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SIEYÈS: POLIZIA COME SCIENZA DEL DIRITTO PUBBLICO?

LA POLIZIA COME PRODUZIONE DI DIFFERENZE

1. SIEYÈS: POLIZIA COME SCIENZA DEL DIRITTO PUBBLICO?

L’apparato di polizia manterrà sempre una certa autonomia rispetto al susseguirsi delle forme di governo tra l’Ancien Régime e il XIX secolo. Dal punto di vista concettuale è necessario domandarsi in che modo questa relativa autonomia divenga inscrivibile in un quadro di sovranità popolare e come cambi il suo modo di agire entrando in tensione con i princìpi della nuova Costituzione. Rivolgendoci al pensiero di Sieyès vogliamo evidenziare che la “forza pubblica” immaginata dai costituenti era frutto di una rivoluzione puramente politica, che mirava cioè alla riforma dello Stato senza mettere in discussione i rapporti sociali del monopolio fondiario. Sosterremo poi che è a partire dalla critica economico-politica inglese del profit upon alienation di Sieyès che l’edificio costituzionale della rivoluzione si rivela debole nella sua base principale: la supposta libertà naturale dell’individuo e la sua partecipazione alla divisione del lavoro.

1.1 Forza pubblica e governo esercitato per procura

La Dichiarazione del 1789 menziona la necessità di una “forza pubblica” necessaria a garantire l’effettività dei diritti. Per Sieyès e le forze rivoluzionarie liberali si tratta però di conciliare questo esercizio della forza con il giusnaturalismo proprietario che era stato mobilitato contro le classi dei privilegiati. L’azione rappresentativa del governo esercitato per procura è proposta da Sieyès come “forza pubblica” capace di esprimere la “volontà comune alla nazione” senza per questo limitare le singole “volontà individuali” che spingono gli individui liberi ad associarsi. Essa permette di separare la sovranità del popolo (potere costituente) dal suo esercizio effettivo, affidato ai poteri rappresentativi legislativo ed esecutivo (potere costituito) cui hanno accesso solo i “cittadini attivi” proprietari.

Il problema della rappresentanza consiste nel definire ciò che è comune a tutti membri della nazione e definirlo come “volontà nazionale”. In primo luogo Sieyès definisce il Terzo Stato come unica

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nazione, dotata di una sua volontà comune, a svolgere tutte le attività produttive e le funzioni pubbliche senza avere tuttavia accesso al potere necessario per esercitare una volontà nazionale. “Il Terzo [Stato] comprende dunque tutto ciò che appartiene alla Nazione; e tutto ciò che non è il Terzo non può essere riguardato come ricompreso nella Nazione. Che cosa è il Terzo? Tutto.”1 Rispetto a questa “totalità” definita da una legge comune e da una comune legislatura, le classi privilegiate appaiono come un “falso-popolo” esterno che vi si attacca come “tumore vegetale”2

. Esse sono un peso morto da sottrarre aritmeticamente alla Nazione3, che è invece organizzata secondo una comune divisione del lavoro, una legge comune e una comune legislatura. Come espone nel suo discorso letto il 20 e 21 Luglio 1789 al Comitato di Costituzione, per Sieyès “ogni unione sociale, e conseguentemente ogni costituzione politica, hanno come unico fine quello di enunciare, estendere e garantire i Diritti dell’Uomo e del Cittadino”4. La legge non conferisce positivamente i diritti fondamentali alla libertà e alla proprietà (che sono naturali) ma permette l’organizzazione politica di una forza necessaria a garantirne la fruibilità. Gli individui si legano sulla base di una reciproca utilità, vedendo negli altri dei mezzi per l’esercizio della propria libertà. Libertà della persona e delle proprie azioni, innanzi tutto; libertà della proprietà dei beni trasformati dal lavoro, di conseguenza. Riassumendo con le parole di Sieyès:

I vantaggi che differenziano i cittadini sono al di là del carattere di cittadino. Le disuguaglianze di proprietà e di attività sono come le disuguaglianze di età, sesso, statura, colore, ecc. Esse non snaturano per niente l’eguaglianza del civismo; i diritti del civismo non possono collegarsi a delle differenze. I vantaggi particolari sono indubbiamente sotto la salvaguardia della legge, ma non spetta al legislatore di crearne di questo tipo, attribuendo privilegi ad alcuni e rifiutandoli ad altri. La legge non accorda nulla, ma protegge ciò che già esiste fino al momento in cui l’esistente comincia a nuocere all’interesse comune. Lì soltanto risiedono i limiti delle libertà individuali.5

1 E.J.Sieyès, Che Cos’è il Terzo Stato?, Gwynplaine, Camerano, 2016, p. 71.

2 “È realmente un Popolo a parte, ma un falso Popolo che non potendo esistere da solo, per difetto di organi utili, si aggrega a una nazione reale, proprio come quei tumori vegetali che non possono vivere se non a detrimento delle piante che essi affaticano e disseccano.” Ivi, p. 69.

3 “Il Terzo Stato è la Nazione meno il clero e la nobiltà.” Ivi, p. 71.

4 E.J.Sieyès, Riconoscimento ed Esposizione Ragionata dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino in Opere e Testimonianze

Politiche (dir. P.Pasquino), Giuffrè, Milano, 1993, p. 383.

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Con una forte influenza lockeana, Sieyès esprime dunque l’inviolabilità della proprietà privata acquisita attraverso il lavoro6. Tuttavia, diversamente da Locke, per Sieyès è la rappresentanza (lo Stato) a dover garantire questa proprietà individuale parallelamente all’interesse nazionale. Rivendicando agli Stati Generali un sistema di voti “per testa” anziché per ordine, Sieyès sancisce la “necessità di riconoscere la volontà comune soltanto nel parere della maggioranza”7

e, di conseguenza, il fatto che il Terzo Stato da solo sia il vero depositario della volontà nazionale. Non c’è dunque un pactum subjectionis tra sovrano e suddito, ma un’immagine di Stato liberale che non limita la libertà individuale. In conclusione, il progetto del costituzionalismo rivoluzionario mira a costruire una forza dello Stato di fronte alla quale tutti i cittadini sono eguali dal punto di vista civile, ma i cui vantaggi personali rimangano garantiti dalla legge.

Bisogna sottolineare che c’è un fondamentale disaccordo intorno all’interpretazione dell’enunciato di “eguaglianza” che circola per le strade, nei club e nelle assemblee. Il giacobinismo mobiliterà Rousseau proprio per contrastare l’idea che l’eguaglianza di fronte alla legge serva a garantire le differenze naturali tra ricchi e poveri. Analogamente a Sieyès, anche il patto sociale rousseauiano articola infatti ciò che è comune ai membri (ai cittadini) a ciò che è proprio a ciascuno di essi (ai singoli uomini), secondo il principio per cui “ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisce tuttavia che a sé stesso”8

. Ma attenzione: questa libertà è per Rousseau il frutto di un’elevazione morale data dall’abbandono dello stato di natura e dalla messa in comune della propria persona. Solamente “come parte indivisibile di un Tutto”, l’individuo acquisisce la libertà civile ed esprime la volontà generale. Nel caso in cui lo stesso individuo si trovi scisso al suo interno, portato verso una direzione dalla sua volontà particolare di homme, opposta a quella della volontà generale di citoyen, egli “sarà costretto ad essere libero” e obbligato “con tutto il corpo” all’interesse generale9

. Rousseau esplicita il paradosso della cittadinanza moderna, che a partire da Hobbes fonda l’eliminazione dell’antica “soggezione” su una nuova “obbligazione”, sottolineando che il cittadino

6 “Io mi approprio di un oggetto che non appartiene a nessuno, e di cui ho bisogno, attraverso un lavoro che lo modifica, che lo rende idoneo al mio uso personale. Il mio lavoro mi apparteneva e mi appartiene ancora: l’obbiettivo verso il quale l’ho indirizzato, sul quale ho investito, era mio come di tutti; esso apparteneva più a me che agli altri, in quanto rispetto agli altri vantavo su di esso il diritto di primo occupante. Queste condizioni sono sufficienti per fare di questo oggetto una mia proprietà esclusiva.” Ivi, p. 386.

7 Ivi, p. 147.

8

J-J.Rousseau, Il Contratto Sociale, Einaudi, Torino, 1976, p. 23.

9 “Perché dunque questo patto sociale non sia una formula vana, esso implica tacitamente questa obbligazione, che sola può dare forza a tutte le altre: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto con tutto il corpo. Ciò non significa altro che lo si costringerà ad essere libero; poiché questa è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale.” Ivi, p. 28.

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moderno acquisisce libertà cedendo parte del suo potere. “L’essenza del corpo politico è nell’accordo dell’obbedienza e della libertà, e queste parole suddito e sovrano sono correlazioni identiche, la cui idea si riunisce sotto l’unica parola cittadino.”10

Diversamente da Rousseau, il giusnaturalismo di Sieyès non può ammettere una limitazione della libertà individuale. Al tempo stesso, Sieyès partecipa della cultura del 1789 e ritiene necessario muoversi nello spazio politico universalistico aperto dalla Dichiarazione dei Diritti proprio per confermare e chiudere le Rivoluzione una volta per tutte. La teoria della rappresentanza che emerge con Sieyès è dunque in primo luogo un tentativo di nascondere l’aporia del cittadino-suddito che abbiamo individuato con Rousseau. A questo scopo l’Abate avanza un concetto di “volontà nazionale” che consiste in una aritmetica delle volontà, cioè che elimina i voti della minoranza compensandoli con la maggioranza. La volontà nazionale “è il risultato delle volontà individuali, così come la nazione è l’insieme degli individui”11

. Una volta evitato il problema di sintetizzare (anche forzatamente) le differenze tra una maggioranza e una minoranza, è possibile per Sieyès presentare una volontà nazionale indivisibile e sovrana già data, la quale deve solo dotarsi di quel potere necessario ad esercitarsi concretamente. La volontà nazionale, oltre a dotarsi delle leggi fondamentali (la Costituzione) esercitando il potere costituente, definisce un “potere costituito” formato dal corpo legislativo (l’Assemblea Nazionale) e dal corpo attivo (i ministri). Entrambi questi corpi sono rappresentativi e compongono il governo esercitato per procura12. Attraverso la “volontà nazionale” intesa come “volontà di tutti” (invece che come “volontà generale” rousseauiana), Sieyès mira insomma a poter fare del potere legislativo il frutto di un diritto positivo. L’Abate arriva così a poter inserire un filtro proprietario che divida i cittadini tra “attivi” e “passivi” rispetto all’accesso di questo mezzo legislativo ed esecutivo (distinto dalla volontà sovrana) che è l’esercizio della forza pubblica. “Ad agire” scrive Sieyès “non è più la reale volontà comune, è una volontà comune rappresentativa”13. Si opera a questa altezza un primo fondamentale partage della cittadinanza che già dichiara l’ipoteca da parte di tutto il liberalismo delle promesse democratiche

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Ivi, p. 124.

11 Ivi, p. 151. Diversamente, per Rousseau il patto non garantisce i contraenti in quanto persone singole, bensì in quanto corpo morale collettivo composto da membri quanti sono i voti dell’assemblea, non solo dalla maggioranza di Sieyès.

12 Al contrario, Rousseau non definisce il corpo legislativo come “rappresentabile” da una sua parte perché indivisibile (in quanto la volontà generale è la presa in carico di tutte le volontà). Il “buon governo” è quello che ascolta la figura mitica del legislatore, “uomo straordinario nello Stato” esterno al contratto sociale, che indirizza l’azione verso la volontà generale. Non c’è dunque alcuna rappresentazione della volontà generale nel potere legislativo: essa è il potere

legislativo indivisibile e irrappresentabile.

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aperte della rivoluzione, le quali finiranno per essere costantemente differite a una sempre futura realizzazione. Nel periodo che stiamo osservando, cioè a fine XVIII secolo, Sieyès esprime questa postposizione della promessa democratica attraverso la divisione tra “cittadini attivi” e “cittadini passivi”. Tutti i cittadini devono poter usufruire dei diritti naturali e civili, poiché è per questo stesso fine che si sono associati. Tuttavia, il mezzo per raggiungere questo fine è logico sia nelle mani dei “cittadini attivi” soltanto, cioè di quella “classe disponibile”14

costituita dai “veri azionari della grande impresa sociale”15

.

1.2 La divisione del lavoro come base della Costituzione

L’edificio costituzionale appena tratteggiato è espressione della particolare lettura di Sieyès dei rapporti economici, in cui il valore è fondato sull’utilità che porta allo scambio (profit upon alienation). Lo scopo dell’Abate era una rivoluzione “puramente politica” che non mettesse in dubbio la legittimità del monopolio fondiario, ma la integrasse attraverso la legge. Quando l’abolizione dei diritti feudali e la radicalizzazione giacobina mostrano l’instabilità di questa divisione del lavoro, Sieyès cerca nel progetto di “consiglio di governo” un mantenimento della forza pubblica come subordinata al potere legislativo.

Già a partire dagli anni settanta del Settecento l’economia politica è alla ricerca di un ordine che non sia più gerarchia fissa dell’Antico Regime, quanto piuttosto una “funzione organizzativa” che tenga conto della dinamicità degli scambi interni al tessuto sociale. Sieyès si inserisce in questa storia della governamentalità liberale inaugurata dalla fisiocrazia, ma della cui scuola critica il concetto di “prodotto netto”16

e valore derivabile dalla scambiabilità. Come annota nel manoscritto inedito Valeurs, il valore non consiste nella possibilità in sé di scambiare due cose, quanto

14 Ovvero “quelle [classi] in cui una certa agiatezza permette agli uomini di ricevere un’educazione liberale, di coltivare il proprio ingegno e di interessarsi infine agli affari pubblici” Ivi, p. 89.

15

“Tutti possono godere dei vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri dell’associazione.” E.J.Sieyès, Riconoscimento ed Esposizione Ragionata dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, cit. p. 39.

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Piuttosto, sostiene Sieyès, “è il lavoro che produce la ricchezza”. Se non stimolassimo la natura attraverso il nostro lavoro, essa stessa ci lascerebbe morire di fame. In altre parole, “definiamo ricchezza tutto l’insieme dei beni acquisiti attraverso il lavoro”: che essi siano scambiabili o meno, privati o pubblici, si tratta sempre di ricchezze. E.J.Sieyès, Les

Lettres aux Économistes in Id. (dir. C.Fauré), Des Manuscrits de Sieyès 1773-1799, Honoré Champion, Paris, 1999, p.

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nell’“utilità combinata” che risiede in quello scambio come sua “qualità interiore”17

. In parole più semplici, una cosa è il valore (attribuzione soggettiva di ricchezza in base ai propri bisogni umani), un’altra è il prezzo (che deve essere superiore al valore attribuito all’oggetto perché sia conveniente scambiarlo). Sieyès si colloca nella teoria del profit upon alienation: si scambia meno per più, in base all’utilità individuale18

.

Ora, il perfezionarsi della divisione del lavoro e la produzione oltre la sussistenza ha portato a un doppio vantaggio. Il primo vantaggio è l’aumento dei beni prodotti e la diminuzione della loro spesa, come già sosteneva Adam Smith. Il secondo vantaggio è la produzione di una “classe disponibile” che, non dovendo lavorare per mantenersi, può svolgere le mansioni co-produttive come quelle politiche e pubbliche del governo per procura19. L’esercizio di quella “forza pubblica” che abbiamo analizzato (potere costituito separato dalla volontà comune e limitato ai “cittadini attivi”) si fonda su una divisione del lavoro in cui tutte le classi sono produttive di un valore definito dall’utilità che si dà all’interno dello scambio di beni. Per Sieyès ogni proprietà è inviolabile, anche quella definita dal monopolio: infatti, nei dibattiti del 10 Agosto sull’abolizione dei diritti feudali, l’Abate sostiene la necessità di un indennizzo. Il prezzo politico della nuova tassazione non doveva portare con sé un prezzo economico di indebolimento del ceto fondiario20. Sieyès non fa alcuna

17

Appunto Inedito Valeurs in E.J.Sieyès, (dir. R.Zapperi), Écrits Politiques, Éd. Archives Contemporaines, Paris, 1983, p. 49. Se dal punto di vista dello scambio tra due persone il valore delle ricchezze scambiate è pari, dal punto di vista della “stima personale” fatta da ciascuna di queste due persone “non si da mai un valore per un altro valore eguale, [ma] si da sempre meno per più”. Ivi, p. 48.

18

“Il vero prezzo di una merce è ciò che occorre per pagare il lavoro e i profitti dei capitali che l’hanno offerta al mercato, donde si conclude che essa si vende al di sopra di questo prezzo.” Ibidem. Zapperi ricorda che nel contesto francese, decisamente arretrato rispetto all’Inghilterra in termini di industrializzazione, la critica alla fisiocrazia si sviluppa nel quadro del neo-mercantilismo proposto da Condillac. In un’economia ancora fortemente legata alla produzione per la sussistenza le teorie di Quesnay (che considerava invece una produzione interamente rivolta al mercato) ebbero inizialmente scarsa diffusione. Su questo punto si veda R.Zapperi, Per una Critica del Concetto di

Rivoluzione Borghese, Laterza, Bari, 1972.

19 “Per mio conto [scrive Sieyès] ero andato più lontano di Smith a partire dal 1770. Non solo consideravo la divisione del lavoro nello stesso mestiere, cioè, sotto la stessa direzione superiore, come il mezzo più sicuro di ridurre le spese e

aumentare i prodotti; avevo in più considerato la distribuzione delle grandi professioni o mestieri, come il vero

principio dei progressi della società.” Appunto inedito Travail, ne Favorise la Liberté qu’en Devenant Répresentatif, Ivi, p. 62.

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Quando perfino l’aristocrazia stessa si dichiara favorevole a pagare la nuova imposta a condizione che non venga toccato il suo status politico, Sieyès devia la riscossione sulle risorse del clero. Nei piani dell’abate, gli affittuari avrebbero forse così potuto continuare a pagare la decima ai proprietari (non più “privilegiati”) attraverso l’affitto della terra, mentre le risorse del clero sarebbero confluite a risanare le casse dello Stato: “il grande interesse dello Stato risiede nella proprietà, e non nell’uno o nell’altro proprietario”. E.J.Sieyès, Osservazioni Sommarie sui Beni

Ecclesiastici del 10 Agosto 1789 in Opere e Testimonianze Politiche (dir. P.Pasquino), Giuffrè, Milano, 1993, p. 412.

Analogamente, la perequazione fiscale intendeva favorire proprio i proprietari terrieri facendone dei non-privilegiati e ripartendo la vecchia Taglia che essi pagavano attraverso l’affitto della terra. E.J.Sieyès, Che Cos’è il Terzo Stato?, cit. pp. 111, 112.

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differenza, diremmo noi a posteriori, tra la rendita dei ceti urbani e il profitto che traevano le campagne dalle prime riorganizzazioni salariali della produzione: tutto rientra sotto lo stesso ombrello di “proprietà inalienabile”.

[La società è] una forza viva co-produttrice di ricchezze. (…) La forma dei lavori di tutti i cittadini forma la forza viva, senza la quale le Nazioni non sarebbero che assemblaggi di cadaveri. Se vi è un cittadino che ritira la sua porzione di attività, egli rinuncia ai suoi diritti. Nessun uomo deve fiorire del lavoro senza scambio. Il lavoro generale è dunque il fondamento della società, e l’ordine sociale non è che il migliore degli ordini possibili dei lavori.21

Il Sieyès economista che emerge dai manoscritti è un uomo figlio del suo tempo e della cultura mercantilista di Condillac, proteso però a estrarre dai rapporti sociali le istituzioni politiche liberali necessarie a garantire l’ordine della proprietà e dello scambio22

. Ne consegue un pensiero della transizione, che vede una doppia origine della legittimità politica: l’origine per convenzione contrattualista (la volontà nazionale come aritmetica delle singole volontà) e l’origine naturale individuale (i diritti naturali imprescrittibili). Il tentativo di rivoluzione interamente politica non aveva intenzione di cambiare i rapporti sociali ma di confermarli a partire dall’individuazione singolare di soggetti di diritto.

1.3 La polizia come scienza del diritto pubblico

Come abbiamo visto, dal punto di vista interno al pensiero di Sieyès non vi è alcuna aporia in questa corrispondenza tra lettura economica e teoria della rappresentanza. Ovvero, se prendiamo per accettabile la teoria del valore fondata sull’utilità personale e la “classe disponibile” dei rappresentanti come suo sovrappiù giuridico (legato al monopolio), vi è coerenza tra la dimensione economica e politica. Esplicativo di questo quadro logico è che Sieyès ha soprattutto cura di

21

E.J. Sieyès, Les Lettres aux Économistes, cit. p. 176.

22 La Francia stessa interpretava la cesura del 1789 secondo analoghi princìpi di ordine differente. Se fazioni monarchiche, come nel caso di Lally-Tollerand, rivendicavano una régéneration che reinserisse il mutamento in una storia ciclica, i liberali come Sieyès si emancipavano da ogni diritto concesso dal monarca e saldavano la dichiarazione nazionale al diritto universale. Sul tema si veda G.Ruocco, “La Rivoluzione nelle Parole: dalla Régénération del Regno di Francia al Processo Costituente dell’Ottantanove” in Giornale di Storia Costituzionale, 1, 2001, pp. 93 – 108. Sul vincolo generazionale e la mobilitazione dei diritti naturali si vedano P.Persano, La Catena del Tempo. Il Vincolo

Generazionale nel Pensiero Politico tra Ancien Régime e Rivoluzione, Eum, Macerata, 2007 e P.Nora, “La Génération”

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definire il carattere “non militare” dell’intervento della forza pubblica, auspicando alla polizia come strumento della justice.

Per Sieyès il nobile e il borghese intrattengono un rapporto con il tempo fondamentalmente diverso. Il privilegiato delle campagne è “rivolto al nobile passato”, ai “costumi dell’antica feudalità”. Il suo rapporto con il tempo è definito dalla contemplazione del proprio “albero genealogico dai folti rami e dallo slanciato fusto”23. Diversamente, la “gente di città” “ha lo sguardo costantemente rivolto

all’ignobile presente e a un avvenire senza interesse; [essa] prepara l’uno e si assicura dell’altro grazie alle risorse della sua industriosità”24

. Questa biforcazione nel modo di pensare il tempo e la