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L’attenzione di Plutarco per l’educazione del giovane si concentra soprattutto sulla relazione tra costui e Socrate. Fin da subito il biografo riconosce il debito che la fortuna di Alcibiade presso i posteri aveva nei confronti del maestro422: come abbiamo visto, infatti, il controverso rapporto tra i due fu oggetto di numerose discussioni in relazione alle accuse mosse contro il filosofo sulla sua responsabilità per le malefatte del suo allievo; tali discussioni furono alla base di una parte dei cosiddetti logoi sokratikoi che consentirono il tramandarsi di numerosi dati ed aneddoti sul giovane. Il biografo attinge dunque alla letteratura socratica, ed in particolare ai dialoghi platonici423, che giustificavano l’interessamento del filosofo nei confronti del giovane in cui avrebbe ravvisato una certa predisposizione naturale verso la virtù (4.1oJ de; Swkravtou e[rw mevga

martuvrion h\n th` pro; ajreth;n eujfuiv>a tou` paidov): egli avrebbe cercato di

educarlo e di tenerlo lontano da ciò che poteva corromperne la natura, ottenendo, almeno inizialmente, alcuni risultati. Grazie ai suoi insegnamenti insistenti e talvolta anche umilianti, sarebbe riuscito infatti per un certo periodo a spingere verso la virtù il giovane,

4.3 e[pthxÆ ajlevktwr dou`lo w} klivna pterovn.

«Come un gallo sconfitto abbassò le ali e si rannicchiò intimorito»424.

Plutarco si colloca dunque a pieno titolo nella tradizione che difendeva la legittimità degli insegnamenti del maestro, al punto da riconosce una missione quasi divina nel tentativo di quest’ultimo di salvaguardare l’ajrethv dei giovani

422 Vd. 1.3 levgetai dÆ ouj kakw`~ o{ti th`~ Swkravtou~ pro;~ aujto;n eujnoiva~ kai; fil»anqrwp¼iva~ ouj mikra; pro;~ dovxan ajpevlauen: ritengo si possa intravedere in queste parole una certa dose di diffidenza nei confronti della quantità del materiale pervenuto, che aumentò a dismisura la fama di questo personaggio, finendo per attribuirgli un’importanza forse spropositata rispetto alla realtà. 423 Per una panoramica dell’uso di Platone nell’opera di Plutarco, vd. Ferrari 2004.

424 Phryn. fr. 17 Snell = fr. ad. 408a Kannicht-Snell. Lo stesso verso è citato anche nella Vita di

(4.4). Ma nonostante tutto, Alcibiade, che pure avrebbe ritenuto il maestro l’unico degno di rispetto, sarebbe stato talvolta sviato dalle lusinghe degli amanti (6.1

e[ti dÆ o{te kai; toi` kovlaxi polla; hJdona; uJpobavllouin ejndidou; eJautovn)

attratti solo dalla sua giovinezza (4.1). In questo contesto dunque Plutarco inserisce gli aneddoti sugli amori corrotti di Alcibiade, nei quali avrebbe dato prova della stessa prepotenza ed intemperanza mostrata altrove. Fin dall’infanzia Alcibiade si sarebbe mostrato particolarmente incline a questo tipo di relazioni ‘fuori norma’; già da bambino (pai`), per esempio, sarebbe fuggito di casa per recarsi da un amante (3)425. Anche l’episodio già ricordato della cena a casa di Anito costituisce un ulteriore esempio di tale sregolatezza e del rapporto di prepotenza che avrebbe istaurato con gli amanti (vd. supra p. 166). Per un certo periodo fu attratto alternativamente ora dalle lusinghe di questi ultimi ora dagli insegnamenti del filosofo.

La biografia tenta in qualche modo di dare ragione dell’evoluzione narrativa avvenuta all’interno dell’opera platonica: nell’Alcibiade I Socrate riusciva ad allontanare il giovane dalla vicinanza pericolosa degli amanti, dichiarando di essere l’unico veramente interessato all’educazione del giovane (131c-d); nel

Simposio, però, Alcibiade dichiarava di essere fuggito dal maestro e di aver

ceduto alle lusinghe del popolo (216a-c). Secondo Plutarco, dunque, la relazione tra i due sarebbe continuata ad intermittenza, e per descrivere l’effetto del maestro sul giovane allievo egli utilizza una efficace similitudine con l’azione del freddo che tempra il ferro reso molle dal fuoco:

6.5 w{per ou\n oJ ivdhro ejn tw`æ puri; malaovmeno au\qi uJpo;

tou` yucrou` puknou`tai kai; uvneii toi` morivoi eij eJautovn, ou{tw ejkei`non oJ Swkravth qruvyew diavplewn kai; caunovthto oJavki ajnalavboi, pievzwn tw`æ lovgwó kai; utevllwn tapeino;n ejpoivei kai; a[tolmon, hJlivkwn ejndehv ejti kai; ajtelh; pro; ajreth;n manqavnonta.

«Dunque, come il ferro che, reso molle dal fuoco, di nuovo si indurisce sotto l’azione del freddo, e le sue parti riacquistano la compattezza, così era Alcibiade: tutte le volte che lo trovava pieno di lussuria e di vanità, Socrate lo forgiava, per così dire, con la parola e lo rendeva umile e docile, mostrandogli quali e quante fossero le sue mancanze e imperfezioni rispetto alla virtù».

Si tratta di una metafora già utilizzata da Platone, ma in senso contrario: nelle

Leggi (666c1 e 671b9) l’Ateniese dimostrava che la consuetudine di bere vino si

425 Plutarco mostra tuttavia scetticismo nei confronti di questo episodio, riportato nelle loidorivai di Antifonte (fr. 4 Gernet = Athen. XII 525b).

rivelava utile ai fini dell’educazione poiché rendeva le anime più duttili agli insegnamenti, come il fuoco con il ferro426. In questo caso, invece, la similitudine viene utilizzata in un contesto negativo: il fuoco simboleggia le lusinghe degli amanti adulatori427, mentre l’azione morale del filosofo, che riporta Alcibiade sulla via della ricerca dell’ajrethv, è paragonata a quella del freddo che solidifica e tempra il metallo fuso.

Si definiscono quindi due diversi tipi di e[rw, efficacemente presentati attraverso una citazione dello stoico Cleante (fr. 614 Arnim):

6.2 oJ me;n ou\n Kleavnqh e[lege to;n ejrwvmenon uJfÆ eJautou` me;n

ejk tw`n w[twn kratei`qai, toi` dÆ ajnteratai` polla; laba; parevcein ajqivktou eJautw`æ, th;n gatevra levgwn kai; ta; aijdoi`a kai; to;n laimovn.

«Cleante soleva dire che Socrate ‘prendeva’ l’amato solo per l’orecchio e lasciava ai suoi rivali molte altre ‘prese’ di cui lui non si sarebbe mai voluto valere – intendeva riferirsi con ciò al ventre, al sesso e alla gola».

Plutarco articola una distinzione che risente della teoria platonica sull’Eros: da un lato l’amore completamente spirituale tra Alcibiade e Socrate – giustificato dal reciproco riconoscimento di qualità morali positive – che diventa un elemento essenziale nel percorso educativo del giovane cittadino verso l’ajrethv; dall’altro l’amore fisico nei confronti degli amanti – attratti solo dalle qualità esteriori di Alcibiade, cioè la bellezza e la giovinezza – che spinge il giovane a comportamenti eccessivi e riprovevoli, motivati solo dal desiderio non controllato di hJdonhv e di potere politico428. Questa distinzione estremizza e in un certo senso fraintende la lunga riflessione platonica del Simposio in cui Socrate aveva definito l’Eros come «tendenza a essere in possesso del bene per sempre» (vd. supra pp. 156 ss.), mentre il giovane Alcibiade era stato presentato come modello esemplare del rifiuto di questo amore; egli aveva infatti offerto la propria bellezza fisica in cambio delle attenzioni dell’amante più anziano, adeguandosi a quella che era l’idea tradizionale di amore pederastico, lecito, se consacrato all’educazione morale dei giovani.

Questa rappresentazione plutarchea di Alcibiade si inserisce dunque nel solco di quella tradizione letteraria che scagionava Socrate dalle accuse di aver corrotto il giovane Alcmeonide, enfatizzandone le straordinarie qualità, che, nella

426

Questa metafora ricorre anche nella Repubblica (411a 10), dove l’azione del fuoco sul ferro è paragonata a quella dell’anima resa utile (crhvimo) dall’ascolto della musica.

427

Nei Moralia (138f 2) Plutarco associa il fuoco, che ha bisogno di materiale che lo alimenti per non spegnersi, alla passione dei giovani sposi che solo se fondata sul carattere può considerarsi solida e duratura.

prima fase della vita, avrebbero ancora potuto essere orientate nella direzione giusta, grazie all’influenza positiva del maestro. Solo l’intervento di agenti esterni avrebbe deviato il giovane dalla ricerca della virtù, e lo avrebbe indotto ad applicare le proprie abilità a fini meno nobili. Tuttavia, a differenza di Platone, secondo il quale sarebbero state le lusinghe del demos ad allontanare il giovane dalla ricerca della virtù (vd. Plat. Alc. 131e-132a, 135e; Symp. 216a2-c1), Plutarco attribuiva la responsabilità dell’insuccesso socratico alle influenze dannose degli adulatori. Il richiamo a questa categoria colloca la rappresentazione di Alcibiade entro i limiti dell’orizzonte morale plutarcheo: egli condannava la corruzione morale provocata dalle lusinghe degli adulatori contro l’azione benefica della critica costruttiva dell’amico e aveva dedicato addirittura un intero trattato dei

Moralia (Quomodo adulator ab amico internoscatur 48e-74e) all’argomento,

affrontando la questione da un punto di vista squisitamente psicologico, mettendo cioè a confronto da un lato l’adulatore che si finge amico, ma attraverso le proprie lodi esagerate finisce per corrompere la propria vittima (55e-56e), dall’altro il vero amico che non teme talvolta di muovere delle critiche, a patto che queste siano costruttive e adeguate (66a-d)429.