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Nella Vita si trovano dunque sovrapposte due rappresentazioni antitetiche: da un lato alcuni aneddoti si possono ricondurre alla tradizione, ben nota e risalente a Platone, che sottolineava le qualità innate del giovane, al quale il maestro avrebbe tentato, invano, di mostrare la strada per la ricerca di una virtù filosofica e politica; dall’altro lato altri aneddoti si possono ricondurre ad una corrente contraria – risalente almeno in parte a Senofonte – secondo la quale la colpa del filosofo avrebbe riguardato proprio l’aver insegnato a personaggi di dubbia moralità (come Alcibiade e Crizia) uno strumento pericoloso come la retorica, che poteva costituire un valido supporto nelle mani di un buon politico, ma poteva altresì rovinare una città intera, se messa a disposizione di un individuo senza scrupoli morali che non avesse avuto a cuore il bene dei concittadini. La sovrapposizione tra queste due tradizioni (opposte, ma entrambe prodotto delle discussioni post-socratiche), a cui si sovrappongono altre tradizioni letterarie, in parte risalenti allo stesso periodo ma in parte successive, spiega dunque il ricorso al concetto di anwmaliva da parte del biografo.

Alcibiade filovdoxo

La lettura di questa Vita fa emergere un ulteriore tema, che ritengo possa essere in qualche modo chiarito se considerato in relazione al rapporto tra Socrate e Alcibiade. A differenza delle testimonianze di età classica, Plutarco pone costantemente l’accento sulla reazione che il giovane avrebbe suscitato di volta in volta nel proprio interlocutore e sui mezzi grazie ai quali sarebbe riuscito a sedurre i propri contemporanei. In questo senso si possono rileggere alcuni episodi nei quali, più che al fatto in sé, l’autore risulta porre l’attenzione sulla reazione che le gesta del giovane provocarono nei contemporanei. In tal senso si spiega l’interesse di Plutarco nel sottolineare lo stupore degli Ateniesi di fronte al rapporto tra Alcibiade e Socrate (4.4) e la loro indignazione per un pugno inferto al suocero Ipponico (8.1); anche l’episodio dei doni che le città della Ionia avrebbero offerto come premio per le sue vittorie olimpiche viene presentato in modo da sottolineare, più che il gesto in sé, l’ammirazione che tali imprese producevano, e che avrebbe aumentato la fama, già incredibile, di quel successo (10-11, cf. supra p. 168). Plutarco riconosce inoltre il grande ascendente che Alcibiade sarebbe riuscito ad esercitare su qualunque interlocutore, che dopo una

445 Cf. inoltre Xen. Mem. IV 5.12, 6.1, 6.15, in cui l’autore sembra riconoscere un valore politico alla confutazione dialettica di stampo ‘socratico’.

giornata passata in sua compagnia finiva per restare affascinato dalla sua personalità (24.5 tai' de; kaqÆ hJmevran ejn tw'/ ucolavzein kai; undiaita'qai

cavriin oujde;n h\n a[tegkton h\qo oujde; fuvi ajnavlwto). Grazie ad una serie di

doti personali – generosità pubblica, gloria degli antenati, eloquenza e qualità fisiche – ma soprattutto grazie alla fama di cui godeva, sarebbe riuscito così a ridimensionare il biasimo per le pazzie commesse, che finirono per essere giudicate indulgentemente come bravate giovanili (vd. supra p. 166)446.

Le azioni di Alcibiade paiono quindi determinate dal desiderio di accrescere la propria fama (filodoxiva). Fin da giovane egli avrebbe manifestato una certa attenzione verso l’opinione pubblica, come rivela in modo particolare l’episodio dell’amputazione della coda del cane (9, vd. supra p. 165). Più che sul gesto in sé, che assume comunque connotati negativi in quanto mostra la prepotenza e il desiderio di primeggiare del giovane, Plutarco pare interessato a sottolineare la reazione dei parenti; anche il sincero riconoscimento da parte di Alcibiade di aver compiuto quel gesto per il semplice desiderio di stupire pare confermare quanto detto sopra. Proprio su tale desiderio di ottenere fama avrebbero fatto presa anche gli amanti, che cercarono di corromperlo prospettandogli potere e fama superiori a quelli di Pericle (6.4). Il desiderio di riconquistare la propria reputazione lo avrebbe spinto inoltre a ripristinare la processione via terra ad Eleusi (34.5) che, dal tempo dell’occupazione di Decelea – di cui lui stesso era ritenuto responsabile (23.2, cf. Thuc. VI 91) – era stata fatta via mare per paura di imboscate.

Tuttavia, Plutarco svela come proprio questo desiderio di fama avrebbe finito per ritorcersi contro di lui; già il tentativo di ostracizzarlo prima della spedizione in Sicilia pare anticipare questo rischio: Plutarco mette in evidenza la funzione dell’ostracismo, attraverso il quale gli Ateniesi «pongono un freno a chi tra i cittadini abbia superato gli altri per fama e potenza, cacciandolo in esilio»447 (13.6 ajnapeiqei; ou\n uJpÆ aujtou' tovte to; o[trakon ejpifevrein e[mellen, w|/

kolouvonte ajei; to;n prou[conta dovxh/ kai; dunavmei tw'n politw'n ejlauvnoui), ed

il fatto che Alcibiade fosse stato sottoposto a tale procedura mostrerebbe già l’insofferenza delle istituzioni ateniesi verso la sua eccentricità. Infine, Plutarco rivela che sarebbe stata proprio la dovxa il motivo della definitiva disfatta di Alcibiade: se tutti erano pronti a elogiare le sue vittorie, come manifestazioni

446 Vd. anche Comp. Cor. Alc. 3.6. Prova della fama di cui godeva sarebbe anche l’esclusione dell’insegnamento dell’aulo dalle arti liberali: tale sarebbe stata la sua influenza sull’opinione pubblica, che anche gli altri fanciulli avrebbero smesso di suonare questo strumento seguendo il suo esempio (2.5-7, vd. supra p. 171). Plutarco mette in evidenza anche il carisma esercitato sui singoli individui, come Tissaferne che ne ammirava la versatilità (24.5 to; me;n ga;r poluvtropon kai; peritto;n aujtou` th` deinovthto, ... ejqauvmazen oJ bavrbaro), o Agide che ne invidiava la fama (24.3).

447 Cf. Schmitt 2005 che rileva, a proposito di Them. 22.2-5, come l’ostracismo testimoni ancora una volta l’assenza di una separazione tra àmbito politico e àmbito religioso o, nel nostro caso, privato.

della sua audacia ed intelligenza, una sconfitta avrebbe finito per suscitare il sospetto di un inganno, perché nessuno avrebbe creduto ad un suo involontario fallimento (35.3). Per questo motivo, dopo il disastro di Nozio, Alcibiade avrebbe preferito fuggire e non sottoporsi al giudizio degli Ateniesi (36.5).

L’insistenza su questo tema costituisce una innovazione rispetto alle tradizioni letterarie di V e IV secolo analizzate nei capitoli precedenti: esso pare alludere ad un sistema di valutazione delle azioni di un individuo basato esclusivamente sulla sua reputazione. Già Isocrate (XVI 34.9) e Tucidide (VI 16.1) avevano posto l’accento sulla dovxa di Alcibiade ottenuta grazie alle vittorie olimpiche, ma questo elemento costituiva per entrambi un risultato secondario delle sue azioni, determinate principalmente dal desiderio di eccellere. Nella Vita il desiderio di ottenere fama diventa invece uno dei motori propulsori delle azioni del protagonista, e proprio intorno a questa caratteristica ruotano anche i suoi rapporti con i concittadini. Tuttavia nei Moralia Plutarco definisce la filodoxiva come una malattia dell’animo al pari della cupidigia e dell’ambizione (502e7, 532d): l’autore esorta a non estirpare o eliminare tali passioni, ma ad educarle affinché, indirizzate dalla ragione verso obiettivi positivi, potessero costituire un stimolo per il cittadino ad aumentare il proprio valore (vd. Mor. 451b-452d, 465f). Ancora una volta, quindi, ricorre il tema della paideiva, o meglio della sua inadeguatezza: il fallimento di Alcibiade viene attribuito alla corruzione degli adulatori, che avrebbero fatto leva proprio sulla sua filodoxiva, distogliendolo dagli insegnamenti del maestro (6). L’insistenza di Plutarco sul tema della dovxa costituisce dunque un valido esempio del suo metodo di lavoro: l’autore attinge ad un tema già presente nella tradizione su Alcibiade di V e IV secolo, ma lo modella in base ad un sistema morale diverso, in cui il tema della paideiva risulta centrale, e pone sotto una nuova luce la vita di Alcibiade.

Conclusioni

Plutarco attinge, come abbiamo visto, ad una tradizione alquanto eterogenea e modella il materiale a sua disposizione in base alle esigenze morali del progetto generale della sua opera. La presente analisi ha cercato di mettere in luce, ove possibile, i debiti del biografo nei confronti di testi composti in stretta prossimità temporale alla vita del protagonista, che veicolavano valori e significati prodotti all’interno di un determinato contesto storico; tuttavia, spesso è risultato impossibile individuare le origini degli aneddoti citati, ma si è cercato ugualmente di analizzare le forme di pensiero che li avevano prodotti. Plutarco tesse tra di loro i fili di queste diverse tradizioni, finendo per appiattire il loro valore storico. I contorni di queste tradizioni si confondono infatti nell’intreccio, perdendo la

propria specificità e diventando immagini svincolate dal loro contesto culturale, che l’autore rielabora in chiave morale.

Ammettendo dunque, sulla base di Meyerson (1989 66-67), di poter distinguere tra simbolo e segno – nel senso in cui il primo «presenta qualche rapporto intelligibile con l’oggetto, la nozione o l’atto a cui si riferisce», mentre il secondo, convenzionale ed arbitrario, si esaurisce nella sua stessa funzione – e banalizzando quest’ultimo al massimo grado, ritengo si possa individuare, nella

Vita plutarchea, la trasformazione dell’immagine di Alcibiade che, da simbolo di

un determinato modo di fare politica, diventa ‘segno’, ossia traccia, di un’identità politica ormai scomparsa.