezione al corpo iners dell’altro, si passa a un corpo iners che fa da protezione a un guerriero in armi. Il salvataggio con lo scudo si fissa dunque come una scena-tipo delle battaglie romane, tanto da poter essere funzionalmente variata. Una scena-tipo in cui l’eco del modello omerico, anche se non esplicito né forse sempre volontariamente ricercato, doveva essere tuttavia sempre potenzialmente percepibile, soprattutto nei contesti epici. La costruzione della scena, in effetti, si sovrappone chiaramente ai salvataggi dell’Aiace iliadico: un eroe in difficoltà, spesso ferito, vulnerabile o caduto a terra, viene avvistato da un compagno che gli si fa incontro e lo protegge con il proprio scudo, o “facendogli da scudo”. Anche nella distorsione luceanea, in effetti, l’andamento è il medesimo, non fosse che per una cruciale variazione: è l’eroe ferito, orrendamente mutilato degli arti superiori (e quindi delle sue funzioni di attacco) a fare del proprio stesso corpo uno scudo protettivo (ad assumere cioè l’unica funzione rimastagli, quella del tegere).

La scena, tuttavia, non è circoscritta al mondo epico: come si è visto nel caso dell’Emiliano raccontato da Cicerone, il tegere scutum fa parte delle reali situazioni di combattimento che si potevano verificare, e si erano verificate, nelle battaglie della storia romana. I moduli descrittivi dell’epica e della storiografia si sovrappongono, dunque, nella somiglianza delle scene trattate. E l’uno può influenzare l’altro. Significativo, in questo senso, è un episodio relativo all’altro Scipione, l’Africano. Polibio (Plb. 10.3.3-7) ci racconta che Scipione, ancora diciassettenne, si distinse nella battaglia del Ticino, ai tempi della sua prima campagna militare, quando le truppe romane, comandate dal di lui padre, si opposero all’avanzata cartaginese. Sebbene il genitore avesse cercato di tenerlo al sicuro, assegnandolo a una guarnigione di cavalleria scelta, non appena il giovane Africano si accorse che il padre si trovava in difficoltà, esortò i compagni a intervenire; anch’essi erano però circondati, e quindi impossibilitati a prestare aiuto; ecco che allora, con estremo coraggio, Scipione si era lanciato in avanti, sbaragliando i nemici che lo incalzavano e incutendo quindi timore a quelli che, poco più lontano, si erano ammassati attorno al padre. Questi poté così mettersi in salvo e fu il primo a riconoscere il figlio come suo salvatore.116 Il salvataggio raccontato da Polibio, è vero, non si configura come un vero e proprio episodio di scuto tegere. Tuttavia, quando la stessa vicenda storica entrerà a far parte di una narrazione poetica, la forma assunta apparirà significativamente conforme a quella della scena-tipo del salvataggio epico. Siamo, ancora una volta, in un passo dei Punica di Silio Italico (Sil. 4.454-71).117

116 Plb. 10.3.6: […] ὁ δὲ Πόπλιος ἀνελπίστως σωθεὶς πρῶτος αὐτὸς τὸν υἱὸν σωτῆρα προσεφώνησε πάντων

ἀκουόντων. La situazione è particolare e forse proprio per questo sottolineata da Polibio: il padre è il primo a riconoscere il merito del suo salvatore e a porsi così in uno stato di debito che gli impone, in quanto “salvato”, di portare al proprio stesso figlio il rispetto dovuto a un pater.

117 Silio Italico si mostra spesso sensibile tanto ai modelli epici quanto a motivi e tecniche della tradizione

storiografica, cf. Gibson (2010). Nel caso della scena di Scipione, l’episodio storiografico attestato da Polibio si combinerà dunque a toni e motivi tipici dei salvataggi epico-omerici.

Accortosi che il padre era stato ferito, l’Africano viene preso dal terrore, impallidisce e getta un grido profondo. Cerca per ben due volte di togliersi la vita (bis conatus erat praecurrere fata parentis / conversa in semet dextra) ma Marte glielo impedisce, convogliando invece il suo impeto contro i Cartaginesi. Con lo stesso ritmo del dio della guerra (Gradivum passibus aequat) l’Africano si fa allora largo nel campo di battaglia (latusque repente / apparet campo limes) fino a raggiungere il padre ferito. A questo punto, con uno scarto percepibile solo ipotizzando l’esistenza di un modello di scene di salvataggio fisso e riconoscibile, è lo stesso Scipione ad apparirci clipeo tectus. Invece di essere il salvatore a tegere clipeo – come ci si attende nella scena-tipo del salvataggio – è Scipione cioè a salvare il padre e a essere al tempo stesso tectus caelesti clipeo: un’espressione che, nella sorpresa generata dalla variazione rispetto al modulo più comune, sottolinea con forza anche maggiore la protezione divina accordata al grande eroe romano.