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LIBERARE PER CATTURARE: NASCITA DEL MODERNO REGIME DI MOBILITÀ

1. ROTTURA DEL CONTRATTO E FUGA DEL LAVORO

I mutamenti che descriviamo si sviluppano attraverso una tensione tra due poli: il potere sociale del denaro, da un lato, e la mobilità della forza-lavoro che comincia ad affluire nelle città manifatturiere, dall’altro. L’incontro di queste due polarità costituisce la base del legame sociale fondato sullo scambio accumulatore di ricchezza. Dal punto di vista della teoria del diritto mostriamo come la garanzia dello scambio privato generi tensioni destinate a risultare nella moderna amministrazione. Per comprendere la logica sottostante a questa particolare storia francese occorre prendere le distanze dal teatro tumultuoso della Rivoluzione e rivolgersi al processo parallelo che investe l’Inghilterra. Troviamo una fondamentale differenza tra il Master and Servants Act del 1826 e il libretto operaio del 1803. Seppur mossi dal comune intento di garantire il contratto dalla fuga del lavoro, il primo definisce le figure dello scambio su base statutaria (legata alla posizione produttiva), mentre il secondo su base contrattuale, identificando due contraenti formalmente eguali in funzione anti-corporativa.

1.1 Masters and Servants

Politiche del lavoro e mobilità degli individui hanno una storia comune che risale almeno al 1350, quando lo Statute of Labourers cercò di contenere gli effetti dannosi della carenza di manodopera causata dalla peste nera, limitando la circolazione e impedendo gli aumenti di salario1. Dal punto di vista giuridico, la legge distingueva due figure di lavoratori agricoli: labourers e servants. Se i primi erano per la maggior parte lavoratori a giornata o stagionali, i servants, spesso giovani e non sposati, venivano abitualmente ingaggiati per almeno un anno2. La durata del contratto spinse gradualmente ad introdurre contro l’inflazione e le rivolte forme di controllo più serrate dei salari,

1 R.C.Palmer, English Law at the Age of Black Death, 1348 – 1381. A Transformation of Governance and Law, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 2001.

2 D.Hay, England 1562 – 1875. The Law and its Uses in D.Hay, P.Craven, Masters, Servants and Magistrates in Britain

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che sarebbero poi state sistematizzate nel 1562 nello Statute of Artificers (o Statute of Apprentices). Definendo entrambi come “artificers”, servants e masters (ricchi artigiani) venivano legati da un principio di mutua garanzia, che tuttavia nei fatti pesava unicamente sui primi. Obbligati a svolgere lavori di corvée e non potendo rivendicare maggiori salari, i servants potevano essere inoltre incarcerati in caso di breach of contract, cioè abbandono del lavoro in violazione del contratto. Si trattava in generale di clausole che davano vero e proprio spessore giurisdizionale alla legge e regolavano controversie aderendo alle specificità locali dei rapporti di lavoro. Nel corso del XVIII secolo questa lunga storia di disciplina della mobilità incontra però un’accelerazione nei cambiamenti strutturali che trasformano il volto dell’Inghilterra: in particolare nel movimento delle enclosures delle terre comuni3 e nell’ondata di vagabondaggio sprigionata e non assorbibile dalla nascente industria tessile. Ne segue una recrudescenza di quelle che Marx avrebbe definito “leggi tra il grottesco e il terroristico”, compresi oltre dieci atti legislativi firmati tra il 1720 e il 1792 dal Parlamento allo scopo di inasprire le sanzioni penali in caso di breach of contract o misbehaviour4. La storia dell’identificazione della mobilità incontra ancora una volta quella del lavoro, nei tentativi di sistematizzare il rapporto tra assistenza delle parrocchie e fissazione territoriale dei poveri. Il Guilbert’s Act (1782) e lo Speenhamland Act (1795) sono gli esempi più ricorrenti di un tentativo di razionalizzazione dell’assistenza attraverso registri e comitati ministeriali di supervisione su base parrocchiale, decisamente meno centralizzata rispetto a quella che abbiamo visto emergere in Francia con i registri dell’Ospedale Generale5. Vi sono però, come abbiamo detto in apertura, anche le istanze della nuova economia politica, a partire dalle quali un certo radicalismo biologico sostituisce lo spazio di intervento apertosi con lo Statute of Artificiers. L’identificazione è ancora una volta tecnologia politica intorno alla quale ruota un’intera concezione dell’ordine, che viene ora riconosciuto proprio nella fame come spinta al lavoro. Scrive in proposito Joseph Townsend, nella sua Dissertazione sulla Poor Law (1786):

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Per una interessante ricostruzione storica della geografia delle enclosures si veda M.Turner, Enclosures in Britain

1750 – 1830, Macmillan, London, 1984.

4 D.Hay, England 1562 – 1875, cit. p. 82.

5 Si vedano in proposito P.Slack, The English Poor Law, 1531 – 1782, Macmillan, London, 1990 e A.Brundage, The

English Poor Laws: 1700 – 1930, Palgrave, Basingstoke, 2002. Sulle politiche intorno al vagabondaggio durante le

Vecchie Leggi sui Poveri, si veda A.Eccles, Vagrancy in Law and Practice under the Old Poor Laws, Ashgate, Farnham, 2012. Il testo di Audrey Eccles ha il pregio di evidenziare, accanto al materiale archivistico e l’elenco degli atti parlamentari, la pubblicistica del XVIII secolo per mettere in evidenza l’eterogeneità di posizioni rispetto al carattere “immorale” della povertà. Le prime considerazioni sul vagabondaggio come risultante di variabili commerciali sono ad esempio presenti nel Plan for the Establishment of the Charity-houses for Exposed or Deserted Women and

Girls (1758) dell’economista Joseph Massie. Si tratta di un lavoro storico utile a integrare testi più prossimi alla storia

dei concetti, come l’ormai classico G.Himmelfarb, The Idea of Poverty. England in the Early Industrial Age, Knopf, New York, 1984.

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In ogni parrocchia, secondo quanto stabiliscono ora le leggi, coloro che hanno la residenza legale possiedono il monopolio dell’offerta di lavoro, perché i poveri abili al lavoro sono confinati alle loro rispettive parrocchie. (…) Non solo si è impedito ai poveri industriosi di cercare lavoro dove al contrario sarebbero stati ricevuti con gioia, e li si è confinati nelle parrocchie originarie dove erano malvisti, ma, per difetto di competizione, il prezzo dei manifatturieri è salito molto. Per la verità, con un certificato i poveri possono ottenere il permesso di risiedere in ogni parrocchia nella quale stiano per ottenere un lavoro, ma nei fatti questo certificato non si ottiene facilmente.6

L’economia politica settecentesca riscatta dunque una funzione ordinante, non tanto della mobilità in sé, ma del libero movimento dello scambio. La transizione a una regolamentazione capitalistica dei rapporti sociali porta con sé però il difficile obbiettivo di rendere “commensurabile” un mondo fortemente eterogeneo. Bisogna disciplinare questa eterogeneità fatta di diritti consuetudinari e libero accesso alle risorse7, portando a compimento quel processo inaugurato dalle enclosures e ora nel pieno della sua fluidità. L’abolizione dello Statuto degli Artificieri nel 1813 non portò dunque ad alcuna coazione puramente economica e impersonale al lavoro: se è vero che la libertà del lavoro veniva associata alla possibilità di scelta, l’intervento legale congiunto della proprietà privata e della penalizzazione della fuga continuavano ad essere il presupposto perché quella fosse l’unica scelta possibile8. Il Master and Servant Act del 1823 riprendeva così una lunga tradizione di comando sul lavoro e di sanzione penale della violazione del contratto, prevedendo un’incarcerazione di tre mesi con lavori forzati. Come vedremo si tratta di una politica di governo della mobilità che presenta alcune analogie con quella espressa dal libretto operaio, ma una sostanziale differenza: in Francia la rottura del contratto potrà essere regolata solo in base al criterio di dommages e intérêts stabilito dal Codice Civile del 1804, prevedendo pene detentive solo in caso di debito tra privati. Diversamente, in Inghilterra la violazione del contratto viene perseguita tramite pene detentive sulla base di una

6 J.Townsend, Dissertazione sulla Poor Law da Parte di Uno che Desidera il Bene dell’Umanità, Centro Ed. Toscano, Firenze, 1990, pp. 58, 59.

7 Come ha mostrato in un suo celebre testo Edward Thompson, la stessa Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith è volta a neutralizzare una strutturale debolezza del mercantilismo. Esso si trovava infatti “prigioniero del popolo”, esposto a una continua pressione subalterna capace di operare una “rielaborazione selettiva” del modello paternalista allo scopo di ottenere grano a buon mercato. Scrive Thompson: “Tuttavia era una concezione meno generale di quella paternalistica. Le testimonianze dei poveri, infatti, rivelano un senso del particolare assai più sviluppato: è questo mugnaio, questo commerciante, sono quegli agricoltori che accaparrano il grano sono loro che provocano il risentimento e lo scontro. Questo senso del particolare, però, era permeato da una concezione generale dei diritti che emerge con maggiore evidenza solo quando si esamina il comportamento popolare durante le lotte. Perché, per un verso, l'“economia morale” rompeva in modo decisivo con la concezione paternalistica: l'etica popolare approvava il ricorso all'azione diretta da parte della folla, mentre i valori d'ordine alla base del modello paternalista ne determinavano una condanna decisa.” E.P.Thompson, L’Economia Morale, Et Al, Varese, 2009, p. 39. Sul tema della disciplina e in particolare sul ruolo dei metodisti nel corso del XVIII secolo si veda anche E.P.Thompson, Tempo e Disciplina del Lavoro, Et Al, Varese, 2011.

8 R.Steinfeld, Corecion, Contract and Free Labor in the Nineteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 2001.

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distinzione statutaria delle figure del master e del servant. In altre parole, il caso inglese eredita una definizione giuridica delle figure del lavoro fondata sullo statuto, sulla loro collocazione nel rapporto di produzione9. Bisognerà attendere l’Employment and Workmen Act (1875) e l’Employer’s Liability Act (1880) perché queste figure comincino ad essere definite in base al contratto. Saremo allora alle soglie di un nuovo regime di mobilità, che riavvicinerà parzialmente l’Inghilterra alla Francia del contrat de travail in un nuovo ed instabile ordine.

Questo, il punto fondamentale: una biforcazione all’inizio del XIX secolo tra Inghilterra e Francia dinanzi un lavoro che è stato “liberato”, e che deve essere tuttavia “catturato” e disciplinato alle necessità aleatorie del mercato e della concorrenza. Ciò che definiamo come “regime di mobilità” non consiste nell’uno o nell’altro apparato di controllo, ma nella contraddizione sulla base della quale il Master and Servant Act e il livret ouvrier descrivono la specifica risposta del liberalismo ottocentesco.

1.2 Loi d’Allarde e Loi Le Chapelier: la produzione della differenza in Francia

L’affermarsi di una “risposta francese” al problema posto dal regime di mobilità va inquadrata nel tentativo di ristrutturare le forme di regolazione del lavoro dopo l’abolizione delle corporazioni. Per comprendere questa transizione, da cui emerge la police des ateliers cui è legato il libretto operaio, è fondamentale superare l’idea di un’opposizione rigida tra realtà corporativa e istanze liberali di laissez-faire. La corporazione si presenta come forma di auto-regolazione e polizia interna che non implica a priori un scelta di maggiore o minore regolamentazione del métier che pretende di inquadrare. Argomenteremo che la crisi corporativa innescata dalla razionalità di governo liberale riguarda il problema di “chi” (anziché “quanto”) deve essere l’attore della regolazione: l’individuo. In questo senso va letta l’ipotesi liberale di una rivoluzione “puramente politica”, la quale si propone di formalizzare nel diritto comune una società che sarebbe già materialmente costituita da individui. Questa ipotesi si scontra con quella crescita politica della povertà come “contro-società” (divisione in due popoli, due gruppi) già incontrata nei dibattiti sulla mobilità rivoluzionaria. Il punto per noi fondamentale è comprendere che essa è espressione di una scissione ben più

9 Su questo punto si veda S.Deakin, “La Contrainte au Travail: une Comparaison des Systèmes de Common Law et de Droit Civil, XVIII – XX siècle” in A.Stanziani, Le Travail Contraint en Asie et en Europe XVII – XX siècle, Éditions de la Maison de Sciences de l’Homme, Paris, 2010, pp. 35 – 70.

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profonda. Una scissione che raggiunge ogni individuo nella sua singolarità, proprio nel momento in cui esso veniva indicato come unico titolare dell’auto-regolazione.

Come hanno mostrato Philippe Minard e Steven Kaplan, non è possibile opporre storicamente l’universo libero all’universo corporato. Il carattere “aggregato” di quest’ultimo è stato al centro di dibattiti che, riconoscendo la proliferazione di situazioni giuridiche parallele e complementari alle corporazioni, problematizzavano la relazione tra i corps de métier e lo Stato (cui erano formalmente legati da lettere patenti secondo un editto del 1691)10. Emerse come associazioni padronali dotate di prerogative estese, quali il controllo delle ammissioni e il monopolio legale su parte del processo produttivo, le corporazioni sono state riconsiderate dagli studiosi alla luce del sistema di appoggi reciproci con il tessuto sociale. Ne è risultato un panorama frammentato, caratterizzato dalla complementarietà tra lavoro corporato e libero11, da forme di embeddedness tra mercanti, corporazioni e apparato politico locale12. A partire dalle politiche operate da Necker nell’Agosto 1776 dopo le riforme di Turgot, le corporazioni perdono il monopolio sul lavoro acquisendo un carattere sempre più fiscale e vedendo parallelamente proliferare il numero degli operai “senza qualità”. Su questo panorama frammentato si innestano nel 1791 i due “atti di morte” dell’istituto corporativo, il Decreto d’Allarde e le tre leggi Le Chapelier.

Tra il 2 e il 17 Marzo 1791 viene approvato su rapporto di d’Allarde un decreto che stabilisce la libertà di esercitare professioni o commerci tramite l’acquisizione di una patente (art.7) e risarcendo la corporazione con il versamento di un’indennità (art.4)13

. Si tratta di un decreto ambiguo, nella dimensione in cui non fornisce alcuna indicazione concreta di riorganizzazione post-corporativa, limitandosi a “liberare e registrare” il lavoro. L’insieme dei papiers necessari alla validazione del libero esercizio, sulla base dei quali viene rilasciata la patente, sarà regolarizzato su carta intestata

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P.Minard, S.Kaplan, La France, Malade du Corporatisme? XVIIIème – XIXème siècles, Belin, Paris, 2004. Gli autori sottilineano la cesura del 1791, dopo la quale il termine di “associazione” comincia ad acquisire un senso marcatamente anticapitalista, e controbilanciano così le tesi di una continuità tra Antico Regime e XIX secolo su cui si era attestata parte della storia della mentalità operaia. Su questa posizione si veda in particolare W.Sewell, Lavoro e Rivoluzione in

Francia: il Linguaggio dell’Operaio dall’Ancien Règime al 1848, Il Mulino, Bologna, 1987.

11 S.Kaplan, “Les Corporations, les ‘Faux Ouvriers’ du Faubourg Saint-Antoine au XVIIIème siècle” in Annales.

Histoire, Science Sociales, 43 (2), pp. 353 – 378 e A.Thillay, Le Faubourg Saint-Antoine et ses ‘Faux Ouvriers’,

Champ Vallon, Paris, 2002.

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Si veda in particolare il caso della grande fabrique della seta a Lione.

13 I testi della Loi d’Allarde e Loi Chapelier sono riprodotti in A.Plessis (dir.), Naissance des Libertés Économiques, Institut d’Histoire de l’Industrie, Paris, 1991, pp. 333 – 342. Il risarcimento sarebbe di fatto risultato difficile per i Bureaux de la Liquidation des Maîtrises et Jurandes, sia per la resistenza passiva delle comunità, sia per i casi di speculazione legati all’acquisto a basso prezzo dei titoli. Si veda S.Kaplan, La Fin des Corporations, cit. pp. 534 e ss.

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tramite dichiarazione su domicilio, generalità e valore di locazione. Il carattere “aggregato” dell’universo corporativo è però destinato a dar luogo a interpretazioni operaie della Loi d’Allarde, in certa misura inizialmente favorite dalla municipalità in chiave anti-corporativa ma che devono infine essere disciplinate in nuovo ordine. A nome del Comitato di Costituzione, Le Chapelier propone così nel 1791 tre leggi volte a disciplinare lo spirito di corpo, inserendo il delitto di coalizione. Come è stato più volte sottolineato, si trattava di far fronte alla politicizzazione operaia separando un ambito politico collettivo da una realtà economica che si pretendeva costituita da singoli individui. In questi termini l’articolo primo della Legge Le Chapelier promulgata dall’Assemblea Costituente il 14 Giugno 1791 stabilisce: “poiché l’annullamento di ogni specie di corporazione di cittadini di uno stesso stato o professione è una delle basi fondamentali della Costituzione francese, è proibito ristabilirle di fatto, sotto qualunque pretesto e qualunque forma”. Il delitto di coalizione in “attroupements séditieux” (art.8) si inscrive dunque nell’edificio costituzionale mantenendo nelle sue intenzioni una simmetria tra figure del lavoro: coloro che avrebbero usato minacce contro gli operai limitandone la libertà accordata sarebbero stati puniti (art.7)14. L’elemento che risulta per noi più interessante non è tuttavia soltanto la problematica divisione tra un mondo politico di corpi amministrativi e un mondo economico popolato di individui. Alla crescita politica attraverso i club e le assemblee di una massa che verrà negli anni trenta dell’Ottocento chiamata “proletariato”, sottende una scissione che non si arresta a definire “due popoli”, ma che attraversa anche il singolo individuo. Un esempio sintomatico di questa partizione riguarda i dibattiti sul diritto di petizione durante la discussione sulla legge rapportata da Chapelier a nome del Comitato di Discussione il 9 e 10 Marzo 1791. Diversamente dalla plainte, diritto di ogni uomo che si ritiene leso nei suoi interessi da autorità o individuo, la proposta di legge limita il droit de pétition15 ai soli cittadini attivi. Se la divisione tra cittadini attivi e passivi rientra nella logica di legare alla proprietà l’accesso alla deliberazione politica16, diversamente in questo

14 Va tuttavia sottolineato che la preoccupazione alla base di questa esigenza di simmetria risiedeva soprattutto nel blocco del lavoro esercitato tra operai per evitare che si stabilissero soglie inferiori del prezzo del lavoro. Come sostiene Le Chapelier: “lo scopo di queste assemblee – sostengo – è di forzare gli entrepreneurs de travaux, i maîtres qui presenti, ad aumentare il prezzo della giornata di lavoro, a impedire agli operai e ai privati che li assumono nei loro

ateliers di stabilire tra loro delle convenzioni come credono, di far firmare loro dei registri d’obbligazione di

sottomettersi ai tassi fissati per la giornata di lavoro da parte di queste assemblee e altri regolamenti che esse si permettono di fare.” AP, tomo 27, p. 210.

15 “Nessun corpo, nessuna amministrazione nella società può esercitare il diritto non delegabile di petizione; (…) la petizione non può essere formulata sotto un nome collettivo; (…) si devono considerare come petizionari solo coloro che hanno firmato la petizione.” AP, tomo 25, p. 679.

16 Commentando la proposta di aumento dell’imposta legata alla petizione, Le Chapelier afferma: “Bisognerà dire a coloro che, quasi sempre per propria colpa, sono tormentati dalla miseria: adoperate utilmente le vostre braccia, prendete del lavoro, lavorate questa terra fertile, e riceverete da essa il titolo di cittadino. Considerandovi come stranieri, non abbiamo voluto che portarvi al lavoro, abbiamo disseminato nella nazione un seme di incoraggiamento, di terra e di virtù.” Ivi, p. 680.

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caso la partizione avviene sul piano dei diritti civili non delegabili. La necessità di ordine politico richiama così una frattura (inammissibile) all’interno della natura civile di una parte dei cittadini. La produzione di differenza interviene come modalità di gerarchizzazione della proprietà di sé sancita dallo statuto civile: non casualmente sarà al centro anche della transizione post-abolizionista antillese. Per quanto riguarda il caso del droit de pétition, a seguito di numerose critiche il decreto viene emendato della divisione tra attivi e passivi, senza tuttavia cedere alla richiesta di Robespierre di menzionare esplicitamente i “cittadini passivi” come detentori del diritto di petizione. Questa ritrosia dell’assemblea nasconde un passaggio fondamentale che abbiamo già visto nell’idea di amministrazione “immanente” progettata da Sieyès attraverso il Consiglio di Governo. Come sostiene Beaumetz all’Assemblea, “la natura di questo diritto non deve essere decretata, ma dichiarata, spiegata”, cioè riconosce dei diritti naturali di ogni individuo (e non della volontà del corpo legislativo). Si tratta di un diritto “quasi metafisico nella sua definizione”17, che esiste nel momento stesso della sua enunciazione: esattamente come “metafisica” era la pretesa di scambiare il lavoro senza “alienare a tempo” la persona secondo Bentham. Al di là della partizione del corpo sociale in “due popoli economici”, è dunque il singolo individuo ad essere attraversato da parte a parte da qualcosa che non gli appare più come proprio: il corpo, dotato di muscoli e nervi per produrre, ma anche di gambe per fuggire.

In conclusione, è questa scissione micro-politica, interna alla definizione civile di “persona giuridica”, che il liberalismo non può costitutivamente cogliere, se non al prezzo (inammissibile) di trattare il corpo di certe “persone” al pari di una “cosa” più o meno temporaneamente appropriabile. Seguendo questa oscillazione del lavoro tra la persona e la cosa, ogni transizione lineare dallo statuto dei corpi al contratto di diritto privato risulta problematica: non solo dal punto di vista