L'esplosione della spirale in-flazionistica e la riforma del commercio sono stati oggetto di numerosi contributi che hanno arricchito, in questi ultimi due anni, la saggistica economica.
Le premesse da cui sono par-titi quasi tutti gli autori di questi studi non ci trovano d'accordo, e ciò non tanto perché le si vo-glia negare, quanto perché rico-nosciamo la rilevanza determi-nante di altre, ad esse comple-mentari, che ci paiono sistemati-camente trascurate.
Queste premesse aggiuntive, su cui vorremmo sviluppare u n ragionamento, sono essenzial-mente due; e cioè:
1) il ruolo dominante gio-cato dal limite imposto al siste-ma dei prezzi dai mezzi di dise-ducazione del consumatore;
2) il ruolo che può giocare la « corretta » applicazione della Legge n. 426, in ordine alla cre-scita di razionalità nel sistema dei consumi.
A queste premesse si aggiun-ge un presupposto di natura me-todologica: non è possibile in-terpretare coerentemente la ri-forma del sistema distributivo se si ignora, nelle sue linee fonda-mentali, il sistema minimo di re-lazioni tra i vari settori che, per
un verso o per l'altro, sono sot-toposti a sollecitazione.
Il presente articolo si riferisce esclusivamente alla prima pre-messa.
Una interpretazione sistemica delle richieste di riforma della rete distributiva ci dice che con essa si tende alla razionalizza-zione neocapitalistica del detta-glio (o, più in generale, delle ul-time fasi della distribuzione) resa necessaria dalle strozzature che
il settore produttivo incontra nei suoi comparti fondamentali: ra-zionalizzare, in questo senso, si-gnifica non solo ridurre i costi di distribuzione, ma soprattutto ac-celerare il flusso degli stocks di produzione verso i consumi; si-gnifica, in ultima analisi, creare più facili occasioni di smercio per la produzione delle aziende, e modificare la struttura dei con-sumi, influendo, attraverso mec-canismi economici e psico-socio-logici, sulle scelte di consumo della popolazione.
Chiarito ciò ci è facile giun-gere ad un primo « d i s t i n g u o » : una vera riforma del commercio deve tendere a creare una distri-buzione efficiente; quindi, non ci si deve dimenticare, come affer-ma il D o r f m a n , che « l'efficiente distribuzione dei beni richiede che tutti i consumatori abbiano lo stesso saggio marginale di so-stituzione tra ogni coppia di
be-ni » ('), la qual cosa non coin-cide (anzi, spesso è in contrasto) con l'imperativo: rendere massi-mo il profitto dell'oligopolista.
La battaglia per una vera ri-forma del settore distributivo deve vedere impegnati in prima persona i consumatori per la di-fesa di questo loro diritto, e de-ve essere sostenuta con uguale forza dai dettaglianti italiani, i quali, come dimostra uno studio commissionato dalla CEE alla GIEK di Norimberga, pur ope-rando all'interno di strutture pa-lesemente inefficienti, ed in un sistema caratterizzato dai più alti costi di distribuzione della Comunità, sono anche i commer-cianti con più basso ricarico in tutta la CEE (2). Ciò significa che l'irrazionalità del sistema distri-butivo italiano genera simulta-neamente l'autosfruttamento dei piccoli operatori commerciali, e rendite più diseconomie a mon-te del dettaglio: il tutto a danno del consumatore; fare la riforma del commercio significa, a nostro avviso, abbattere questo sistema; mentre affidare la rete distribu-tiva alle iniziative oligopolistiche
(1) DORFMAN, Prezzi e mercati, Ed. Il Mulino, Bologna, pag. 189.
(2) A risultati analoghi si perviene ap-profondendo i dati elaborati da L. LENTI,
Business Cycles and Price Trend in Italy,
pubblicato su « Rewiew of the Economie Conditimi in Italy », Banco di Roma, mag-gio '73.
significa razionalizzare la rete commerciale (ma non il com-mercio) aprendo la strada a nuo-ve e più sofisticate forme di sfrut-tamento e di controllo sociale.
Se si vuole raggiungere il pri-mo obbiettivo occorre fare tut-t'altre cose e scrivere tutt'altri discorsi di quanti fino ad ora ci è stata data occasione di conosce-re; se si vuole raggiungere il secondo, basta liberalizzare le autorizzazioni all'esercizio del commercio, e farlo subito, senza ipocrisie e senza difese (o pseu-do-difese) di chiara impronta corporativa. Ognuno scelga da quale parte stare.
Prezzi e squilibri settoriali.
Un secondo fondamentale « distinguo », suggeritoci dalla teoria economica, è rappresen-tato dal significato della parola « prezzo »; infatti, all'idea in-tuitiva che definisce come prezzo « la quantità di moneta che un uomo deve pagare per ottenere in cambio un certo bene », oc-corre contrapporre quella scien-tifica che definisce prezzo « ciò che u n uomo deve pagare in cam-bio di un bene, perché ed essen-zialmente solo perché, molti altri uomini sono disposti a fare al-t r e al-t al-t a n al-t o » . Quesal-to ci dice che il prezzo deciso dal venditore è tanto più iniquo quanto più è squilibrata la distribuzione dei redditi: infatti è noto che l'eco-nomia è più sensibile ai gusti dei consumatori più ricchi e che que-sti sono dispoque-sti a pagare prezzi « oggettivamente iniqui » non solo per i beni di lusso ma an-che per quelli di prima necessi-tà, i quali, in quanto caratteriz-zati da d o m a n d a scarsamente elastica, si prestano assai bene ad essere strumento di
espropria-zione del reddito nei confronti dei consumatori marginali.
Concludiamo, brevemente, a questo proposito, che le tensioni inflazionistiche dipendono anche (od essenzialmente?) dalla squi-librata distribuzione del reddito e dai troppi privilegi di cui gode il terziario burocratico; vediamo minori responsabilità nel terzia-rio commerciale; aggiungiamo, come esigenza minima, che la ri-forma del commercio deve esse-re, oltre che razionalizzazione delle strutture del dettaglio, an-che vera riforma del commercio di massa.
E qui chiediamo nuovamente il sostegno del Dorfman, il quale afferma testualmente: « Il com-mercio di massa consiste nel di-stinguere i prodotti di un'impre-sa da quelli delle imprese con-correnti per mezzo di un mar-chio e di creare, attraverso la pubblicità, una preferenza per quel marchio »; ed aggiunge « il commercio di massa è un feno-meno quasi estraneo alla con-correnza (...) e può avere suc-cesso anche quando non esisto-no le basi tecesisto-nologiche dell'oli-gopolio, anzi, esso da solo può creare l'oligopolio » (3).
Effetti del commercio di massa.
Riforma del commercio di massa significa, quindi, lotta al-l'oligopolio differenziato (dalla pubblicità e da caratteristiche se-condarie: caso tipico, ma tutt'al-tro che unico, i detersivi) che di-versifica la produzione non nella sostanza ma nella mente dei con-sumatori sprovveduti.
Occorre, quindi, mettere in discussione, anche l'uso dell'in-formazione di mercato in regi-me di prevalente oligopolio.
L'informazione di mercato, nel senso di « messaggio pubbli-citario usato per comunicare ai consumatori l'esistenza di un prodotto (e le sue caratteristi-che), e per sostenere queste in-formazioni contro altre che ad esse dovrebbero sovrapporsi », comporta costi che solo in parte possono essere giustificati da un punto di vista macro-economico; i rimanenti costi giocano a de-cremento della produttività glo-bale: un caso significativo è rap-presentato dalle circa ottocento persone addette al marketing di uno dei maggiori pastifìci italia-ni, il cui costo è riversato sul prezzo della pasta.
Secondo Kaldor la pubblicità che è fornita simultaneamente ai beni ed ai servizi, eccede le effettive esigenze dei consuma-tori, quindi costituisce uno spre-co di risorse; serve, invece, nel-la lotta per nel-la conquista del mer-cato da parte degli oligopolisti, e si sostituisce, attraverso la ma-nipolazione del consumatore, agli strumenti socialmente ben più efficienti che si chiamano « innovazione tecnologica » e « confronto sul terreno dei prezzi » (4).
Per la verità vi è chi sostiene che la pubblicità consente eco-nomie di scala aumentando la domanda ed incrementando la produzione; intanto bisogna chiedersi se nella congiuntura che attraversiamo è lecito mette-re in moto strumenti capaci di aumentare la domanda, e subor-dinatamente a ciò è necessario
(3) DORFMAN, cit., pag. 1 5 6 .
(4) Ancora il Dorfman afferma che in
regime di prevalente oligopolio « tutto è permesso, tranne che la riduzione dei prez-zi: questa 6 un'arma troppo facile dn usar-si, ma troppo pericolosa »; op. cit., pa-gina 177.
riflettere sui seguenti dati posti
in luce dal Tommasini (s):
1 ) molte imprese che spen-dono un ammontare rilevante di denaro in pubblicità hanno im-pianti di diversa grandezza (il che contraddice l'esigenza indi-scriminata di economie di scala nel processo produttivo);
2) sul mercato esistono be-ni molto pubblicizzati che sono prodotti, principalmente, da im-prese di piccole dimensioni;
3) esistono industrie nelle quali poche imprese sono gran-di, ma che spendono poco in pubblicità (es.: i produttori di beni industriali, caso tipico di oligopolio indifferenziato);
4) in altri settori l'alta con-centrazione della produzione è associata con una considerevole spesa di pubblicità (il produtto-re « nazionale » che produtto-reclamizza il suo prodotto, ed espelle dal mercato il produttore « locale »); 5) la spesa pubblicitaria è manovrata in modo da mantene-re lo status quo, ed impedisce l'ingresso di nuovi produttori sul mercato.
Di fronte ad un mercato di-storto, sia dalla tipologia della domanda, sia dalla struttura del-l'offerta, emerge, chiara, l'esigen-za di intervenire creando un cen-tro informativo e realizzando forme di offerta « ragionata » a vantaggio dei consumatori di-sposti a superare la schiavitù della manipolazione pubblici-taria.
Che di schiavitù si tratti, esi-stono pochissimi dubbi.
Lo psicologo F. Fornati scri-ve, ad esempio (6):
« U n a larva si aggira per il mondo: il consumatore. Benché
si parli di lui come un sistema di potere, il consumatore è l'in-terlocutore assente... vezzeggia-to, ma anche manipolato dalle grandi agenzie di pubblicità, è trattato come una folla senza no-me, come un piccolo bambino a cui si raccontano favole, ma esprime la totalità degli uo-mini ».
Ed il biologo Von Bertalanffy,
in un suo noto saggio (7) rincara
la dose, affermando che l'uomo subisce l'azione manipolatoria dei persuasori occulti che lo ren-dono « capace di comprare qual-siasi cosa, dalla pasta dentifricia ai Beatles, ai Presidenti, alla bomba atomica, all'autodistru-zione»; ed aggiunge:
« Ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova concezione dell'uo-mo, perché quando l'élite intel-lettuale, i pensatori ed i capi, non vedono nell'uomo altro che un ratto adulto — e lo manipo-lano in conformità e con suc-cesso — allora è il caso di allar-marsi. Si è raggiunta nel baro-metro spirituale una depressione che è solo foriera di uragani e di sciagure imminenti ».
Secondo alcune previsioni la società dei consumi porterà au-tomaticamente al superamento di questi pericoli, mentre secon-do altri ha già predisposto le condizioni che ne faciliteranno l'esplosione.
In questo contrasto di pro-spettive si può ritenere che la soluzione non drammatica sia ipotizzabile, ma per far ciò ab-biamo bisogno di introdurre due postulati, che chiameremo:
1) della miniaturizzazione dei consumi privati;
2) della sindacalizzazione del consumatore.
La miniaturizzazione dei consumi privati.
Si tratta di un discorso estre-mamente semplice che tende a prevedere quale possa essere il ruolo dei consumi privati nella Società post-industriale: la tesi che appare più accettabile è che ci si trovi di fronte ad un pro-cesso di ridimensionamento del ruolo psico-sociologico dei con-sumi privati (in quanto possesso-ri di potenziali simboli di sta-tus) a tutto vantaggio dei consu-mi pubblici; l'obbiettivo che ci dobbiamo porre, a questo riguar-do, è: comprendere ed accele-rare questo processo di miniatu-rizzazione.
Qualche elemento di com-prensione ci è fornito dall'analisi dei seguenti tre concetti:
A) Demostraction effect: può essere sintetizzato cosi:
Ogni uomo tende a far appa-rire, attraverso i propri consumi, di essere superiore a quelli che appartengono al suo stesso ceto, ed a quelli inferiori, e di essere pari agli appartenenti al ceto su-periore: pertanto gli individui che vengono a contatto con beni superiori a quelli che essi usano, sono stimolati al loro acquisto.
B) Bene di cittadinanza: è bene di cittadinanza un bene già possessore di « demostraction effect », che sia divenuto acces-sibile ai ceti inferiori, e cioè:
Quando le classi inferiori co-minciano a copiare lo stile delle classi superiori, queste, per
dif-(5) L. M. TOMMASINI, SU alcuni aspetti
economici del possesso di informazione,
in « Rassegna economica del Banco di Na-poli », 3/73.
(6) F. FORNARI, Psicanalisi della società
industriale.
C) L . VON BERTALANFFY, Il sistema
ferenziarsi, ne adottano uno nuo-vo: un nuovo bene acquista « demostraction effect », sosti-tuendo un altro che diventa « be-ne di cittadinanza », cioè ogget-to di consumo assunogget-to a simbolo di status da « non emarginati ».
C) Trickle effect: è la ge-neralizzazione del fenomeno che porta un bene « ex demostraction effect » a diventare « bene di cittadinanza »; in pratica avvie-ne che:
Ogni qual volta un bene nuo-vo è posseduto dai ceti superio-ri si mette in moto un mecca-nismo di imitazione che i deten-tori del potere economico (quin-di gli stessi ceti superiori) tendo-no a favorire: in questo modo si crea un mercato nuovo, e quindi una nuova occasione di controllo e di sfruttamento nei confronti delle classi subalterne. Per ottenere ciò è necessario inventare sempre nuovi simboli di status (cioè beni possessori di demostraction effect), e gestire il loro ingresso nel mercato (pri-ma) e la precipitazione verso il basso (poi): cioè si alimenta il consumismo con criteri molto si-mili a quelli con i quali si mano-vra la borsa valori quando, dopo aver creato il « mito » sopra un titolo in ascesa, lo si sgonfia abil-mente portando i piccoli rispar-miatori (e gli speculatori più in-genui) alla rovina.
L'insegnamento che possiamo trarre da quanto è stato esposto ci porta ad ipotizzare che cosi come il fenomeno del « trickle effect » si verifica generalmente per tutti i simboli fittizi che sono stati proposti dalle classi domi-nanti, allo stesso modo i consu-mi privati quali « portatori non unici, ma privilegiati » di simbo-li di status, sono destinati a
per-dere d'importanza e quindi a miniaturizzarsi; ciò avverrà ine-vitabilmente (e la crisi attuale ha già posto il problema in ma-niera drammatica quanto confu-sa) o per iniziativa degli sfruttati (secondo un modello che defini-remo « genericamente di sini-stra »), o quando il potere eco-nomico avrà a disposizione più convenienti opportunità di con-trollo e di sfruttamento (secondo un modello che possiamo defini-re «genericamente di destra»).
La constatazione d'essere già entrati nella fase di miniaturiz-zazione dei consumi privati, e gli sbocchi politici che a ciò po-trebbero connettersi, costituisco-no un ulteriore rafforzamento dell'impegno per una « sostan-ziale » riforma del sistema distri-butivo-commerciale (quindi non disgiunta da interventi riequili-branti nei settori ad esso più in-timamente correlati).
L a sindacalizzazione del consu-matore.
I sindacati svolgono, nelle nazioni democratiche, un ruolo sempre più rilevante, in quanto più politico e meno corporativo, più vicino all'obbiettivo istitu-zionale (che è la difesa della li-bertà d'uso dei salari, in modo che sia consentita all'individuo una libera attività mentale e so-ciale) e sempre più lontano dal compito ingrato e strumentale delle episodiche rivendicazioni monetarie per garantire la « so-pravvivenza » della forza-lavoro.
Proprio questa trasformazio-ne, questa evoluzione che regi-striamo nel ruolo del sindacato, porta alla conseguenza logica che la difesa preminente nel mo-mento attuale è quella dovuta al lavoratore-consumatore: che oc-corre rendere libero.
Infatti, come afferma una no-ta tesi di ispirazione marxisno-ta, ma su cui concorda la totalità degli studiosi anche non mar-xisti:
« Nel sistema capitalistico il consumatore non è mai stato li-bero (...) e tanto meno nel capi-talismo di prevalente monopo-lio. Il coltello per il manico l'ha sempre avuto il produttore capi-talista, che produce la merce. È lui che crea, che stimola i bi-sogni, che si impone ed osses-siona con la pubblicità dei suoi prodotti, che crea la moda, le convinzioni sociali che eserci-tano un dominio tirannico su tutti noi, crea cioè i consumi e la domanda correlativa (8) ».
Risulta quindi chiaro che una vera battaglia di libertà, per quanto inerisce ai consumi, non si combatte rivendicando più po-tere d'acquisto (attraverso au-menti salariali, o blocco dei prez-zi, o prezzi politici), ma preten-dendo il controllo della commer-cializzazione di almeno una par-te della produzione.
E siamo giunti cosi alla più importante tra le condizioni ne-cessarie, perché sia realizzata una V E R A riforma del sistema distributivo.
Ma vediamo come il ruolo e l'azione attuale dei sindacati sono interpretati da destra e da sinistra.
Secondo il Ferrer-Pacces (che ha l'aria di guardare come un tecnocrate di destra): « d a al-meno un quinquennio i sindacati sviluppano in Italia una strate-gia che l'economia produttiva subisce passivamente o stanca-mente combatte, senza convin-zione e senza il benché minimo
(8) A. PESBNTI, Manuale di Politica
tentativo di contrapporvi un proprio piano che meriti il no-me di strategico, o anche solo di vagamente politico ».
Gli obbiettivi strategici più ambiziosi e più scoperti dei sin-dacati sarebbero:
1 ) « occupare progressiva-mente il vuoto politico di credi-bilità lasciato dai partiti di sini-stra »;
2) « disorganizzare ed esau-torare lo Stato fondato sui par-titi »;
3) « tenere in agitazione continua i dipendenti statali e parastatali, con una dimostra-zione di forza (e di contrappo-sta debolezza dell'amministra-zione pubblica) atta ad attirare sempre maggiori consensi »;
4) « eliminare le ultime re-sistenze valide, costituite dalle imprese private e particolarmen-te dalle poche macroimprese che difendono la propria autonomia di bilancio ».
Cosi facendo essi, sempre se-condo Ferrer-Pacces, sarebbero in grado di provocare la « cadu-ta del fronte resistenziale del profitto » e di mettere tutte le aziende « sotto la tenda ad ossi-geno del Tesoro » in modo che « come già avviene per buona parte dell'industria e per tutti i servizi: eni od enei, poste o ferrovie, alitalia o rai, e siderur-gia e cantieri, pignoni, lanerossi e via elencando » si possa sem-pre attingere dai rubinetti dello Stato, senza aver motivo di ne-gare aumenti salariali o di con-trastare eventuali perdite di produttività. Come risultato si otterrebbe: l'instaurazione del marxismo in Italia « senza colpo ferire », una iperinflazione, e
l'espulsione dalla CEE(9).
Il sociologo industriale A. Touraine, guarda invece da si-nistra e trae per conclusione:
« Questi conflitti sono tutti della medesima natura. Essi op-pongono dirigenti spinti dalla volontà di rafforzare la produ-zione, di adattarsi alle esigenze dell'efficacia, di rispondere agli imperativi di potenza, ad indi-vidui che sono in minor misura lavoratori che difendono il loro salario, e non persone e gruppi che cercano di mantenere il sen-so della loro vita persen-sonale ».
« Ciò che cercano questi sala-riati-consumatori è la sicurezza, vale a dire un avvenire prevedi-bile, o r g a n i z z a r l e , che permetta di formulare progetti e di conta-re sui frutti degli sforzi consen-titi ».
« Tra queste due grandi classi o gruppi di classi, l'opposizione principale non viene dal fatto che gli uni possiedono la ric-chezza e la proprietà e gli altri no, ma dal fatto che le classi do-minanti sono fatte da coloro che gestiscono la conoscenza, che
detengono le informazioni » (10).
A commento dobbiamo ag-giungere che, indubbiamente, si possono verificare realizzate un certo numero delle implicazioni negative previste dal Ferrer-Pac-ces, e solo assai poche delle con-seguenze positive ipotizzate dal Touraine.
Tuttavia il maggior sostegno ad una ipotesi di razionalizza-zione « orientata da sinistra », viene proprio da un'altra analisi che è significativo citare proprio nella elaborazione fornita dal Ferrer-Pacces; leggiamo, infatti, che:
« Dobbiamo anzitutto abban-donare il pregiudizio secondo il quale i gruppi direzionali
agi-scano, in generale, in base a mo-tivazioni esclusivamente econo-miche, sempre tesi a massimiz-zare il profitto. Il profitto è la remunerazione del capitale di impresa: la sua massimizzazione è l'obbiettivo dei gruppi