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Il paese delle aquile tra passato e presente

III. 2 Contatti e confronti tra le due sponde

III.3.1 Albanesi e italiani: il percorso di interazione

Con la crescente presenza degli albanesi in Italia si comincia ad avere coscienza dell’altra sponda. Tuttavia la conoscenza dell’Albania rimane superficiale poiché essa si basa su ciò che i media italiani trasmettono e che non sempre corrisponde alla realtà. Infatti l’opinione pubblica è invasa dalla cronaca nera, i cui protagonisti sono spesso gli albanesi. Da marzo 1991, la stampa italiana ha costantemente associato gli albanesi alla criminalità, a prescindere dalle statistiche ufficiali, presentandoli come una minaccia e facendo della loro etnia la più stigmatizzata. Di fatto la migrazione albanese è stata associata «all’archetipo della folla devastatrice dei barbari o anche [alle] rappresentazioni immaginarie delle orde barbariche di migliaia o di qualche centinaia di anni fa».289 Cominciavano a diffondersi la paura dell’assalto, il panico, l’angoscia (che viene dal mare come ai tempi dell’Impero ottomano) la sindrome della guerra (batteriologica) facendo degli albanesi, di questi Alì dagli occhi azzurri, una causa pestis che minacciava fortemente la civiltà italiana.290 Tuttavia, nei primi giorni dell’esodo si sono distinte alcune voci critiche nei confronti di questi allarmismi che però sottolineavano la supremazia dell’Italia nei confronti dei suoi «antichi sudditi».291 Dopo l’iniziale solidarietà dei cittadini pugliesi nei confronti di persone bisognose, si assiste a una sorta di ridefinizione degli albanesi come clandestini e criminali anche in base ai provvedimenti adottati. Sotto lo sguardo del mondo

gli albanesi vengono dirottati nello stadio di Bari (con la promessa di soggiorno e lavoro), dove restano circa una settimana, privi di servizi igienici, bagnati dagli idranti della polizia e riforniti di cibo dagli elicotteri. Lo stadio è circondato dalle forze dell’ordine e visitato dai cittadini italiani che portano i figli a vedere «gli albanesi».292

Le vicenda dello stadio di Bari fu presto paragonata ad altri eventi storici tristemente noti e associata ai lager e alla deportazione. Tale accostamento era il preludio di una politica dell’inesistenza che ha avuto conseguenze tragiche con il fatale affondamento

288Roberto Saviano, L’antitaliano, albanesi alla riscossa, in «L’Espresso», 13 febbraio 2015. 289

Ardian Vehbiu, Rando Devole, La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass-media, cit., p. 57.

290Cfr. Bruno Tucci, A Brindisi un esodo biblico, la città con le spalle al muro, in «Corriere della Sera», 8

marzo 1991.

291

Giuliano Zincone, Mamma, gli albanesi!, in «Corriere della Sera», 8 marzo 1991.

292Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli,

80 della motovedetta Katër i Radës. Ma lo stadio ha anche un potere evocativo che fa pensare ad un luogo di spettacolo anche se, in questo caso, è uno spazio ben delimitato con la funzione di una “discarica” dove accantonare gli albanesi in attesa del loro rimpatrio. Lo stadio non è solo un’arena dove poter inscenare battaglie davanti ad un pubblico, diventa anche un non-luogo,293 uno spazio (culturale e giuridico) extraterritoriale: sebbene gli albanesi siano in Italia, essi si trovano in un altrove diverso da quello che avevano sognato e che credevano di conoscere. Lo stadio diventa uno spazio dell’anonimato, ideale per rinchiudere gli albanesi, privati delle loro condizioni umane. Ecco perché «non si trovava di meglio che un recinto per animali».294 Forse ciò avvenne anche perché lo stato italiano non aveva all’epoca a disposizione categorie giuridiche da permetterli una diversa gestione del fenomeno migratorio che aveva raggiunto per la prima volta dimensioni così vaste. Di fatto tra «luci e ombre, la solidarietà di una città intera e la fermezza del governo centrale, si conclude la storia di quasi tutti i 20.000 albanesi che, stipati sulla Vlora, avevano cercato di raggiungere in Italia l’America».295

Di lì in poi il discorso sull’immigrazione è stato accompagnato da una doppia spirale di panico ed esclusione in concomitanza con i vari provvedimenti di legge che «avevano lo scopo più o meno dichiarato di filtrare gli stranieri accettando in misura limitata quelli “buoni” e chiudendo la porta in faccia a quelli ritenuti pericolosi», una divisione tra «persone e non-persone».296 La risposta italiana all’immigrazione è stata condizionata dai media che influenzano il comportamento individuale di fronte ai vari fenomeni sociali. Nel caso dell’immigrazione si può dire che il processo di stigmatizzazione dell’altro comincia dal consolidamento del termine immigrato di fronte all’esistente straniero. Infatti Colombo e Sciortino sottolineano come sia cambiato il modo di presentare gli stranieri e che, a partire dalla metà degli anni ’70, tale distinzione

viene operata indirettamente attraverso il ricorso a strategie di presentazione della notizia fortemente differenziate: rispetto agli «stranieri», i futuri «immigrati» classici vengono raramente definiti con l’uso del nome proprio come o l’indicazione della nazionalità; per essi si fa invece molto più frequentemente ricorso a categorie amministrative, all’occupazione svolta o a definizioni razziali, mentre il termine «straniero» viene riservato ai residenti stranieri di classe sociale medio-alta.297

293

Cfr. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, (1992), tr. di Dominique Rolland, Elèuthera, Milano, 2009.

294Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, cit., p. 186. 295

Dario Ronzoni, 1991, quando gli albanesi cercarono l’America in Italia, in «Linkiesta», 8 agosto 2011.

296Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, cit., pp. 8-9. 297Asher Colombo, Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Milano, 2004, p. 105.

81 Si tratta di due filoni inizialmente mantenuti distanti in cui gli immigrati erano la spia per poter individuare i problemi della società italiana ma, col passar degli anni, vengono unificati nell’etichetta immigrati la quale si consolida sempre di più e a cui si affiancano altri termini con riferimenti di tipo razziale o denigratori come vucumprà.

Anche la politica si serve del discorso sulla migrazione ai fini di un maggiore consenso. Ciò è evidente nella creazione dell’emergenza che si rivela uno strumento (politico) utile anche per canalizzare le tensioni e le insicurezze e per fare presa sull’elettorato con facili e immediati slogan. Basti pensare “all’emergenza Lampedusa” che «dimostra come il governo italiano, approfittando della spettacolarizzazione della crisi-sbarchi, abbia fatto pressione sui sentimenti di insicurezza e di xenofobia dei cittadini per mobilitare l’immaginario sociale e per alimentare nell’opinione pubblica rivendicazioni di carattere nazionalistico».298

Tuttavia bisogna tenere presente come l’immagine degli albanesi e la percezione della loro presenza siano cambiate nel corso di questi venticinque anni. Infatti da esodo, inizialmente definito biblico, diventato un’emergenza, una questione di sicurezza nazionale e infine un caso di riuscita integrazione. Allo stereotipo «dell’albanese come altezzoso, scontroso e malavitoso, cioè l’albanese che fa paura»299

, che sembrava fosse definitivo, corrisponde un’altra caratterizzazione che vede gli albanesi nella categoria degli stranieri «che si mimetizzano bene quanto ad aspetto e vestiti ma sono traditi dall’accento e dalla grammatica».300

Infatti

gli albanesi in Italia possono essere oggi considerati un caso di best practice in termini di integrazione. La parabola di integrazione positiva di cui gli albanesi sono portatori ha inizio negli anni ‘90, epoca degli sbarchi di massa in cui solitamente la loro era considerata una “etnia cattiva”, fino ad arrivare oggi ad una pacifica e produttiva convivenza.301

Oggi si può parlare di una metamorfosi positiva nella percezione degli immigrati albanesi da parte della società italiana. A questa visione positiva hanno contributo alcuni fattori come la capacità degli albanesi di farsi accettare, il decremento di addebiti giudiziari nei loro confronti e il fatto che, una volta cessato il timore di finire assediati

298Antonella Elisa Castronovo, L’immaginario sociale e il potere dello stato. La costruzione della

“emergenza Lampedusa”, in Elisabetta di Giovanni, Migranti, identità culturale e immaginario mediatico, Aracne, Roma, 2012, p. 58.

299Ardian Vehbiu, Rando Devole, La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass-media, cit., p.

175.

300

Chiara Mengozzi, Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, cit., p. 153.

301Maria Antonietta Calabrò, I nuovi albanesi d'Italia “Ora non fanno più paura”, in «Corriere della

82 dall’invasione albanese, gli italiani si sono mostrati più tranquilli e propensi alla convivenza.302 Il primo fattore è stato ampiamente analizzato in uno studio di Vincenzo Romania, il quale sostiene che «gli albanesi, infatti, sono forse il gruppo immigrato con i migliori indicatori sociologici di integrazione».303 Lo studioso parla di mimetismo sociale di cui gli albanesi sono il modello ideale grazie anche ad alcuni elementi che favoriscono tale processo: una precedente e ottima formazione delle competenze linguistiche e culturali riguardanti il paese di arrivo; un debole legame fra identità nazionale e appartenenza religiosa; una, più o meno, equa distribuzione sul territorio; il fatto che l’Italia sia diventata una nazione di immigrazione di massa proprio con i primi arrivi di albanesi che hanno fatto riaffiorare degli antagonismi sociali e forme di razzismo fino a quel momento inespresse e, infine, per la mancanza di significative forme di aggregazione collettiva degli albanesi limitando le reti sociali all’interno del reticolo familiare, senza creare una comunità. Il mimetismo sociale, quindi, è una strategia che l’individuo utilizza quando la presentazione del sé entra in crisi e l’essere straniero costituisce uno stigma. In tal senso

il mimetismo per gli immigrati non è un processo desiderabile. Piuttosto risponde a un fenomeno di screditamento dell’identità collettiva dell’individuo (in questo caso identità di immigrato), al quale i soggetti rispondono con varie tecniche, fra le quali, un accomodamento agli usi, stili e modi di fare dei locali, in alcune interazioni tipiche nello spazio pubblico.304

Tale concetto descrive una serie di artifici pratici messi in atto da alcuni soggetti (stigmatizzati) per ridurre o annullare la propria condizione di alterità in relazione alle cosiddette persone “normali”.305

Il mimetismo però non è sinonimo di assimilazione in quanto presuppone una fase di comprensione della cultura del nuovo paese e descrive i processi tramite cui un individuo diventa una realtà diversa da sé. Tuttavia, perché si parli di interazione è necessario un nuovo comportamento etico attraverso la reciprocità e la differenza in un modello di incontro con lo straniero che Sundermeier definisce omeostatico. Modello che lo studioso spiega attraverso l’immagine «di una cellula viva con pareti permeabili, che garantiscono un equilibrio e rendono possibile un processo di scambio fisiologico, necessario per il mantenimento della vita e per la stabilità degli

302

Cfr. Franco Pittau, Antonio Ricci, Giuliana Urso, Gli albanesi in Italia: un caso di best practice di

integrazione e sviluppo, in «REMHU», Anno XVII, n. 33, Brasília, 2009, pp. 153-173.

303Vincenzo Romania, Farsi passare per italiani. Strategie di mimetismo sociale, Carocci, Roma, 2004, p.

168.

304

Ivi, p. 8.

305Cfr. Erving Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity,Penguin, Harmondsworth, 1976.

83 organismi».306 Un modello che, come si è visto nel caso della migrazione albanese, permette di parlare di interazione piuttosto che di integrazione.

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CAPITOLO IV