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STATO, DENARO, CRISI: I LIMITI DEL LIBERALISMO

IL LIBRETTO OPERAIO COME TECNOLOGIA POLITICA

2. STATO, DENARO, CRISI: I LIMITI DEL LIBERALISMO

Subordinare l’attività produttiva alle esigenze del mercato globale risulta sempre nella formalizzazione (valida all’interno di un territorio giuridico) della distinzione tra lavoro e non- lavoro. Nella Francia del XIX secolo questa esigenza si pone inizialmente come necessità di agire sulla configurazione spaziale, supposta omogenea dal diritto, per poter disciplinare il lavoro mobile attraverso il criterio del tempo. Dal punto di vista liberale questa contraddizione inerente alla corporeità dell’individuo (nel cui radici dottrinali affondano nel Codice Civile) si presenta sempre politicamente, cioè a fronte dell’accumulazione di forza politica da parte dei poveri. La borghesia viene spinta a farsi “classe” dall’impossibilità di derubricare la povertà nei termini di semplice “questione sociale”. Essa viene così spinta a pensarsi al di là dello scambio tra individui indipendenti su cui aveva basato il proprio stesso modello costituzionale. Tale affermazione non implica assolutamente considerare l’apparato statale come monolite compatto nei suoi scopi e

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interessi41. La “borghesia” e i “capitalisti” non sono la stessa cosa, così come non lo sono il “proletariato” e le “classi operaie”. La Monarchia di Luglio si presenta come momento di risposta liberale alle rivolte dentro le quali circola il nome collettivo di proletariato. L’obbiettivo: elaborare un “discorso borghese” all’interno dell’orizzonte di scambio tra individui privati indipendenti stabilito dal contrattualismo civile classico. Il metodo: trasformare in senso gestionale il processo di livellamento scaturito dal 178942.

2.1 Governamentalizzare la sovranità: François Guizot e la crisi

Già Sieyès aveva tentato una “operazione di disinnesco” del conflitto interno al popolo rivoluzionario attraverso la separazione della sovranità popolare dal potere legislativo. Non era bastato. François Guizot, figura centrale del liberalismo dottrinario ottocentesco, trova di fronte a sé la medesima urgenza di Sieyès: bisogna confermare e chiudere la Rivoluzione. Sotto la Monarchia di Luglio, “chiudere la Rivoluzione” significa però immediatamente affrontare la cosiddetta “questione sociale”: il massiccio impoverimento di lavoratori che accusavano di “aristocrazia” e nullafacenza i proprietari, rivendicando per sé il ruolo che aveva avuto il Terzo Stato contro gli antichi privilegi. Come ha recentemente mostrato Samuel Hayat, il discorso Repubblicano è fino al 1848 la grammatica dentro cui si muovono orientamenti politici differenti, dalla moderazione della rappresentanza fino alle istanze democratiche radicali. I club rivendicano una definizione sociale e materiale della cittadinanza, al di là dell’uguaglianza puramente astratta43

. Guizot è consapevole di questi slittamenti semantici all’interno del concetto di “popolo” e vi risponde chiamando alla costituzione un altro “popolo-società”. La distinzione tra cittadini “attivi” e “passivi” viene riformulata per mettere a valore la funzione delle élites proprietarie, “capaci” di “agire liberamente e ragionevolmente nell’interesse sociale”44. Non più dunque la “volontà”, bensì la “ragione” diventa

la pietra angolare e il fondamento di una sovranità che non appartiene più alla politica di questo mondo. Guizot critica l’“idolatria” che, da Hobbes a Rousseau, si sarebbe ostinata a conferire il “diritto di dar la legge” a qualcosa di imperfetto e terreno (che sia il monarca o il popolo). Per

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Per uno sguardo generale sul lungo dibattito intorno a questo punto a partire dalle teorie dello Stato in Nicos Poulantzas si veda l’introduzione di S.Clarke (dir.), The State Debate, Palgrave Macmillan, London, 1991.

42 Su questo punto si veda S.Chignola, Il Tempo Rovesciato, Il Mulino, Bologna, 2011.

43 S.Hayat, 1848. Quand la République Était Révolutionnaire, Seuil, Paris, 2014.

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Guizot, “non vi è (…) affatto sovrano sulla terra”: “non ci sono che governi”45

. La sovranità appartiene alla ragione, l’azione appartiene al governo: è compito del governo estrarre dalla società la ragione dispersa e renderla intellegibile. Ritroviamo così quella attenzione ai dettagli che Montesquieu attribuiva alla “polizia”, divenuta poi potere amministrativo sotto Napoleone, e che provoca ora nel mezzo della “questione sociale” una torsione governamentale della sovranità stessa. Come scrive Guizot: “Il dibattito si solleva non tra quello che vuole o non vuole l'uomo, ma tra ciò che è vero o falso, giusto o ingiusto, conforme o contrario alla ragione”46

.

Guizot scrive in un periodo in cui il lavoro si presenta ormai in tutta la sua ambiguità: da un lato principio di socializzazione, dall’altro catalizzatore di conflitti che massificano la cesura politica che già appariva durante la Rivoluzione. Insistiamo sul carattere di “apparenza” per sottolineare che dal punto di vista della teoria politica liberale non esistono “classi”, ma unicamente lo scontro tra diritto comune e privilegi. Per questo motivo, come vedremo, l’economia politica classica muove dal concetto di “popolazione”. Chiunque è certamente consapevole delle agitazioni che attraversano i quartieri poveri delle città, ma quel soggetto collettivo che rivendicherà all’indomani delle rivolte dei canuts lionesi il nome di “proletariato”47 è per Guizot solo un “mostro”, esattamente come lo era la folla parigina agli occhi di Burke. Non è la teoria politica, quanto piuttosto la sociologia ad incaricarsi di studiare questo “mostro collettivo”, nel tentativo di conoscerlo per addomesticarlo. La duplice pubblicazione nel 1840 del Tableau sur l’État Physique et Moral des Ouvriers di Villermé e del trattato sulle classes dangereuses in Inghilterra e Francia di Frégier, segna il punto fondamentale di un periodo di inchiesta sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici iniziato già da almeno due decenni prima, con Le Visiteur du Pauvre del barone de Gérando (1820)48. La descrizione della vita operaia nei tuguri umidi e scuri di Lille è corredata da Villermé da tabelle in cui riporta statistiche sui tassi di mortalità, povertà e infezione miasmatica,

45 Ivi, p. 22.

46 Ivi, p. 71.

47 Si veda F.Tomasello, “L’‘Invenzione’ della Classe Operaia come Formazione Discorsiva e la Genesi del Metodo Empirico delle Scienze Sociali in Francia (1830-48)” in Scienza & Politica, vol. XXVIII, n.55, 2016, pp. 153 – 176.

48 L.R.Villermé, Tableau de l’État Physique et Moral des Ouvriers Employés dans les Manufactures de Coton, de Laine

et de Soie, 2 voll., Paris, 1840 ; H.A.Frégier, Des Classes Dangereuses dans la Population des Grandes Villes et des Moyens de les Rendre Meilleures, 2 voll., 1840 ; J-M.De Gérando, Le Visiteur du Pauvre, Paris, 1820. Sul tema si veda

l’ormai classico L.Chevalier, Classi Lavoratrici e Classi Pericolose. Parigi nella Rivoluzione Industriale, Laterza, Bari, 1976.

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collocando l’igienismo49

in quello spazio di intervento aperto dall’aritmetica sociale di Condorcet e dal Comitato di Mendicità. Spicca ora maggiormente la fondamentale correlazione tra degradazione materiale e dissipazione morale: ubriachezza, sperpero di denaro nei cabarets, mescolanza dei sessi e promiscuità. Tuttavia l’elemento davvero fondamentale che risulta dalla sociologia liberale consiste nel riconoscimento del pauperismo come fenomeno collettivo: non più destino privato, bensì condotta propria dei lavoratori indipendenti salariati.

In conclusione, lo slittamento tra ouvrage e service appare sotto la Monarchia di Luglio come strutturale schizofrenia dello sguardo dello Stato di fronte a individui alla mercé di un mercato che li tiene in bilico tra quelle che Frégier chiama “classi laboriose” e “classi pericolose”. La governamentalizzazione della sovranità di cui abbiamo parlato rispetto a Guizot non è altro che il tentativo di riconoscere la funzione strutturante della lotta tra gruppi sociali all’interno del paradigma liberale di una società di individui: confermare e chiudere la Rivoluzione. Rimane dunque intatta l’antropologia implicita alla cittadinanza liberale, nel tentativo di limitare la questione a un problema decisionale intorno alla redistribuzione della ricchezza. Sullo sfondo di questa esigenza si erge del resto l’orizzonte della filosofia della storia – ambizione universalizzante del diritto comune attraverso lo scambio che non è semplice giustificazione, ma grammatica stessa del pensiero liberale.

2.2 Sull’uso politico della Storia: Alexis de Tocqueville e la crisi

L’Ottocento francese è attraversato da continue riaperture della frattura rivoluzionaria: 1830, 1848, 1871. Il tentativo di affermare l’ordine e “chiudere la rivoluzione” deve necessariamente confrontarsi con questa funzione strutturante che il conflitto ha nella storia francese. La stessa Charte del 1830 su cui si basa il governo Orléanista, del resto, è il risultato di una rivoluzione. Al tempo stesso, la “questione sociale” sembra riattivare la leva insurrezionale della volontà costituente, cui Guizot sostituisce una “ragione” impersonale. Il pensiero dottrinario è certo “liberale”, nella dimensione in cui il potere giuridico rimane coestensivo alla società filtrata dal “principio di capacità”, ma cerca la propria legittimità da un processo storico che non può più essere il 1789. Negli storici della Restaurazione, da François-Auguste Mignet ad Augustin Thierry e

49 Si veda in proposito G.Jorland, Une Société à Soigner. Hygiène et Salubrité Publiques en France au XIXème Siècle, Gallimard, Paris, 2010. Giovanna Procacci parla in particolare di una “sintesi igienista” da parte della polizia, concentrando la propria genealogia nel periodo della Monarchia di Luglio.

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François Guizot, vi è un “uso politico della storia”50

volto a includere gli scontri che scandiscono le tappe dello sviluppo francese verso il commercio. Negli stessi anni, Alexis de Tocqueville guarderà a questa teleologia positiva con preoccupazione, riportando al centro del dibattito la piccola proprietà terriera.

La normatività su cui poggia la governamentalizzazione della sovranità riscrive i criteri di comprensione del passato. La Storia della Civiltà in Europa (1828) di Guizot esprime perfettamente questo percorso “provvidenziale”, oggettivo e necessario, che si pretende compiuto nel governo rappresentativo della Monarchia di Luglio51. “I fatti valgono solo in quanto esprimono la verità e tendono ad assimilarsi sempre più a essa” secondo un piano teleologico che resta spesso indisponibile (per lo meno nella sua totalità) ai singoli attori storici e irriducibile alla loro volontà52. In particolare, La Storia della Civiltà evidenzia tre fasi scandite dall’evolversi del rapporto tra società (vero principio motore) e governo (tentativo di approssimarsi alla verità sociale). Per Guizot la “lotta delle classi” è parte a pieno titolo di questo percorso razionale: essa è “lotta che riempie la storia moderna”, nonché motore del progresso in quanto avrà sbocco nell'unità nazionale53

. Tuttavia si tratta di uno scontro avvenuto in un periodo feudale caratterizzato dall’eterogeneità dei poteri54. Con la centralizzazione nello Stato secolare (XVI secolo) queste eterogeneità vengono integrate e le classi passano in secondo piano “quasi come ombre rese sbiadite da due grandi corpi: il popolo e il suo governo”55. Da questo momento in poi non più le classi, ma la società e il governo, rimangono i

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S.Mellon, The Political Uses of History. A Study of Historians in the French Restoration, Stanford University Press, Stanford, CA, 1958.

51 Il metodo storiografico di Guizot rivendica esplicitamente “il bisogno di generalità e di risultato razionale”: si costruisce sulla generalizzazione necessaria a comprendere la pertinenza dei fatti singolari rispetto al più generale processo di civilizzazione. F.Guizot, Storia della Civiltà in Europa, Il Saggiatore, Milano, 1973, p. 369.

52 Ivi, p. 182. Nell'immagine di una “grande macchina” della storia, organizzata come sorta di catena di montaggio provvidenziale, possiamo intravedere quella costruzione dell'universalità dei concetti che Marx si proporrà di mettere in questione muovendo dalle sue astrazioni reali (Stato, società, merce). Scrive Guizot: “Immaginate una grande macchina, il pensiero della quale risieda in una sola mente e i vari pezzi siano affidati a operai diversi, lontani, estranei l'uno dall'altro; nessuno di essi conosce l'insieme dell'opera, il risultato finale e generale al quale collabora; ciascuno però esegue con intelligenza e libertà, con atti razionali e volontari, il lavoro affidatogli. In tal modo si attua, attraverso gli uomini, il piano della Provvidenza sul mondo; in tal modo coesistono i due fatti che brillano nella storia della civiltà: da una parte, quel che essa ha di fatale, ciò che sfugge alla scienza e alla volontà umana; dall'altra, la parte che vi godono la libertà e l'intelligenza dell'uomo, ciò che vi mette di suo, perché lo pensa e lo vuole così.” Ivi, p. 343.

53 Ivi, p. 270.

54 Per questa eterogeneità, nota Guizot, “non v'è dubbio che il Terzo Stato del 1789 non fosse, politicamente parlando, il discendente e l'erede dei comuni del secolo XII”. Ivi, p. 258.

55 Ivi, p. 282. Dal punto di vista storico si tratta del passaggio dalla prima “età delle origini” (XI secolo) quando i Comuni insorgono contro la forma feudale del potere dei signori e della Chiesa, al “periodo di prova” (XII – XVI secolo) nel corso del quale la monarchia fa inconsciamente da catalizzatore dello sviluppo di un “interesse generale” che si dispiegherà nell’ “età dell’ordine e dell’unità” a partire dalla Riforma. Nel 1520 Lutero brucia la bolla di Leone X

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soli poli di uno sviluppo destinato a rompere la monarchia dall’interno. Pur avendo esiti differenti nei vari paesi europei56. La vicenda francese è in particolare caratterizzata da un dérapage57, uno slittamento dalla norma definita dall’affermazione della Camera dei Comuni inglese: il Terrore. Guizot ha cura di sottolineare che se è legittimo ammettere una fondazione violenta, nessun governo può trovare nella forza la propria legittimità. Vi è dunque uno sviluppo fisiologico e uno sviluppo patologico, in rapporto alla medesima norma definita dal processo di civilizzazione. “Chiudere la rivoluzione” significa, potremmo dire, medicalizzare la storia francese guarendola attraverso la “rappresentanza capacitaria”. Esiste certo una violenza che sorge dai bassifondi poveri delle città manifatturiere, ma si tratta di un ambito “sociale” che la borghesia è chiamata a guarire filantropicamente. Diversamente, non c’è più alcuna contraddizione politica a spingere oltre il movimento della Provvidenza perché la ragione dispersa nella società è rappresentante di un interesse generale.

aprendo la fase di guerre di religione. Il Trattato di Westfalia (1648) stabilisce il reciproco riconoscimento di stati cattolici e protestanti: la religione smette di essere un criterio di dominazione e classificazione delle sovranità politiche. Nella Riforma Guizot individua quell'“abolizione del potere spirituale e affrancamento dello spirito umano” (376) che costituì l'esito necessario dell'asimmetria tra l'operosità del secondo e la stazionarietà del primo. Altrettanto necessariamenteil libero esame nato dalla riforma e l'accentramento nato dalla monarchia sarebbero dovuti entrare in contraddizione.

56 In Inghilterra, dove la rivoluzione del XVII secolo si propone di “abolire il potere assoluto nell'ordine temporale come nell'ordine intellettuale” (386). Già sotto i Tudor (Enrico VIII 1509-47, Elisabetta 1558-1603) e i primi Stuart (Giacomo I 1603-25, Carlo I 1625-49), il potere assoluto era divenuto sistematico sviluppando la società civile attraverso i commerci e facendo della Camera dei Comuni (nata per difendere gli interessi privati sotto i Plantagéneti) uno strumento di governo. Diversamente dal continente, nell'Inghilterra di Enrico VIII “il potere si fa rivoluzionario”. Nel periodo successivo ricominciano però i contrasti interni e dei vari partiti (della riforma legale, della riforma politica e repubblicano) che discutono del ruolo che la Camera dei Comuni debba avere rispetto al re e al clero, nessuna corrente risulta prevalente in maniera stabile. Dal comune fallimento emerge Cromwell nel 1653, figura capace di portare l'ordine attraverso il parlamento. Tuttavia, nota Guizot, poiché Cromwell non “regnò mai sugli spiriti”, alla rivoluzione seguì la restaurazione degli Stuart (tentativo di Carlo II e Giacomo II di reintrodurre il papismo) prima dell'intervento di Guglielmo d'Orange. Sebbene la monarchia pura esistesse già in Spagna e il libero esame già in Inghilterra, la Francia diventa snodo centrale per la diffusione di questi princìpi in tutta Europa. Ma in modi diversi: nel XVII secolo (sotto Luigi XIV) come governo (guerre moderne regolari, diplomazia stabile e forte amministrazione grazie alla quale la monarchia assume carattere universale), mentre nel XVIII secolo (sotto Luigi XVI) come società. Nel periodo illuminista scompare il governo e si afferma l' “universalità del libero esame” al di là dell'ambito religioso. Ritroviamo così l'elemento (accentramento e libero esame) che innescherà il conflitto già visto in Inghilterra con lo scopo di abolire ogni potere assoluto.

57 Si veda in proposito F.Guizot, Pourquoi la Révolution Anglaise a-t-elle Réussi? Discours sur l'Histoire de la

Révolution d'Angleterre, Paris, 1850. Il termine di “slittamento” tornerà come noto nella storiografia revisionista di

Furet e Richet, per i quali “la rivoluzione democratica del 10 Agosto sbarra temporaneamente la strada che condurrà la borghesia francese al pacifico liberalismo del XIX secolo.” F.Furet, D.Richet, La Rivoluzione Francese, Laterza, Bari, 2011, tomo 1, p. 187. Come già detto, la prospettiva della nostra genealogia critica l’ipotesi di una continuità, pur acquisendo il carattere non borghese della rivoluzione che il revisionismo rimproverava alla storiografia neo-giacobina di George Lefebvre e Albert Soboul.

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Come scrive Guizot in Storia delle Origini del Governo Rappresentativo in Europa (1851)

Esiste in ogni società una certa somma di idee giuste e di volontà legittime sui diritti reciproci degli uomini, sulle relazioni sociali e i loro risultati. Questa somma di idee giuste e di volontà legittime è dispersa negli individui che compongono la società, e inegualmente ripartita tra essi (…). Il problema è evidentemente di raccogliere ovunque nella società i frammenti sparsi e incompleti di questo potere, di concentrarli e di costituirli in governo. (…) di organizzarli in potere di fatto, cioè di concentrare, di realizzare la ragione pubblica, la morale pubblica, e di chiamarle al potere.58

Evidentemente, ci troviamo di fronte a una forte delimitazione del campo del “Politico”, costruito in opposizione alla povertà “sociale”. Negli stessi anni, tra gli spettatori dei corsi di storia che Guizot tiene alla Sorbona siede il giovane Alexis de Tocqueville. Nel mémoire sul pauperismo redatto di ritorno da un viaggio in Inghilterra (1835), Tocqueville riprende la scansione storica proposta da Guizot per render conto del dibattito sul pauperismo. Il testo si apre con un excursus sulla proprietà a partire dalle “origini delle società umane”59

. Anche qui, la cesura del XII secolo e la fine del barbarismo60 apre il campo alle figure antesignane del Terzo Stato e al pieno sviluppo della civilizzazione. Si tratta però, per Tocqueville, di un processo contraddittorio. Da un lato, la terra è il “più dinamico elemento di progresso” capace di produrre sovrappiù rispetto ai bisogni; dall’altro, la proliferazione di un maggior numero di “bisogni naturali” porterà ad un inevitabile aumento della mendicità61. Ora, poiché lo sviluppo della ricchezza è legato allo sviluppo della povertà, si impone la necessità di affrontare il problema dell’assistenza agli indigenti. Il mémoire attraversa infatti un importante dibattito, quello delle leggi sui poveri emanate dalla regina Elisabetta nel XVII secolo per far fronte alla soppressione delle comunità caritative da parte di Enrico VIII tramite una sovvenzione comunale. Tocqueville non è per formazione economista politico e la sua critica delle sovvenzioni statali rimane interamente legata alla necessità di produrre un legame morale di gratitudine tra poveri e filantropi. In ogni caso, queste due figure gli appaiono chiaramente come “due nazioni rivali, che esistono sin dall’inizio del mondo e che si chiamano ricchi e poveri”62

. La

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F.Guizot, Histoire des Origines du Gouvernement Représentatif en Europe, Paris, 1851, cit. in P.Macherey, “Aux Sources des Rapports Sociaux: Bonald, Saint Simon, Guizot” in Genèses, vol.9, n.9, 1992, p. 42.

59 A.de Tocqueville, Il Pauperismo, Edizioni Lavoro, Roma, 1998, p. 107.

60 Con la nascita di una prima polarizzazione sociale, parte della popolazione si trova confinata in una sorta di terra di mezzo della civiltà. Essi “hanno perduto i vantaggi della vita barbarica senza acquisire quelli che la civiltà può garantire (…) collocati tra l’indipendenza selvaggia di cui non possono più fruire e la libertà civile e politica di cui ancora non capiscono nulla”. Quando l’ineguaglianza raggiunge i propri limiti estremi si afferma “quello spirito di conquista che è stato il padre e la madre di tutte le aristocrazie permanenti” Ivi, p. 108.

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“lotta delle classi” torna a premere sulle frontiere di quel Politico stabilito dalla filosofia della storia di Guizot.

L’acquisizione di Tocqueville si limita a una presa di coscienza dell’inarrestabilità del processo di livellamento in corso. Egli è di ritorno dall’America, dove si è recato insieme all’amico Beaumont per redigere un Rapporto sul Sistema Penitenziario. Tocqueville pensa all’immenso serbatoio di terre americane coltivabili e non può che constatare la limitatezza del suolo francese, pur non ancora trasfigurato dall’industria come in Inghilterra. Propone la costituzione di colonie agricole: terreni prestati agli indigenti e ripagati attraverso il lavoro che abbiano lo scopo di “fissare il povero”63

e funzionare da apprendistato al vivere in società. La piccola proprietà ha una funzione disciplinante poiché fornisce ai proletari “anche il pensiero dell’avvenire. Essi divengono previdenti nella misura in cui sentono di avere qualcosa di prezioso da perdere”64

. Sembra qui che Tocqueville si avvicini ad uno sguardo benthamiano (a quell’esigenza di “far agire il futuro nel presente”, anche