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ADAM SMITH E L’ORDINE DELLA POLITICAL ECONOMY

PER UNA CRITICA DEL REGIME DI MOBILITÀ

1. ADAM SMITH E L’ORDINE DELLA POLITICAL ECONOMY

Adam Smith è sicuramente la figura centrale nell’affermazione di un ordine del discorso economico politico, esito di una continuità di problematiche che attraversano il suo pensiero dalla Teoria dei

Sentimenti Morali (1759) alla Ricchezza delle Nazioni (1776). Tale continuità, che sarebbe stata al

centro del dibattito sul cosiddetto “Adam Smith problem” nella Germania di fine Ottocento1 , è ormai acquisita. Ci interessa tuttavia riprenderne il filo per mostrare come il concetto di “obbligazione”, opposto a quello di police nelle Lezioni di Glasgow (1766), sia centrale nella definizione di una “giurisprudenza naturale” che costituisce la base del pensiero economico. Smith si domanda come codificare l’obbligazione penale degli individui senza inserire una norma rigida che finirebbe per decentrare il primato della società civile. Torniamo insomma all’origine della nostra genealogia: al tentativo di definire la libertà come “funzione di ordine” capace di adattarsi alla mobilità dei rapporti sociali evitando la verticalità della police mercantilista. Dalla mediazione della “simpateticità” nella Teoria dei Sentimenti Morali alla mediazione del “lavoro” nella

Ricchezza delle Nazioni, Smith pone un problema che è insieme politico, etico ed economico: la

ricerca di un ordine fondato sull’interdipendenza tra individui. Il soggetto, al tempo stesso individuo singolo e collettivamente adeguato, è la vera base di quell’armonia in ultima istanza espressa nella famosa metafora della “mano invisibile” del mercato, indipendentemente dalle interpretazioni che ne darà il XIX secolo. Questo stesso soggetto verrà scisso dalla critica marxiana.

1.1 L’immaginazione simpatetica

Come ha sostenuto Albert Hirschman2, la fine delle buone passioni eroiche rinascimentali esaurisce l’ordine morale senza condurre immediatamente all’ethos borghese moderno. Se la “ricerca di gloria” era stata l’unica passione positiva in mezzo alla generale condanna ereditata da Agostino, il XVII secolo rinuncia all’idea stessa di “affidarsi alla morale filosofica ed ai precetti religiosi per porre un freno alle distruttive passioni degli uomini”3

. Con la fine del comando religioso diverse alternative si presentano per colmare la precaria instabilità del mondo. Da un lato Hobbes, proponendo il patto artificiale stretto tra individui al fine di aver salva la propria vita dalla violenza delle passioni. Dall’altro Smith, il quale non condanna le passioni in quanto tali, ma le traduce nel

1 Si veda R.F.Tcheigraeber, “Rethinking ‘Das Adam Smith Problem’” in Journal of British Studies, XX, 1981, pp.106 – 123.

2 A.O.Hirschman, Le Passioni e gli Interessi. Argomenti Politici in Favore del Capitalismo Prima del suo Trionfo, Feltrinelli, Milano, 2012.

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linguaggio degli interessi individuali, il cui riconoscimento e adattamento è in sé una virtù etica. Come ha sostenuto Adelino Zanini nel suo testo fondamentale Filosofia Economica4, Smith è l’ultimo autore in cui è possibile da un punto di vista macro-economico sovrapporre l’etico, l’economico e il politico. Smith fonda dunque una morale socialmente specifica, etica, proprio nel momento in cui è artefice della moderna political economy.

La Teoria dei Sentimenti Morali muove dall’osservazione dei comportamenti individuali. Smith constata il fatto che tali comportamenti concorrono a definire una norma sociale media, la propriety. La propriety, o appropriatezza dei sentimenti, consiste nella proporzionalità tra la passione che si prova e la causa che la suscita5. Essa è dunque definita socialmente, riguarda un popolo in un determinato tempo, e si esprime in un “immaginato spettatore imparziale”6

che rappresenta la sua medietà sociale. Tenendo presente il comportamento medio degli individui in una particolare situazione, l’individuo è portato a concorrere alla formazione di questa medietà adeguandovisi7

. Tale capacità di adeguamento si sviluppa acquisendo un “dominio di sé”. Erede del tema lockeano della proprietà della propria persona e centro del già visto dibattito tra Sieyès e Bentham, il “dominio di sé” è per Smith il solo princìpio a “riporta[re] tutte [le] passioni ribelli e turbolente entro quei limiti che lo spettatore imparziale può condividere e con cui può simpatizzare”8

. Il dominio di sé deriva dal senso di appropriatezza definito socialmente, non postula un’essenza umana a priori. L’individuo smithiano è in questo senso duplice. Da un lato egli agisce come attore materiale, prudent man le cui azioni si rifanno alla norma sociale. Dall’altro svolge il ruolo di

impartial spectator delle passioni altrui, sforzandosi di “rendere più perfetto possibile

quell’immaginario scambio di situazione su cui si basa la sua simpatia”9

. Per quanto lo sforzo immaginativo di ognuno dei due individui non possa mai portare a un completo scambio di situazione, i due sentimenti si avvicinano l’un l’altro abbastanza da “avere una corrispondenza reciproca sufficiente per l’armonia della società”10. La “simpatia” denota così il “sentimento di partecipazione” più o meno elevata alla passione altrui, che nel corso del tempo si cristallizza in

4 A.Zanini, Filosofia Economica. Fondamenti Economici e Categorie Politiche, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 5 “Nell’adeguatezza o inadeguatezza, nella proporzione o sproporzione dell’affezione rispetto alla causa o oggetto che la suscita, consiste l’appropriatezza o inappropriatezza, la buona creanza o la malagrazia dell’azione conseguente.” A.Smith, Teoria dei Sentimenti Morali, BUR, Milano, 2016, p. 97.

6 Ivi, p. 506.

7 Vi è insomma per Smith una fondamentale “disposizione naturale ad adattarsi agli altri e ad adeguare, per quanto possiamo, i nostri sentimenti, principi, emozioni a quelli fissati e radicati nelle persone con cui siamo obbligati a vivere e conversare a lungo.” Ivi, p. 445.

8 Ivi, p. 506. 9 Ivi, p. 102. 10

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quella “intensità media” cui corrisponde il livello di appropriatezza tra una determinata passione e l’azione che essa genera.

La Teoria dei Sentimenti Morali, si è detto, muove dall’osservazione. Smith ha molta cura di ricordarlo; impiega spesso locuzioni come “si può enunciare come regola generale…” o “per quanto ho avuto occasione di osservare…”11

. Si tratta di un aspetto di indubbia rilevanza dal momento che la valorizzazione di determinate passioni in quanto portatrici d’ordine (in opposizione alla condanna agostiniana o ancora del contrattualismo moderno) apre un campo sociale del sapere e una “popolazione” come oggetto di studio. L’economia politica non nasce immediatamente dal postulato della naturalità del mercato, bensì dallo studio dei rapporti interni alla società civile che essa si propone di decifrare in termini di cause ed effetti. A partire dalla causa di un passione data Smith osserva come l’azione che ne consegue componga una medietà sociale attraverso la simpateticità. Abbiamo già incontrato questo procedimento induttivo nelle tavole statistiche di Petty e Graunt sulla peste di Londra e nell’aritmetica sociale di Condorcet per il Comitato di Mendicità Rivoluzionario. La Teoria dei Sentimenti Morali è anch’essa animata dalla volontà di comprendere il “sentimento di partecipazione per la miseria altrui”. E tuttavia in Smith la “benevolenza” (cioè il grado medio di appropriatezza dello spettatore immaginario) non ha nulla a che vedere con la “bienfaisance” nei confronti dei poveri. Il suo proposito è piuttosto quello di identificare i princìpi che rendono agli individui “necessaria l’altrui felicità”12

e valorizzarli come funzione auto- ordinante della comunicazione interna alla società civile13. Ecco perché il fondamento politico smithiano è “etico”: perché è il giudizio individuale, secondo i criteri propri del singolo che si immedesima nelle altrui situazioni, a divenire misura dell’appropriatezza dei rapporti sociali. “Ogni facoltà dell’uomo è il metro per giudicare la stessa facoltà di un altro uomo”14

. Primo punto fondamentale: l’immaginazione simpatetica è la mediazione tre il singolare e il collettivo, tra il particolare e il generale, tra l’individuo prudente e lo spettatore imparziale. È ancora proprio il carattere astratto di tale immaginazione, più che l’inafferrabile concretezza dell’esperienza corporea, ad avvicinarci agli altri individui condividendone lo stesso “orizzonte di aspettativa”15

.

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Ivi, p. 474. 12 Ivi, p. 81, 82.

13 “La società e la conversazione, perciò, sono i rimedi più potenti per riportare la mente alla sua tranquillità, se in qualsiasi momento l'ha sfortunatamente perduta, così come sono i migliori modi per mantenere quel carattere equilibrato e felice, che è così necessario per la propria soddisfazione e la propria gioia.” Ivi, p. 105.

14 Ivi, p. 98.

15 Le passioni corporee “o non suscitano alcuna simpatia, o la suscitano in un grado del tutto sproporzionato alla violenza di ciò che sente la persona che soffre”. Diversamente, “quello che primariamente ci disturba non è l’oggetto dei sensi, ma l’idea dell’immaginazione.” Ivi, pp. 114, 115.

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Riassumendo, l’immaginazione simpatetica si esprime nei gradi di appropriatezza che gli individui provano come spettatori delle azioni altrui. Essa funziona da mediazione tra le due figure del soggetto contro cui abbiamo visto scontrarsi l’intera cittadinanza moderna da Hobbes a Rousseau a Sieyès: l’individuo e il suo appartenere a una comunità. Ma soprattutto, la “benevolenza” dello spettatore è misura dell’integrazione del singolo rispetto alla collettività: essa è il grado medio della proprietà di una determinata passione in un determinato contesto storico e sociale. Proprietà, infine, che è il principio fondante del “dominio di sé”. Non è difficile intuire come dietro a questa costellazione di concetti risieda il problema intero della nostra genealogia, ovvero la fisicità degli individui e le posizioni sociali cui essi sono implicitamente assegnati dai reciproci rapporti, nonché la ricerca di una “misura” estratta dall’interno di questi rapporti16

. In questa prima formulazione smithiana, l’attore e l’osservatore coincidono grazie alla misurabilità dell’appropriatezza.

1.2 Dalle aporie della justice al mercato

Stando all’introduzione alla sesta edizione della Teoria dei Sentimenti Morali, Smith aveva originariamente il progetto di andare oltre agli studi sull’etica in direzione di “un resoconto dei principi generali del diritto e del governo”, definiti come justice. Tuttavia, è Smith stesso ad ammettere che si tratta di una promessa mantenuta solo parzialmente ne La Ricchezza delle Nazioni “per quel che riguarda l’amministrazione civile (police), le finanze e l’esercito”17. La “giustizia” non è infatti un semplice principio negativo che garantisca gli individui gli uni dagli altri. Essa è la “grammatica” stessa che descrive il loro grado di interdipendenza, di “proprietà”, e solo

conseguentemente la loro sicurezza. Riprendiamo la formulazione di Zanini di “aporie” della justice18 per sottolineare che il passaggio di Smith alla mediazione del lavoro dell’economia politica si costituisce come unica soluzione per evitare l’inserimento di una norma di “giustizia” puramente coercitiva (police mercantilista) nei confronti dei singoli individui, che limiterebbe la libertà della

16 Risulta in questo senso efficace la metafora della scacchiera impiegata da Smith: “L’uomo animato da (…) progetto di governo (…) non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Lo realizza completamente in ogni sua parte, senza alcun riguardo per i grandi interessi o per i profondi pregiudizi che possono opporvisi. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera. Non considera che i pezzi sulla scacchiera non hanno altro principio di moto oltre a quello che gli imprime la mano dall’esterno, mentre nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli.” Ivi, p. 460. Due secoli dopo Smith, Gilles Deleuze e Felix Guattari riprenderanno nel loro trattato di Nomadologia quest’immagine degli scacchi come “gioco di Stato”, opponendovi il gioco del “go” come diverso modo di rapportarsi dei pezzi allo spazio che coinvolgono. Se i pedoni degli scacchi si muovono secondo regole codificate (il cavallo, il pedone, l’alfiere), i pezzi del go non hanno definizioni intrinseche ma cambiano regole in base al posto che occupano e ai pezzi a cui si rivolgono. G.Deleuze, F.Guattari, Mille

Piani. Capitalismo e Schizofrenia, Castelvecchi, 2003, pp. 496, 497.

17 A.Smith, Lezioni di Glasgow, cit. p. 78. 18

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società civile. L’obbligazione al rispetto delle regole rimane solo in virtù dell’utilità che ciascun individuo prudente, “mercante in una certa misura”, trae dall’osservazione di tali regole.

Se la benevolenza è il grado medio di proprietà dell’azione rispetto alla passione che la muove, una “benevolenza universale” – sostiene Smith – non può esistere che in Dio. Gli uomini sono costituiti dal limite terreno della medietà19, da una “limitata capacità di comprensione”20 che li porta alla cura del proprio interesse individuale e a quello dei propri cari. Ciò non significa che la benevolenza e l’interesse individuale siano contrapposti, ma che ci sono diversi gradi di prossimità all’“archetipo di perfezione” divino.

Nella mente di ogni uomo esiste un’idea [della massima appropriatezza e perfezione] che si è formata gradualmente sulla base dell’osservazione del carattere e della condotta suoi e degli altri. È il risultato della lenta, graduale e progressiva opera del semidio interiore, il grande giudice e arbitro della condotta.21

La giustizia si inserisce a supplemento di questa limitatezza con lo scopo di proteggere gli individui dai torti. Essa riguarda la normale fisiologia degli scambi, la loro appropriatezza, non la virtù22. La prudenza smithiana è semplicemente la previdenza e la conservazione dei beni materiali esterni, la messa in “sicurezza” della propria salute e delle proprie fortune contro gli azzardi della sorte23

. Il

prudent man è calcolatore, non scommettitore. Parliamo di “aporie della giustizia” nel momento in

cui si pone il problema dell’azione contro la singola condotta di un individuo che reca danno agli altri. Poiché il criterio di intervento è desunto dalla medietà sociale stessa (dallo spettatore imparziale), la giustizia ha carattere duplice: essa è sia misura (grammatica, forma generale) sia

comando (cristallizza una norma per poter intervenire). Cristallizzare una norma significa però

irrigidire la misura e decentrare così il ruolo fondante dell’individuo medio sociale. Tale problema è per Smith fondamentale dal momento che non ha alcuna intenzione di postulare un’essenza umana a priori come Hobbes o Locke. L’individuo su cui si basa il suo criterio d’ordine è soggetto di una determinata società in un determinato tempo. A differenza delle ipotesi della giurisprudenza e della casistica, sotto il profilo dei “comuni sentimenti dell’umanità (…) è impossibile determinare con

19 “Tutti gli uomini convengono nell’affermare che obbedire alla volontà divina sia la prima regola del dovere, ma differiscono gli uni dagli altri riguardo ai comandamenti particolari che questa volontà può imporre su di noi.” A.Smith,

Teoria dei Sentimenti Morali, cit. p. 360.

20 Ivi, p. 465. 21 Ivi, p. 482.

22 “Le regole di giustizia possono essere paragonate alle regole di grammatica”, mentre quelle della virtù sono la “creazione artistica costruita a partire da una data grammatica.” Ivi, p. 359.

23 La prudenza è “l’arte di conservare e accrescere quelli che vengono chiamati i suoi beni esteriori e consiste nell’appropriato orientamento di questa cura e di questa previdenza (…) Perciò la sicurezza è il primo e principale obbiettivo della prudenza. Questa virtù tende a impedirci di esporre la nostra salute, le nostre fortune, il nostro rango, la nostra reputazione a ogni sorta di azzardo.” Ivi, pp. 425, 427.

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una regola generale tutti i casi [su cui intervenire] senza eccezione”24

. Certamente, “ogni sistema di legge può essere considerato un tentativo di costruire un sistema di giurisprudenza naturale” che si avvicini il più possibile alle regole di giustizia. Basta però la presenza stessa del “potere pubblico” del magistrato a mostrare il limite di questa approssimazione. “Il magistrato pubblico è costretto a impiegare il potere che la società gli ha conferito per rinforzare la pratica di questa virtù. Senza questa precauzione, la società civile diventerebbe una scena sanguinosa e disordinata, poiché ogni uomo si vendicherebbe con le proprie mani tutte le volte che ritenesse essere stato offeso”25

. A fronte della doppiezza della giustizia, insieme misura e comando, Smith cerca di superare l’impasse mirando all’identificazione delle “regole naturali della giustizia, indipendentemente da tutte le istituzioni positive”26

.

Le Lectures on Jurisprudence tenute all’Università di Glasgow nel 1762-63 ereditano questa problematica aperta. Più che risolverla direttamente come “teoria della giustizia”, le lezioni traducono la tensione inerente alla justice in quella che verrà costituendosi come moderna economia politica. Troviamo qui anticipate diverse sezioni poi celebri ne La Ricchezza delle Nazioni: dalla fabbricazione degli spilli tramite divisione del lavoro, alla generalizzazione della moneta come misura di scambio. Inoltre, che il tema della “giustizia” non sia limitabile a un insieme di leggi positive che controbilanciano l’egoismo terreno in direzione della benevolenza divina, è subito evidente dalla seconda sezione delle Lectures, dedicata appunto alla police. Il termine “police” è per Smith di derivazione francese e riguarda l’igiene, la sicurezza e il basso prezzo27

. Per quanto concerne la sicurezza intesa come prevenzione dei reati, Smith liquida il problema in poche pagine e nota immediatamente come Parigi trabocchi di codici di polizia pur avendo strade in cui è pericoloso inoltrarsi, mentre “a Londra, che una città di dimensioni maggiori, si verificano appena tre o quattro omicidi l’anno”. Indipendentemente dalle perplessità che la stima di Smith può suscitare, ciò che interessa sottolineare è che questa differenza si fonda per lui sulle “abitudini feudali” francesi, opposte all’indipendenza individuale portata dalle manifatture in Inghilterra.

24 Ivi, p. 622. Smith introduce il tema dell’obbligazione facendo riferimento a due modalità differenti di trattare il medesimo oggetto: la casistica e la giurisprudenza. Da un lato, la giurisprudenza definisce ciò che si è autorizzati ad esigere con la forza e che lo spettatore imparziale approverebbe. Dall’altro, la casistica definisce ciò che il debitore si dovrebbe sentire spinto a fare per agire secondo giustizia, prescrivendo così “le regole per la condotta di un uomo buono” (p. 620). Quest’ultima deriva dalla pratica ecclesiastica della confessione che fa dei padri della Chiesa “i grandi giudici del giusto e dell’ingiusto”, capaci di sancire le regole di giustizia, castità e veridicità. Rispetto alla casisti Smith conclude che “essi hanno cercato senza alcun risultato di dirigere con regole precise quel che spetta solo alla sensibilità e al sentimento di giudicare”. Ivi, pp. 626, 636.

25 Ivi, p. 638. 26

Ivi, p. 639.

27 “Il termine [Police] è francese e deriva originariamente dal greco πολιτέιά, che propriamente indicava la politica del governo civile ma ora indica semplicemente la regolamentazione di quei settori di minor rilievo che rientrano nella competenza del governo, vale a dire l’igiene, la sicurezza e il basso prezzo, vale a dire l’ampia disponibilità delle merci.” A.Smith, Lezioni di Glasgow, Giuffrè, Milano, 1989, p. 637.

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Il consolidamento del commercio e delle manifatture, che produce questa indipendenza, costituisce la misura migliore per la prevenzione dei reati. La gente comune guadagna in questo modo salari migliori che in qualunque altra maniera e di conseguenza si instaura in tutto il paese una generale probità di modi. Nessuno sarà così pazzo da mettere a repentaglio la sua vita sulla strada maestra, quando può procurarsi il pane in modo onesto e industrioso.28

Come sappiamo, Bentham supporterà il principio della less eligibility proprio a partire dall’assunto opposto. I Principles on the Civil Code dirigono l’attenzione esattamente sulla mancanza di interesse dei poveri a partecipare allo scambio, privi come sono di quell’“idea di futuro” che è la proprietà. Non che Smith sostenga l’irrilevanza completa delle differenze sociali: lo scopo di ogni governo “è appunto quello di rendere sicura la ricchezza e di proteggere i ricchi dai poveri”29

. Tuttavia la povertà non implica subalternità. Se l’individuo rispetta le obbligazioni dello Stato non è in base a una prescrizione contrattuale, come vorrebbero Hobbes e Locke, ma perché gli è in ultima istanza utile. Nessun “lavorante a giornata” sosterrebbe mai di rispettare la legge perché all’origine delle generazioni che lo precedono risiede un fondamento contrattuale di lealtà nei confronti del sovrano30. Diversamente, aggiungerà Smith nelle Lezioni e ancora ne La Ricchezza delle Nazioni, basta osservare la materia dei poveri abiti di questo stesso lavorante a giornata per realizzare la molteplicità di attività che sono necessari alla sua produzione31. La divisione del lavoro è in conclusione definita da Smith come prodotto della tendenza a scambiare, dato a-storico inerente alla natura umana, che fa del mercato una “intera correlazione antropologica”32

.

1.3 La teoria del valore e il soggetto

[La] divisione del lavoro, da cui derivano tanti vantaggi, non è originariamente l’effetto di una saggezza umana che prevede e persegue quella generale opulenza che essa determina. È la conseguenza necessaria, sebbene assai lenta e graduale, di una certa propensione della natura umana che non persegue una utilità così estesa: la propensione a trafficare, barattare e scambiare una cosa con l’altra.33

28 Ivi, p. 638. 29

Ivi, p. 522.

30 “Chiedete a un povero facchino o a un lavorante a giornata per quale motivo obbedisca all’autorità civile, egli vi dirà