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LA LIBERTÀ DEL PRIVATO E LA PRODUZIONE DELLA DIFFERENZA

LA POLIZIA COME PRODUZIONE DI DIFFERENZE

3. LA LIBERTÀ DEL PRIVATO E LA PRODUZIONE DELLA DIFFERENZA

L’economia politica inglese segna un punto di non ritorno, scoprendo nella povertà la condizione del lavoro e dunque la fonte della ricchezza. Nel periodo a cavallo tra il XVIII e XIX secolo essa si abbandona a un biologismo radicale e rivendica la libera circolazione dei lavoratori come principio di naturale regolazione dei salari. Sicuramente lo sviluppo avanzato delle forze produttive in Inghilterra e la lunga fase di agitazione politica in Francia (destinata a concludersi solo con la Comune di Parigi nel 1871), contribuiscono a ricezioni molto situate dell’economia politica. Come

65 Ivi, p. 186. Ne risulta un effetto a catena per cui la moneta contraffatta, non essendo riscattabile attraverso i titoli della Corona o ricevuta come pagamento dagli ufficiali pubblici, rimane come peso concentrato su commercianti e lavoratori.

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Ciò non significa che comprendano il motivo fondamentale di questo legame tra miseria e ricchezza, che implicherebbe la concettualizzazione della “forza lavoro” e l’ammissione di uno “sfruttamento”. Le pagine dedicate alla contraffazione oscillano del resto su una moneta il cui valore è definito dalla quantità di metallo presente, senza arrivare a comprenderne la funzione di comando. Colquhoun osserva l’apparire di un processo che non comprende: la moneta che si fa denaro, capitale.

67 Su questo punto in particolare desidero rimandare al lavoro di P.Rudan, L’Inventore della Costituzione. Jeremy

Bentham e il Governo della Società, Il Mulino, Bologna, 2013. Rudan ripercorre l’intero corpus benthamiano dedicando

ampio spazio agli interventi sulle Poor Laws e individuando nella industry house lo schema attraverso cui verrà elaborato il Codice Costituzionale come processo “aperto”, capace di integrare tutti gli individui (e in quanto individui) secondo la formula della Società per Azioni. La scommessa di Bentham è fare dello Stato una funzione della società per fare della libertà un criterio di ordine, ponendo quindi al centro l’istanza dell’inclusione. Torneremo nel settimo capitolo sul progetto visionario della National Charity Company come società per azioni, per individuarvi la matrice della ristrutturazione del regime di mobilità dopo l’esaurimento del libretto operaio nella seconda parte del XIX secolo.

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vedremo attraverso Benjamin Constant, la Francia manterrà una certa diffidenza nei confronti dell’utilitarismo, pur riconoscendo indirettamente in Bentham una sorta di spartiacque dopo il quale la “rivoluzione puramente politica” è impraticabile. Si apre così il XIX secolo teorico: con una attestazione liberale di un giusnaturalismo garantito dalla formale distinzione tra una sfera pubblica di obbligazione e una sfera privata di libertà, che avrà il suo esito fondamentale nel Codice Civile.

3.1 La libertà dei moderni

Benjamin Constant è tra i tanti lettori del Traité de Législation Civile et Pénale di Bentham, che l’editore ginevrino Étienne Dumont pubblica nel 1802. Constant ha alta considerazione di Bentham e si muove su preoccupazioni simili, giungendo egli stesso alla redazione di un testo costituzionale. Constant rimane tuttavia pienamente interno alla cultura rivoluzionaria francese, e in particolare al costituzionalismo di Sieyès, guardando con sospetto il principio di utilità individuale come regolatore dell’ordine sociale proposto da Bentham68

. Per il filosofo francese si tratta di un criterio eccessivamente soggettivo e arbitrario, insufficiente a giungere a quell’obbedienza che solo la legge può garantire69. La sua preoccupazione fondamentale rimane, come per Sieyès, la limitazione della sovranità: Constant ha in mente il richiamo del Comitato di Salute Pubblica all’interesse generale e il farsi potere “totale” della sovranità popolare una volta dichiarata assoluta. “Il consenso della maggioranza non basta affatto in tutti i casi per legittimare gli atti”, scrive Constant, “Rousseau ha misconosciuto questa verità e il suo errore ha fatto del suo Contratto Sociale, tanto spesso invocato a favore della libertà, il più terribile ausiliario di ogni genere di dispotismo”70

. Si tratta allora di confermare una zona di naturale autonomia individuale, propria a ciascun individuo, preservata dall’ingerenza della legge.

68 “Respingendo il primo principio di Bentham, sono lungi dal disconoscere il merito di questo scrittore. La sua opera è piena di idee e di intuizioni profonde. Tutte le conseguenze che trae dal suo principio sono verità preziose in sé stesse; solo la terminologia è viziosa.” B.Constant, Principes de Politique, éd. Todorov, Paris, 1997, p. 61. Sulla ricezione di Bentham in Francia, in particolare per quanto riguarda Constant e Morellet si vedano M-L.Leroy, “Constant Lecteur de Bentham: Égoïsme, Droit, Utilité” in E.deChamps, J-P.Cléro, Bentham et la France, cit. e le due introduzioni cirtiche a cura di Eugenio di Rienzo e Lea Campos Boralevi in A.Morellet, Traité de la Propriété e il Carteggio con Bentham e

Dumont, Centro Editoriale Toscano, Firenze, 1990.

69 “Il principio di utilità ha questo pericolo in più rispetto al pericolo, che risveglia nello spirito dell’uomo la speranza di un profitto, e non il sentimento di un dovere. Ora, la valutazione di un profitto è arbitraria: è l’immaginazione che ne decide.” Ivi, p. 63.

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Nel celebre Discorso sulla Libertà degli Antichi Paragonata a quella dei Moderni, declamato nel 1819 davanti ai membri dell’Academie Française, Constant riassume la problematica emersa con Rousseau: “presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati”71

. In condizioni territoriali ridotte e grazie alla riproduzione garantita dal lavoro degli schiavi, esisteva prima dello sviluppo massivo del commercio una libertà che “consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi”72

. Questa effettiva sovranità del corpo politico coincideva però con la totale sudditanza dell’individuo che, per dirla con Rousseau, si trovava “costretto ad essere libero”. Scrive Constant:

Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che [vediamo] far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione.73

Vi sono dunque, potremmo dire, due tipi di libertà: una libertà affermativa (“libertà di…”) e una libertà negativa (“libertà da…”). Diversamente dagli antichi, i moderni hanno la libertà di esercitare la propria religione, entrare in rapporti di scambio. Come sostenuto anche dalla Dichiarazione dei Diritti, per Constant i moderni hanno libertà di circolazione: “di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta”. Si tratta di una libertà naturale, ovvero di un diritto che (diversamente da quanto sostiene Bentham) non può essere sottomesso al legislatore. Vi è poi una libertà dagli ostacoli che impediscono l’esercizio di questo diritto, garantita da un mezzo artificiale che è il governo rappresentativo. Come Sieyès, Constant continua ad avere fiducia in un apparato costituzionale che filtri l’accesso al mezzo politico (distinto dal diritto naturale) attraverso la proprietà: “occorrono dunque delle condizioni di proprietà e ne occorrono egualmente per gli elettori e per gli eleggibili”74. Il sistema rappresentativo è “una scoperta dei moderni”75

proprio perché direttamente legato allo sviluppo del commercio, e di conseguenza all’indipendenza personale e all’allentamento dei legami comunitari che tenevano la

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B.Constant, Della libertà degli Antichi Paragonata a quella dei Moderni, in Ivi, p. 221.

72 Ibidem.

73 Ibidem.

74 Ivi, p. 101.

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libertà degli antichi. La libertà rappresentativa ha come condizione di possibilità proprio la cessazione di quella guerra civile tra fazioni che aveva caratterizzato i tempi feudali: per Constant, potremmo dire, il commercio è la guerra continuata con altri mezzi.

La guerra è anteriore al commercio; perché la guerra e il commercio non sono che due mezzi differenti per raggiungere lo stesso fine: quello di possedere ciò che si desidera. (…) La guerra è l’impulso, il commercio è il calcolo. Ma per ciò stesso deve venire un’epoca in cui il commercio sostituisca la guerra. Noi siamo arrivati a questa epoca. (…) Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che si fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento dell’indipendenza privata76.

Il commercio è la guerra continuata con altri mezzi, dunque. Concedendoci una breve fuga in avanti rispetto al movimento dei concetti liberali (e dei loro vuoti), è interessante anticipare che l’elemento militare svolgerà una certa rilevanza. Sieyès definiva la polizia come scienza del diritto pubblico a partire dalla sua differenza dal “militare”. Nella critica dell’economia politica marxiana, sarà invece proprio la guerra civile a riattraversare la società, fin dentro l’anatomia di ogni singolo individuo messo al lavoro nella cooperazione capitalistica. Anche in Marx, come nelle Lettres aux Économistes di Sieyès, la cooperazione costituisce una “forza di massa” maggiore della somma delle singole forze individuali. Tuttavia, lungi dal far emergere un “prodotto netto politico” attraverso la rappresentanza, qui è lo schema militare a rientrare prepotentemente nel corpo sociale. La “forza di massa” degli operai è “la forza d’attacco di uno squadrone di cavalleria, o la forza di resistenza di un reggimento di fanteria, è essenzialmente diversa dalla somma delle forze di attacco e resistenza sviluppate isolatamente da ogni singolo cavaliere o fante”.77

La disciplina di fabbrica, fatta di supervisori e police des ateliers, è essa stessa un kommando (di nuovo, Marx impiega un termine militare) che non vede i lavoratori come altri “cittadini-governanti”, ma esattamente come soldati subordinati. Ripetiamo: si tratta qui di una delle tante anticipazioni attraverso cui vogliamo alludere alla rivoluzione concettuale del XIX secolo, che analizzeremo nel sesto capitolo della tesi.

76 Ivi, p. 223, 226.

77 K.Marx, Il Capitale, libro primo, UTET, Torino, 2009, p. 449. Nella conferenza dal titolo Le Maglie del Potere, tenuta da Michel Foucault all’Università di Bahia nel 1982, l’origine genealogica dello schema di produzione in fabbrica viene significativamente rintracciata nel modello dell’esercito prussiano sotto Federico II, mettendo dunque a critica l’autonomia del Politico e la centralità dello Stato come fonte di potere. “Il soldato diveniva qualcosa di abile. Dunque, di prezioso. E più era prezioso, più era necessario conservarlo, più diventava necessario insegnarli tecniche capaci di salvargli la vita in battaglia, e più gli si insegnava queste tecniche, più lungo era l’apprendistato, più era prezioso. E d’un tratto, eccovi questa nascita di tecniche militari di dressage, che sono culminate nel famoso esercito di Federico II, la quale passava la maggioranza del tempo a fare esercizi. L’armata prussiana, il modello prussiano di disciplina, è precisamente la perfezione, l’intensità massimale di questa disciplina corporale del soldato, che è stato, fino a un certo momento, modello delle altre discipline”. M.Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol.III, Milano, Feltrinelli, 1998.

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Guardandosi da ogni applicazione retroattiva e anacronistica dei concetti, anticipiamo che la rivoluzione operata sul piano della critica dell’economia politica produrrà un radicale spiazzamento del punto di vista. Dalla critica del Politico come campo autonomo, emergerà il “capitalismo” inteso come insieme complesso in cui le distinzioni tra politica, economia e cultura vanno sfumando. Torniamo però adesso alla nostra genealogia, in cui vediamo piuttosto come queste distinzioni vengono costruite e sulla base di quali conflitti e contraddizioni.

Constant rimane completamente interno al costituzionalismo di Sieyès. Il liberalismo francese, come si è detto, più che l’economia politica sviluppa le istituzioni volte a garantire l’ordine che l’economia politica (e la sua critica) descrive. Gli anni Novanta del XVIII secolo sono un periodo di forte conflitto sociale, in Inghilterra come in Francia, ma non bastano le acquisizioni di Bentham a modificare il fondamento giusnaturalistico della Rivoluzione. Il liberalismo politico continuerà a credere in un ordine fondato nello scambio e volto alla promessa di inclusione sociale attraverso la proprietà, con la mediazione del filtro rappresentativo. Si tratta di un punto fondamentale: la polizia si sviluppa anche in Francia (come in Inghilterra) secondo una logica politico-economica, ma è qui forzata a confrontarsi con l’intoccabilità dell’individuo alla base della promessa del liberalismo rivoluzionario. A partire da questa specificità, frutto di un confronto politico aspro e continuamente riaperto, nascerà un piano “amministrativo” su cui si muove il libretto operaio.

3.2 La polizia come macchina della differenza

La Dichiarazione dell’Agosto 1789 apre un progetto di universalizzazione del diritto comune e dello scambio, trovando una prima sintesi nella cittadinanza proprietaria che filtra l’accesso ai diritti politici. La definizione di una “forza pubblica” è al centro della garanzia di questo ordine espansivo centrato sulla libertà e la proprietà. A partire da essa si aprono due possibili genealogie: una socio- politica fondata su un paradigma dell’esclusione, l’altra differenziale fondata sull’articolazione di scale differenti di inclusione ed esclusione.

La prima chiave di lettura accomuna le già menzionate ricostruzioni di Castel, Procacci e Ronsanvallon, pur differenti fra loro. Essa segue un movimento che conduce dall’esclusione del “sociale” dal Politico fino al suo riconoscimento attraverso il diritto al lavoro e la contrattazione collettiva. In questa prospettiva viene posto l’accento sulla definizione di un piano “morale” intermedio tra il soggetto e lo Stato, ambito di una “economia morale” che interviene mobilitando le

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classi filantropiche dal 1789 alla Monarchia di Luglio. Esiste sicuramente una genealogia simile, ben evidente a partire dalla Loi Chapelier del 1791 contro le “associazioni operaie”. Essa pone il problema della lacerazione interna all’unità del “popolo” in due “nazioni rivali”. All’interno di questa problematica si muovono le differenti storie della rappresentanza politica e le ambiguità tra l’esercizio di una forza pubblica che non limiti la libertà degli individui. Se in Francia vi è stato un particolare ruolo svolto dalle “scienze umane” nel definire “moralmente” l’indisciplina dei poveri e “antropologicamente” la criminosità degli individui, questo è dovuto anche al fatto che dopo la Rivoluzione non è possibile formalizzare le asimmetrie sociali, se non dichiarando alcuni soggetti incapaci di esercitare la loro libertà. Lo schema del rapporto tutelare tra genitori e figli ricorrerà costantemente nei discorsi sulla pedagogia dei poveri e degli ex-schiavi.

La seconda chiave di lettura è quella che proponiamo a partire dall’analisi del governo della mobilità. La definiamo “differenziale” perché rintraccia attraverso la polizia una molteplicità di scale e fonti storiche, la cui compresenza rende problematica l’opposizione netta tra inclusione ed esclusione al centro della prima genealogia. L’ipotesi che sviluppiamo consiste nel fatto che dal punto di vista della mobilità del lavoro non è possibile considerare lo Stato come unico (seppur fondamentale) attore nella produzione di norme. Di conseguenza, il progetto liberale di un passaggio nella definizione corporativo-statutaria degli individui a quella contrattuale- rappresentativa si scontra logicamente con la necessità di moltiplicare differenziazioni normative interne al diritto universale.

In questo capitolo abbiamo mostrato che al centro del problema della polizia non risiede unicamente il rapporto tra uomo e cittadino, che pure emerge chiaramente nel momento in cui confrontiamo la “volontà nazionale” di Sieyès con la “volontà generale” di Rousseau. Una seconda scala è compresente alla prima e non coincide strettamente con la comunità ritagliata dalla territorialità dello Stato. Essa è piuttosto una scala micro-politica che riguarda il rapporto dell’individuo con il proprio corpo, che pur si esprime sempre attraverso la mediazione del diritto. Al centro di questa seconda scala non vi è il tema della volontà, bensì della “proprietà di sé”. Abbiamo trovato una prima formulazione del rapporto tra organizzazione politica e ordine economico nel Mémoire sur les Vagabonds di Le Trosne. Qui, il “nemico pubblico” coincideva con il “nemico della produzione”: Le Trosne non ha problemi a proporre di marchiare e inviare alle galere i poveri perché essi sono già esterni e nemici della comunità proprio in quanto attaccano il “prodotto netto” agricolo. Con la Rivoluzione questo binomio del povero-nemico lascia un vuoto: se la ricchezza è l’utilità del lavoro, nessuno può essere trattato da nemico in guerra e tutti sono cittadini dotati di

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diritti civili. Per questo motivo Sieyès sostiene che la forza della polizia non debba avere natura militare ma sia sottoposta al legislativo. L’apparato costituzionale di Sieyès non presenta in proposito alcuna aporia interna: il carattere libero del lavoro è definito dal contratto grazie al fatto che ogni attività è produttiva di ricchezza-utilità. Non c’è alcuna connessione tra povertà, criminalità e produzione. L’azione di polizia ci restituisce però un quadro differente, e pone proprio su un continuum di gradi fisiologia (municipale), patologia (correzionale) e penale (crimine) rendendo impossibile una formalizzazione stabile. Attraverso le repliche di Bentham alla lettura francese della Dichiarazione abbiamo mostrato che questa impossibilità è legata ad una scissione non solo del popolo (tra diritti civili e politici), ma che attraversa micro-politicamente il corpo individuale. Considerando la proprietà come un’aspettativa sul futuro, Bentham mostra un “rapporto di futurità” che ogni individuo ha con la propria libertà in base alla mediazione del denaro (non solo della legge che regola lo scambio del denaro). Si pone così il problema per coloro i quali in un contratto non scambiano denaro o merci ma attività fisiche: come controllare queste capacità muscolari e intellettuali inscindibili dalla corporeità, senza ridurre in schiavitù i loro portatori? Bentham esplicita l’impossibilità di scambiare il lavoro senza “alienare” la propria persona, e chiama anzi a un’aderenza del diritto alla disparità materiale presente nella società. Ne consegue un forte spostamento del concetto di “lavoro libero”, che non viene identificato necessariamente con il rapporto salariale (e anzi ha come simbolo più vivido la industry house) ma con la produzione in società, secondo le regole del libero scambio definito dall’interesse. Si tratta però di una serie di acquisizioni, quelle degli inglesi, che faticano a penetrare in una Francia fondamentalmente preoccupata della minaccia mai spenta della Rivoluzione. Constant rimane interno a Sieyès, ponendo al centro della sua riflessione la garanzia dell’individuo in una sfera di libertà privata naturale, garantita dalla rappresentanza proprietaria.

Indipendentemente dalle tensioni politiche e dal modo in cui vengono concettualizzate dai liberali, l’ambiguità dell’apparato di polizia mostra che uno scarto è avvenuto in profondità. Come vedremo nel prossimo capitolo, con Napoleone l’esercizio della forza pubblica si autonomizza dal potere legislativo per poter intervenire sugli individui senza che questo intacchi il carattere di libertà civile. Parallelamente alla genealogia legata alle scienze umane, la nascita dell’administration si muove su una stessa necessità di produrre differenze. Poiché ogni attività corporea è inscindibile dal soggetto di diritto, l’appropriazione del lavoro altrui presenta intrinsecamente una “verità schiavistica”: un certo grado di dipendenza da qualcun altro per poter accedere alla propria “proprietà di sé”. Introducendo questo concetto di “verità schiavistica” esterno agli attori storici, non intendiamo assolutamente sostenere che ogni lavoro dipendente sia schiavitù. La “schiavitù” coloniale era anzi

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una realtà riconosciuta e, come vedremo, complementare alla definizione di “lavoro libero” in Francia. Piuttosto, nel lemma “verità schiavistica” intendiamo raggruppare un insieme di problematiche che per gli attori del tempo possono risultare disperse, ma che mostrano dall’interno delle fonti storiche la necessità strutturale di aprire gerarchie e differenze (posizionamenti nella divisione del lavoro) interne all’universalità della libertà giuridica. Rintracciando la dimensione globale del XIX secolo francese, mostreremo che l’inclusione di poveri, donne, schiavi all’interno del diritto comune ha come necessario contraccolpo una riformulazione delle differenze su scale irriducibili unicamente alla territorialità dello Stato-Nazioni. Per il momento concludiamo registrando questa dimensione della polizia come “macchina di differenziazione”, necessaria ad articolare le differenti scale di inclusione ritagliate dallo Stato e del Capitale come grandi astrazioni della modernità politica.

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CAPITOLO TERZO: