Giorgio Cansacchi
È cosa risaputa che gli operatori economici di qualsiasi paese preferiscono far giudicare le controversie fra di loro insorte dagli arbitri che non dai giudici statali.
Questa preferenza è giustificata da diversi mo-tivi: maggiore competenza tecnica degli arbitri nel campo economico-imprenditoriale (ora spe-cialmente che la definizione arbitrale è per lo più affidata ad apposite istituzioni extra-nazionali a carattere permanente e con adeguate attrezzatu-re); maggiore celerità e definitività di giudizio; maggiore possibilità di giudizi « non rituali » im-prontati prevalentemente all'equità ed alla con-cretezza degli affari, che non allo stretto diritto; maggiore possibilità di sfuggire ad aggravi fiscali; maggiore possibilità di ottenere in breve tempo il pagamento del dovuto da parte della parte soccombente; normalmente (anche se non sem-pre) minor onere di spese giudiziarie. La prefe-renza data all'arbitro sul giudice statale è anche più sentita quando i negozi giuridici, in oggetto ai quali sorgono le controversie, presentano dei caratteri di « estraneità » (o — come da altri si dice — di « internazionalità »), cioè quando detti negozi manifestano collegamenti con gli ordina-menti giuridici di due o più Stati (per es. sono intercorsi fra cittadini di Stati diversi, hanno per oggetto beni o prestazioni o servizi localizzati in uno Stato diverso da quello di cittadinanza delle parti o da quello in cui si trovano i beni del soccombente idonei ad essere escussi dal vin-citore, ecc. ...)•
Nelle legislazioni degli Stati e nelle Conven-zioni internazionali si differenziano — e più an-cora questa differenza è interpretata dalla dottrina e dalla giurisprudenza — gli arbitrati « interni » da quelli « internazionali ». f primi sono pro-nunciati nello Stato del foro (la cui giurisdizione si suole escludere allegando la convenzione arbi-trale) e sono regolati nella loro procedura e nella
efficacia del lodo dalla legislazione di tale Stato; i secondi sono, invece, pronunciati « all'estero » rispetto allo Stato del foro e sono regolati dalla legislazione « estera » dello Stato della pronuncia. Nel presente saggio esamino il problema della deroga alla giurisdizione statale, e marginalmente anche quello della riconoscibilità ed esecuzione del lodo arbitrale, soltanto in oggetto agli arbi-trati stranieri e non a quelli interni.
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Come già si è accennato in questi ultimi trent'anni si sono moltiplicate le associazioni commerciali a carattere internazionale (o meglio extra-nazionale) — tali, ad es., la Camera di commercio internazionale di Parigi ed istituti analoghi di Amburgo, di Londra, di Tokio, di New York ecc. ... — le quali possiedono liste aggiornate di arbitri particolarmente qualificati, predispongono contratti-tipo con clausola arbi-trale e procedimenti arbitrali fissati in appositi regolamenti e statuti, richiedono alle parti depo-siti bancari preventivi per la soddisfazione delle spese dell'arbitrato e per assicurare l'adempi-mento del lodo ecc. ...; mediante queste istitu-zioni i cittadini di Stati diversi, che desiderano avvalersi di giudici arbitrali con prospettiva di buon giudizio, trovano già approntati gli stru-menti più idonei allo scopo e già collaudati con esito positivo da una prassi pluridecennale.
L'ostilità alla diffusione degli arbitrati, spe-cialmente di quelli chiamati « internazionali », è dovuta essenzialmente agli Stati, i quali vi scor-gevano una menomazione della loro sovranità, posto che si sottraggono le controversie alla cogni-zione del giudice nazionale, per deferirle ad un arbitro « privato », spesso « straniero » e giudi-cante « all'estero ». Un secondo motivo di osti-lità deriva dal preconcetto che, trattandosi di
ar-bitri stranieri pronuncianti all'estero, questi siano tendenzialmente avversi al cittadino sottoposto al loro giudizio. Basti ricordare — a questo propo-sito — che la Convenzione di New York del 1958 sul riconoscimento e sull'esecuzione delle sen-tenze arbitrali straniere (di cui diremo appresso), essendo la più liberale finora conclusa in questa materia, venne resa operante in Italia soltanto a partire dal 1" maggio 1969, cioè ben dieci anni dopo la sua stipulazione, in conseguenza delle forti opposizioni sollevate negli ambienti giudi-ziari e politici all'applicazione delle sue norme.
D'altra parte anche in altri numerosi Stati — e fra di essi gli stessi U.S.A. — si sono notate ana-loghe perplessità, le quali hanno ritardata l'en-trata in vigore delle suddette norme conven-zionali.
Occorre, però, rilevare che i timori e le remore testé ricordati si sono attualmente attenuati e si spera possano gradatamente scomparire.
Ciò è dovuto sia alla diffusione delle Organiz-zazioni internazionali, ed in particolare in Euro-pa occidentale alle Comunità Economiche sovra-nazionali, che hanno per molti aspetti limitata la competenza normativa, amministrativa ed an-che giudiziaria degli Stati-membri e quindi atte-nuato nella sua portata pratica il dogma dell'as-soluta sovranità statale, sia all'accentuarsi degli scambi fra operatori economici di Stati diversi, accentuazione che ha occasionato — come vedre-mo — la stipulazione di successive Convenzioni plurilaterali in materia arbitrale, sempre più libe-rali in favore dell'ammissibilità dell'arbitrato in deroga alla giurisdizione statale e del riconosci-mento ed esecuzione dei lodi arbitrali stranieri.
Un'ulteriore osservazione deve farsi.
La propensione dei ceti industriali a sottoporre le controversie insorgenti nell'ambito del com-mercio estero ad appositi organi arbitrali, anziché ai giudici di uno o di un altro Stato, non è sol-tanto riscontrabile fra le imprese degli Stati ad economia di mercato; analogo fenomeno si ac-certa presso le imprese di Stato dei regimi comu-nisti, sia in oggetto ai negozi intercorsi fra di esse, sia in oggetto a quelli conclusi fra dette imprese e le imprese « private » degli Stati capi-talisti. Si constata — ad es. — nell'intercambio commerciale internazionale dell'U.R.S.S., degli Stati dell'Europa orientale e della stessa Cina popolare la consueta stipulazione, nei contratti, di una specifica clausola compromissoria in base alla quale le controversie relative
all'interpreta-zione o alla esecuall'interpreta-zione dei contratti sono devo-lute alla cognizione di appositi organi arbitrali, istituzionali e permanenti, istituiti in seno alle Camere di commercio internazionale dei paesi socialisti; tali organi arbitrali sono chiamati ad emanare il lodo sulla base di normative specifi-camente indicate nei moduli contrattuali e richia-mate nei regolamenti e negli statuti delle sum-menzionate Camere. Ugualmente le Organizza-zioni internazionali, nei loro accordi di sede con gli Stati del loro stabilimento, hanno ottenuto di potersi sempre avvalere per i loro negozi della clausola arbitrale, escludendo cosi la giurisdi-zione statale locale.
Dobbiamo anche ricordare la correlazione esi-stente fra il giudizio arbitrale, la deroga alla giu-risdizione statale e il riconoscimento della sen-tenza arbitrale nello Stato la cui giurisdizione è derogata. È intuitivo, infatti, che se uno Stato ammette la possibilità di deroga alla sua giurisdi-zione in favore dei contraenti di una clausola compromissoria di arbitrato « estero », deve pure consentire il riconoscimento nel suo ordinamento della sentenza arbitrale « estera » che verrà emes-sa; in caso diverso la giustizia sarebbe frustrata in danno delle parti giacché, da un lato, il giudice statuale adito dichiarerebbe la propria incompe-tenza a giudicare e, dall'altro, escluderebbe dal riconoscimento e dall'esecuzione nel suo ordina-mento la sentenza arbitrale estera.
Si constata, infatti, che nelle Convenzioni plu-rilaterali in materia arbitrale le due situazioni sono per lo più correlate; quanto maggiormente la Convenzione ammette la possibilità di deroga alla giurisdizione statale in favore di quella arbi-trale straniera, tanto maggiormente la sentenza arbitrale, ottenuta all'estero, viene riconosciuta nell'ordinamento dello Stato che consente alla deroga della sua giurisdizione. Tale correlazione è, ad es., accertabile nel Protocollo e nella Con-venzione di Ginevra del 1925-27 e nella Conven-zione di New York del 1958.
Premesse queste considerazioni generali in tema di arbitrato « estero », esaminerò succintamente — senza scendere a particolari che interessereb-bero esclusivamente i giuristi — le deroghe alla giurisdizione statuale italiana apportate succes-sivamente dalle Convenzioni plurilaterali in ma-teria di arbitrato alle quali l'Italia ha aderito, ponendone in vigore le relative norme nel suo ordinamento interno.
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Per l'esame che ci siamo proposti occorre muo-vere dall'art. 2 codice procedura civile (c.p.c.) italiano il quale recita « la giurisdizione italiana non può essere convenzionalmente derogata a fa-vore di una giurisdizione straniera, né di arbitri che pronuncino all'estero, salvo che si tratti di causa relativa ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero ed un cittadino non residente né domiciliato nello Stato e la deroga risulti da atto scritto ». Tralasciando di trattare della deroga a favore di una giurisdizione statale straniera, che non rientra nell'ambito di questo studio, e limi-tando l'indagine alla deroga in favore di « arbitri che pronuncino all'estero », si scorge subito che la deroga alla giurisdizione italiana disposta da que-sto articolo è assai circoscritta. La clausola com-promissoria che di solito viene espressa in un con-tratto a carattere commerciale in favore di un arbitro (o di un'istituzione arbitrale) che deve
svolgersi all'estero (cioè fuori del territorio
ita-liano) sortirà l'effetto di escludere la giurisdi-zione dei giudici statali italiani sulla controversia nata dalla interpretazione o dall'esecuzione del contratto soltanto in due casi: quando i contraenti sono tutti cittadini stranieri; quando, essendovi uno o più contraenti cittadini italiani insieme a contraenti cittadini stranieri, gli italiani non ab-biano residenza o domicilio in Italia.
Ne consegue che i contratti intercorsi fra cit-tadini italiani e quelli conclusi fra uno o più cittadini stranieri ed un cittadino italiano resi-dente o domiciliato in Italia non possono con-durre — nonostante la clausola compromissoria in essi apposta (od eventualmente stipulata in tempo successivo alla conclusione del contratto) — all'esclusione della giurisdizione italiana. Le due ulteriori condizioni all'operatività della deroga — che questa risulti da « atto scritto » e che la controversia sia « relativa ad obbligazioni » — non generano difficoltà. L'atto scritto consiste normalmente nella clausola compromissoria in-clusa nel contratto originario che non necessita di nessuna particolare formulazione o modalità; potrà anche risultare da un formulario predispo-sto nella proposta di contratto accettata nella sua integrità dal contraente contrapposto.
Le obbligazioni contestate devolute all'arbi-trato sono di solito quelle occasionate diretta-mente o indirettadiretta-mente dall'esecuzione del con-tratto originario e per lo più vcrtiranno su pretesi inadempimenti, totali o parziali, delle parli.
Peraltro si è ritenuto necessario, ai fini dell'am-missibilità della deroga alla giurisdizione statale italiana, che il giudizio arbitrale « straniero », al quale i contraenti della convenzione arbitrale hanno fatto riferimento, sia un giudizio arbitrale « rituale » e non soltanto « irrituale ». Ciò si-gnifica che i contraenti della convenzione arbi-trale abbiano inteso investire gli arbitri « esteri » di una vera e propria funzione « giurisdizionale » richiedendo ad essi un lodo avente, nell'ordina-mento estero della pronuncia, gli effetti di « sen-tenza » e non soltanto quelli di una soluzione negoziale concordata, avente la più modesta effi-cacia di diritto materiale.
Questa condizione limita maggiormente l'effi-cacia preclusiva della convenzione arbitrale (o della clausola compromissoria apposta al tratto), giacché nella maggioranza dei casi i con-traenti, dichiarando di voler compromettere in arbitri pronunciami all'estero le loro eventuali controversie, non hanno inteso di attribuire ai detti arbitri la funzione arbitrale « giurisdizio-nale », in ipotesi regolata come tale nell'ordina-mento dello Stato estero della pronuncia, ma uni-camente il più speditivo compito di risolvere in via negoziale la contestazione incorsa. In conclu-sione nell'economia dell'art. 2 c.p.c. la giurisdi-zione statale italiana viene esclusa in favore di
arbitrati esteri soltanto quando concorrano queste
condizioni: 1) che la convenzione arbitrale ri-sulti da specifico scritto; 2) che concerna obbli-gazioni contestate fra le parti; 3) che la conven-zione arbitrale preveda un arbitrato da svolgersi all'estero (indipendentemente dalla nazionalità degli arbitri); 4) che il procedimento arbitrale « estero » debba essere regolato come vero e pro-prio processo giudiziario con sentenza arbitrale suscettibile di divenire esecutiva nell'ordinamento straniero di emanazione; 5) che i contraenti della convenzione arbitrale siano tutti cittadini stra-nieri o se uno di essi è cittadino italiano, non risieda e non abbia domicilio in Italia. L'operati-vità della deroga alla giurisdizione statale italiana risulta, pertanto, assai limitata e certamente non fatta per soddisfare le aspettative liberiste dei ceti industriali nell'ambito del commercio inter-nazionale.
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Un primo Accordo in materia di arbitrato « in-ternazionale » che ebbe notevole risonanza per la sua maggior liberalità fu il Protocollo di Ginevra del 24 settembre 1923, reso esecutivo in Italia
con la legge 8 marzo 1927, n. 783; esso ebbe larga applicazione in Italia anche dopo la codifi-cazione del 1940 (del cui art. 2 c.p.c. abbiamo testé trattato). In base a tale Trattato multilate-rale la giurisdizione statale italiana poteva venire esclusa quando le parti, che avevano stipulato una convenzione arbitrale scritta, risultavano
« soumises respectivement à la jurisdiction d'Etats contractants différents ».
Il termine « jurisdiction » nell'economia di questa disposizione diede luogo a contrasti dot-trinari e giurisprudenziali circa la sua esatta inter-pretazione, ma infine venne accolta come pacifica l'equiparazione del termine « giurisdizione » a quella di « sudditanza ». In conseguenza la deroga giurisdizionale veniva ammessa quando i contra-enti della convenzione arbitrale — in genere di una clausola compromissoria — fossero stati sud-diti di Stati contraenti del Trattato differenti; quindi la convenzione arbitrale aveva l'efficacia derogatoria anche se fosse stata conclusa da un cittadino italiano, residente o domiciliato in Ita-lia, con un cittadino straniero, purché questi ap-partenesse ad uno Stato contraente del Protocollo.
L'art. 4 del Protocollo stabiliva ancora che il giudice statale doveva astenersi dal giudicare la controversia soltanto se il compromesso — o la clausola compromissoria — fosse stato suscetti-bile di applicazione; detto giudice era nuovamen-te investito di giurisdizione se constatava che « il compromesso, la clausola compromissoria o l'ar-bitrato fossero divenuti caduchi o inoperanti ». Queste condizioni avevano fatto sostenere che il giudice italiano potesse ritenere la causa e non rinviare la lite all'arbitro estero quando — a suo giudizio — il compromesso arbitrale o il giudizio arbitrale non potessero efficacemente svolgersi nell'ordinamento dello Stato estero della pronun-cia. Questa valutazione, riferita ad una legisla-zione straniera, poteva, in concreto, limitare l'efficacia derogatoria delle convenzioni arbitrali. D'altra parte, poiché le norme del Protocollo di Ginevra non richiedevano che la sentenza arbi-trale straniera, voluta dalle parti, avesse nell'or-dinamento dello Stato della pronuncia l'efficacia di sentenza e vi desse luogo ad esecuzione giudi-ziaria, cosi la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza italiane aveva ammesso la deroga alla giurisdizione statale italiana anche quando le parti avevano voluto riferirsi ad un semplice « ar-bitrato irrituale ».
Indubbiamente il Protocollo di Ginevra del
1923 presentava, di già, in tema di arbitrato « estero », maggiore liberalità di quanto non di-sponesse l'art. 2 c.p.c., ma attualmente le sue disposizioni s o n a v a t e ampiamente superate da quelle assai più magnanime della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 di cui ora diremo. Occorre ricordare che secondo l'art. 7, par. 2, di questa Convenzione il succitato Protocollo di Ginevra del 1923 e la Convenzione di Ginevra del 1927 (questa relativa al riconoscimento delle sentenze arbitrali emanate secondo le norme del Protocollo) vengono esplicitamente abrogate fra gli Stati che risulteranno vincolati dalla Conven-zione di New York; poiché si accresce continua-mente il numero degli Stati che aderiscono a que-sta Convenzione, il Protocollo di Ginevra tende ad aver sempre minore applicazione.
Aggiungo che dopo la fine della seconda guer-ra mondiale l'Italia si è vincolata a due importanti Trattati bilaterali in materia di arbitrato; al Trat-tato di commercio e di navigazione con l'Unione Sovietica dell'11 dicembre 1948 (reso esecutivo con legge 24 luglio 1951, n. 1637), il cui art. 21 ammette la deroga giurisdizionale in favore delle clausole arbitrali su contratti commerciali con-clusi da cittadini od enti dei due Stati; all'Ac-cordo Integrativo del 26 settembre 1951 al Trat-tato di amicizia, commercio e navigazione del 2 febbraio 1948 con gli U.S.A. (reso esecutivo con legge 1° agosto 1960, n. 910), il cui art. 6 — no-nostante la sua formulazione poco chiara — am-mette ugualmente la deroga giurisdizionale in favore dei compromessi arbitrali in campo com-merciale intercorsi fra cittadini o enti dei due Stati.
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Ma — come si è detto — la Convenzione di New York del 10 giugno 1958 sul riconosci-mento e sull'esecuzione delle sentenze arbitrali « straniere » — che pone pure norme sulla deroga della giurisdizione statale in presenza di accordi arbitrali — ha profondamente innovato la situa-zione preesistente limitando notevolmente la pre-valenza della giurisdizione statale su quella ar-bitrale.
Il Parlamento italiano autorizzava il nostro governo ad aderire alla Convenzione di New York con legge 19 gennaio 1968, n. 62; il depo-sito della ratifica italiana avveniva il 31 gen-naio 1969 presso la Segreteria dell'O.N.U. e il
1° maggio 1969 la Convenzione entrava in vigore nel nostro ordinamento.
In base all'art. II, paragrafi 1, 2 e 3 della Con-venzione ogni Stato contraente della medesima — e quindi anche lo Stato italiano •—• deve decli-nare la propria giurisdizione ove sia intervenuta fra le parti una convenzione scritta — clausola compromissoria o compromesso — a mezzo della quale esse si siano obbligate a sottoporre ad arbi-trato tutte od alcune controversie insorgende da un rapporto di diritto determinato, contrattuale o non contrattuale, suscettibile di essere regolato a mezzo di arbitrato. Secondo la dottrina preva-lente l'incompetenza del giudice statuale deve essere pronunciata soltanto in presenza di un compromesso arbitrale che deve concludersi con un lodo pronunciato nel territorio di uno Stato
straniero e regolato, in via primaria, da un ordi-namento straniero (per lo più dall'ordiordi-namento
dello Stato della pronuncia).
Sulla base dell'art. II, par. 3 della Convenzione il giudice italiano, a domanda di una delle parti contendenti, deve constatare — prima di pronun-ciare la sua incompetenza a giudicare — se la convenzione di arbitrato, prodotta in giudizio, sia « caduca » o « inoperante » o « non suscettibile ad essere applicata ». Queste circostanze negative riflettono l'invalidità formale e sostanziale della convenzione arbitrale sulla base della legge estera che la regola, quali potrebbero essere l'inefficacia della detta convenzione per la non arbitrabilità della controversia o per decadenza dei termini o non avveramento di condizioni o per la mancata o insufficiente individuazione degli arbitri ecc.
Un punto discusso in dottrina è questo: se il giudice, richiesto di dichiarare la propria incom-petenza a giudicare, debba preventivamente ac-certare se la futura sentenza arbitrale straniera potrà venire riconosciuta nel suo ordinamento a richiesta della parte vincente; ove il giudice accertasse questa impossibilità potrebbe ritenere la controversia e disattendere la convenzione ar-bitrale disposta dalle parti. La prevalente dot-trina, ponendo in correlazione l'art. Il e l'art. IV della Convenzione, ha ritenuto di dover dare risposta affermativa al quesito; ne consegue che il giudice italiano adito dovrebbe accertare se, secondo la legge estera che regola la convenzione arbitrale, le parti contraenti sono « capaci » alla conclusione della medesima e se, sempre secondo detta legge, la convenzione deve considerarsi va-lida sia formalmente, sia sostanzialmente.
In base all'art. V, par. 2, il giudice adito dovrebbe ancora, prima di dichiarare la propria
incompetenza a giudicare, constatare due ele-menti: 1) se in base alla propria legge (lex fori) la materia della controversia è suscettibile di re-golamentazione arbitrale (in caso negativo riterrà la causa respingendo l'arbitrato); 2) se il lodo arbitrale estero, ove ne fosse richiesto il ricono-scimento, risulterebbe contrario, nel suo disposi-tivo, ai principi di ordine pubblico della lex fori.
Anche la Convenzione di New York richiede che la convenzione arbitrale — per essere effi-cace —• deve essere fatta per scritto, ammettendo però esplicitamente che essa possa risultare da uno scambio, fra le parti, di lettere o telegrammi; ammette pure che la sentenza arbitrale voluta dalle parti debba essere emessa da persone fìsiche determinate o — come ora per lo più avviene — da organi di arbitrato permanenti. Secondo la dottrina prevalente la convenzione arbitrale pro-duce l'effetto derogativo voluto dalle parti sia se