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Giuseppe Bonazzi

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1975 (pagine 49-54)

Si fa un gran parlare in questi tempi di crisi del taylorismo, dei nuovi modi di produrre, del « job enrichment », dei gruppi autonomi di la-voro, e cosi via. Nell'opinione dei più questa crisi è legata soprattutto al cosiddetto « rifiuto » operaio della vecchia organizzazione del lavoro, anche se non manca chi cerca di attirare l'atten-zione anche su altri fattori di crisi, come lo svi-luppo della tecnologia, le « perturbative » del mercato e la conseguente diminuita vita commer-ciale del prodotto, ecc.

In questo articolo cercheremo di approfondire le principali cause e fattori di crisi, e quali nuovi problemi si pongono nell'organizzazione del pro-cesso produttivo. Ma prima di far questo è neces-sario precisare che cosa si deve effettivamente in-tendere per taylorismo, qual è stata la sua forza per oltre settant'anni e quali sono oggi i suoi limiti. Questo discorso non vuole essere una pura ricognizione accademica, ma vuole fornire anche alcune ipotesi di interpretazione della realtà, e dei problemi di oggi. Ad esempio, una domanda può sorgere spontanea: oggi, con la crisi econo-mica e produttiva in atto, le dispute sulla crisi del taylorismo possono essere almeno momentanea-mente accantonate, oppure i problemi da cui sca-turiscono continuano a premere e condizioneran-no, a seconda della soluzione data, anche le future prospettive di ripresa? È chiaro che se si dimo-strasse vera la seconda ipotesi, la crisi economica attuale, lungi dall'essere un motivo per ritardare le innovazioni, deve tramutarsi in uno stimolo ulteriore per affrettare le innovazioni e concor-rere cosi alla ripresa produttiva.

L'immagine più comune del taylorismo sono le lunghe catene di lavoro a cui gli operai sono ad-detti con mansioni monotone, impoverite di con-tenuto, altamente parcellizzate e controllate dal-l'alto. Charlot, l'omino dei Tempi Moderni è diventato in certo modo il simbolo grottesco e patetico di questo m o d o di produrre. Ma il

tay-lorismo è soltanto questo? oppure le lunghe linee di produzione non sono che la punta di un iceberg molto più grande, e cioè di un'intera struttura organizzativa che ritroviamo a diversi livelli lun-go tutto lo spaccato verticale della fabbrica? Ed ancora: in che misura possiamo dire di avere effettivamente superato il taylorismo, se ci limi-tiamo a rendere più flessibili le catene ed al limite ad eliminarle, magari con le « isole »?

Per rispondere a queste domande dobbiamo tenere presente quali furono le condizioni stori-che in cui nacque e si affermò il taylorismo, pri-ma in America, e poi in tutto il mondo industria-lizzato (compresa, per non pochi aspetti, la stessa Unione Sovietica). In linea generale si può ri-spondere che tali condizioni ci appaiono oggi fondamentalmente le seguenti:

a) la relativa stabilità e controllabilità delle

cosiddette variabili « strategiche » interne ed esterne al sistema aziendale: mercato, tecnologia e processi produttivi, forza-lavoro, ecc.;

b) la produzione in larga serie di beni di-screti (cioè separati l'uno dall'altro come l'auto, e

non fluidi o continui come la maggior parte delle produzioni chimiche), con una tecnologia preva-lente corrispondente alla fase di meccanizzazione spinta e con un costo del lavoro generalmente non inferiore al 2 5 - 3 0 % del costo totale.

In termini più discorsivi si può dire che il taylorismo sia un modello organizzativo partico-larmente adatto q u a n d o l'impresa si trova ad agire in un contesto esterno non troppo turbato e che non impone continui processi di riadatta-mento ai suoi mutamenti. La tecnologia è relati-vamente stabilizzala, il mercato è tendenzialmente ricettivo, la manodopera è in genere poco quali-ficata ma docile e disponibile alle esigenze pro-duttive dell'impresa (generalmente di larga estrazione contadina, e ancora priva quindi di

« cultura » industriale e di « coscienza di clas-se »). In questo quadro l'unica variabile su cui è necessario esercitare un controllo attivo e co-stante è quella della concorrenza. Questo trollo (e intervento) si esercita mediante la con-tinua ricerca di razionalizzazioni produttive che consentano una progressiva compressione dei costi di produzione (non solo di manodopera quindi, ma anche di stoccaggio, movimentazione interna, distribuzione, economie di scala, ecc.).

Di fronte ad una situazione cosi descritta si delinea un grappolo di risposte organizzative che definiscono appunto la specificità storica e ideale del taylorismo:

1) la meticolosa programmazione delle atti-vità produttive, con la massima estensione dei ruoli di routine, la standardizzazione delle proce-dure, la conseguente scarsa elasticità dell'intero sistema aziendale perché viene predisposto per l'ipotesi di regimi produttivi a economia di scala, prolungati e non disturbati.

2) L'importanza cruciale della funzione produttiva nel sistema aziendale rispetto alle al-tre funzioni, come ad esempio quella di vendita e di ricerca e sviluppo.

3) L'organizzazione del lavoro caratteriz-zata dalla sistematica subordinazione della com-ponente sociale (cioè la manodopera e le sue esi-genze) alla componente tecnica del sistema azien-dale (cioè le esigenze produttive nel senso più lato).

Queste caratteristiche possono considerarsi come le premesse per cosi dire meno visibili di quei ben più noti aspetti del taylorismo a cui accennavamo in precedenza e su cui si è soprat-tutto concentrata la protesta sindacale: la rigida divisione gerarchica e funzionale tra l'ideazione, la progettazione e l'esecuzione del lavoro, e di conseguenza la dequalificazione di massa a livello operaio e la frantumazione delle mansioni.

Non va infine trascurato un altro aspetto im-portante del taylorismo, e cioè il cosiddetto po-stulato dell'otte best way, ossia dell'assunzione aprioristica che per ogni problema esiste sempre una ed una sola soluzione ottimale, e che pertanto questa è l'unica soluzione scientifica e quindi

neutrale a cui tutte le componenti sociali

del-l'azienda sono tenute a sottomettersi. Il presup-posto di origine positivistica e ottocentesca che la vera scienza è sempre per definizione neutrale,

cioè al di sopra delle parti, è un aspetto implicito ma importantissimo nella « filosofia » tayloristica dell'azienda e in genere di tutta la società

in-dustriale. w

Date le condizioni storiche dell'industria a cavallo tra il secolo XIX e XX, e date le caratte-ristiche sopra delineate del taylorismo, non ci si può stupire del fatto che esso rappresentò per lun-go tempo la soluzione ideale (dal punto di vista manageriale) dei problemi produttivi delle azien-de, e quindi dell'immensa fortuna che questo nuovo modo « scientifico » di organizzare il lavoro trovò in tutti i paesi industrialmente avanzati. Ma proprio in questa grande diffusione germinarono anche le critiche e le proteste. Oggi, a circa set-tant'anni dal sorgere del taylorismo, possiamo porre un certo ordine nella massa delle critiche che gli furono rivolte. C'è un primo ordine di critiche che potremmo definire « interno » alla logica tayloristica e che riguarda una serie di lacune tecniche superabili in base alle cono-scenze ergonomiche, psico-sociologiche, organiz-zative, ecc. E c'è poi un secondo ordine di cri-tiche, « esterne » al taylorismo, nel senso che mettono in risalto la sua inadeguatezza strate-gica come formula organizzativa che pretende una validità universale.

Il primo ordine di critiche è il più antico, e risale fino ai tempi in cui comparve la cosiddetta scuola delle Relazioni Umane (anni '30). Il prin-cipale argomento di queste critiche è l'insufficien-za dell'ipotesi tayloristica che l'operaio possa essere motivato ad eseguire un lavoro monotono, stupido e stressante, unicamente per motivazioni economiche. Viene pertanto raccomandato di crea-re un ambiente sociale « confortevole », e di soddisfare i cosiddetti fattori psicologici che renderebbero sovente « irrazionali » (agli occhi dell'azienda) i comportamenti operai. In realtà queste critiche non si proposero il reale supera-mento del taylorismo, ma semplicemente il per-fezionamento di quello schema organizzativo con alcuni meccanismi di « integrazione » psicologica e sociale dei dipendenti. Tutto il resto, cioè i modi di produrre, la crescita professionale dei dipen-denti, la loro soddisfazione sul lavoro, e soprat-tutto il potere di decidere sono problemi che non vennero neanche sfiorati.

Bisogna attendere la fine degli anni '50 e l'ini-zio dei '60 perché comincino a svilupparsi cri-tiche più radicali, dirette ad un effettivo supera-mento del taylorismo. Ma anche su questo punto

è necessario fare un'accurata distinzione fra due tendenze. C'è una tendenza nata soprattutto negli USA e rappresentata da autori come Herzberg, Maslox, Me. Gregor, che potremmo definire psi-cologistica e motivazionale. Il problema affron-tato da questa corrente è il cosiddetto rifiuto e disaffezione operaia verso il lavoro industriale, che si veniva manifestando in quegli anni con tassi crescenti di assenteismo e di turnover. La so-luzione del problema viene vista in una totale riprogettazione del lavoro, in modo da creare atti-vità creative, responsabili, ricche di soddisfazioni interiori per chi le esegue. In questa teoria c'è il riconoscimento che non solo il taylorismo ma an-che le Relazioni Umane sono una formula insuf-ficiente per soddisfare le nuove esigenze operaie. Le Relazioni Umane si limitavano infatti al ten-tativo di rendere più sopportabile un lavoro che restava privo di senso, mentre i nuovi teorici so-stengono la necessità di ristrutturare il contenuto intrinseco del lavoro. Le varie formule di « rota-zione », « allargamento » e « arricchimento » de! lavoro trovano in questa teoria la loro prima giu-stificazione concettuale.

Le teorie motivazionali restano tuttavia ancora legate ad una visione individualistica e psicolo-gica del rapporto tra uomo e lavoro. La seconda corrente di superamento del taylorismo, critica implicitamente anche le teorie motivazionali, per-ché afferma che è illusorio credere di risolvere i problemi legati alla crisi del taylorismo solo in termini di aumento delle motivazioni a lavorare. I problemi e le loro cause sono enormemente più complessi di quanto riconosciuto dai « motivazio-nalisti » americani.

In primo luogo il « rifiuto » operaio non è dato soltanto da un calo di motivazioni nel fare un lavoro privo di senso, ma ha anche una dimen-sione « politica » e collettiva. Se assenteismo e turnover sono le risposte individuali e prepoliti-che prepoliti-che si impongono poi come « fatto sociale » collettivo, le agitazioni sindacali sono l'espressio-ne organizzata e cosciente di un rifiuto che si carica di rivendicazioni di potere. Agli operai non basta avere solo un lavoro più motivante in termini psicologici, essi richiedono anche di avere più voce in capitolo nelle decisioni aziendali. Di fronte a questa richiesta le teorie di Herzberg, Maslow, ecc. non forniscono alle direzioni azien-dali nessun aiuto, anzi rischiano di essere contro-producenti perché diventa facile agli operai ed

alle loro organizzazioni demistificarne il conte-nuto manipolatorio.

Ma non e soltanto la protesta operaia organiz-zata ad imporre una revisione radicale delle for-mule tradizionali di produzione. Se accettiamo l'analisi fatta all'inizio dei motivi storici che han-no favorito la fortuna passata del taylorismo, dob-biamo riconoscere che anche il mutare di fattori strutturali come la tecnologia e il mercato hanno il loro peso nel richiedere un nuovo modo di pro-durre e di organizzare l'intera azienda.

Questo nuovo modo non potrà essere che carat-terizzato da maggiore flessibilità, decentramento e autonomia ai livelli di base, contro la rigidità, l'accentramento e la passiva subordinazione im-plicate dal vecchio assetto tayloristico. La dimo-strazione è presto fatta: come si è visto prima l'azienda tayloristica si trovava ad agire in un contesto relativamente stabile e controllabile. Gli eventi che potevano interessare l'impresa erano statisticamente prevedibili, e quindi diventava possibile una programmazione rigida, minuziosa e di lungo periodo di tutte le attività aziendali. Questa programmazione si accompagnava ad una minimizzazione dei margini di discrezionalità non solo nei lavori esecutivi, ma anche nei compiti tecnici. Tale minimizzazione si raggiungeva in due modi: attraverso la fissazione di precisi con-fini ai ruoli subordinati, e attraverso la standar-dizzazione delle procedure previste per l'esecu-zione dei compiti, anche a livello tecnico e im-piegatizio. Si cercava innanzitutto di ridurre la rosa delle possibilità attraverso una rigorosa pre-determinazione dei casi (e ciò, come si è visto, era reso possibile dalla relativa « tranquillità » del contesto tecnico, commerciale e, sociale in cui operava l'impresa). Si fornivano quindi indica-zioni dettagliate sui criteri di scelta a cui atte-nersi a seconda delle varie situazioni che si pre-sentavano. In tal modo la realtà veniva ridotta ad una sorta di casistica, e le scelte umane dei subordinali tendevano a svuotarsi di ogni conte-nuto discrezionale, in quanto ridotte ad una sorta di schema stimolo-risposta. (Stiamo ovviamente parlando in modo molto schematico, dato che eccezioni si presentavano sempre, ma anche in questo caso, si prevedeva di passarle il più possi-bile ai livelli gerarchici superiori).

Oggi una programmazione simile non è più materialmente possibile. I crescenti ritmi di obso-lescenza tecnologica, l'alta sofisticazione non solo delle macchine, ma anche di tutti gli apparati

informativi e amministrativi, la sempre più breve vita commerciale del prodotto, le crescenti inter-relazioni con il mondo intero (abbiamo visto che conseguenze provoca ad esempio una semplice riunione di « sceicchi » nel fissare il prezzo del petrolio...) concorrono a configurare un ambiente che i sociologi dell'organizzazione non esitano a definire « turbolento », anche a prescindere dai comportamenti conflittuali della manodopera.

Tutti questi fatti non possono non avere pro-fonde ripercussioni sull'organizzazione aziendale. La programmazione, che una volta era rigida, deve diventare flessibile e aperta ad ogni corre-zione retroattiva che le mutate condizioni am-bientali impongono. In questo quadro anche i ruoli intermedi e subalterni si trovano sempre più spesso a dover decidere su una gamma più ampia, complessa e imprevedibile di variabili. Ciò avviene sia nelle officine che negli uffici. In officine le oramai famose « isole » di montaggio sono diventate il simbolo più noto di questo ade-guamento. La vecchia linea tradizionale era ri-gida e adatta alla lavorazione su lungo periodo di un solo prodotto. Quando invece il mercato impone un largo mix di prodotti di piccola o media serie, l'unica soluzione produttiva è quella di articolare l'officina in tante isole autonome, e di responsabilizzare squadre di operai dotati di una professionalità e di un margine di intervento discrezionale nel processo produttivo incompara-bilmente superiore che nel passato. A loro volta, anche i ruoli tradizionali dei capioperai (a livello di squadra, reparto, fino all'intero stabilimento) vanno ridefiniti profondamente. Da « sergenti » che intervengono autoritariamente in ogni atto della produzione devono trasformarsi in una sor-ta di animatori e coordinatori che si limisor-tano a sorvegliare dall'esterno la normalità del flusso, e a intervenire secondo il cosiddetto « principio di eccezione » solo in caso di inconvenienti la cui soluzione trascende il gruppo autonomo. Tutto il resto del loro tempo, liberato dal controllo della routine, dovrà essere impiegato in lavori che una volta erano tipici delle staff, ossia nello studio di miglioramenti tecnici, in riunioni di coordina-mento tra i vari reparti, ecc.

A livello impiegatizio e manageriale questo profondo ripensamento della struttura e del fun-zionamento aziendale si traduce principalmente nella cosiddetta « direzione per obbiettivi », os-sia in una responsabilizzazione diretta e a termine su alcuni scopi concreti da raggiungere, con

de-terminate risorse assegnate. La valutazione del personale sarà fatta in funzione del grado di rag-giungimento degli obbiettivi, e non più in fun-zione del grado di « conformità » alle norme aziendali, comeTrisegnava la scuola classica di origine weberiana (e per molti aspetti anche tay-loristica) e come purtroppo ancora avviene nella burocrazia statale. La direzione per obbiettivi ha anche, sul piano organizzativo, l'effetto di scom-pigliare le divisioni e le gerarchie tradizionali. Si creano delle vere e proprie task forces (per usare un linguaggio militare) dalla durata delimi-tata nel tempo e a cui vengono affidate incom-benze particolari che le strutture tradizionali non sarebbero in grado di svolgere, oppure che svol-gerebbero a costi enormemente più alti.

Da tutti questi mutamenti possiamo trarre al-cune considerazioni molto importanti. Innanzi-tutto risulta in modo incontestabile che le inno-vazioni organizzative rispondono a diversi ordini di esigenze aziendali: tecnologiche, di mercato e di manodopera. Il problema della maggiore sod-disfazione lavorativa dei dipendenti è anche pre-sente, ma in funzione secondaria e subordinata. Una realistica valutazione dei fatti ci porta a ritenere che un'organizzazione non-tayloristica del lavoro provoca non già un minore assenteismo, ma una maggiore capacità per l'azienda di assor-bire i danni di un uguale tasso di assenteismo.

Inoltre la priorità dei fattori « strutturali » nello spiegare la necessità delle innovazioni orga-nizzative, non disconosce la forte carica « poli-tica » che su questi problemi è venuta addensan-dosi a causa delle lotte operaie degli ultimi anni. Le richieste di una organizzazione « più umana » della produzione, dei miglioramenti ambientali, della lotta alla nocività, di una crescita profes-sionale, ed in genere di una maggiore capacità di decidere riflettono una crescita sociale, cultu-rale e politica che era sconosciuta una o due ge-nerazioni or sono. In questo senso si può dire che esiste una tendenziale e oggettiva convergenza di interessi da parte sia del capitale che della forza lavoro verso un superamento dei vecchi moduli organizzativi. Questa tendenziale convergenza non deve però suscitare l'ingenua illusione che basti avviarsi verso il superamento del taylorismo per porre le basi di un « consenso » industriale. Al contrario, è probabile che, una volta liberato il campo del contendere da motivi che provoca-vano lotte ormai di retroguardia, il fronte delle

rivendicazioni operaie divenga ancora più avan-zato. Ma ciò non significa in alcun modo la « fine » dell'azienda, se questa avrà nel contempo sviluppato strumenti, assetti organizzativi, quadri direttivi e progetti tali da poter adeguatamente rispondere alle sempre nuove sfide operaie. Non si tratta del resto di una cosa nuova, dato che tutta la storia della società industriale è contras-segnata da strappi che al momento appaiono irri-mediabili e che poi, una volta riassorbiti, rivelano la loro funzionalità per il progresso economico, sociale e culturale dell'intera società.

Un'ultima considerazione riguarda i dubbi pro-babilmente sorti in più di un lettore sull'attualità delle cose che siamo andati dicendo in un mo-mento di crisi economica come quello presente. È noto che molte cose sono andate bruscamente cambiando rispetto al quadro prevalente fino al-l'anno scorso. Per la paura della disoccupazione, assenteismo e turnover oggi sono scesi nelle fabbriche a livelli che ricordano gli anni '50, e la maggiore richiesta sindacale oggi non è il

mi-glioramento delle condizioni di lavoro, ma la difesa pura e semplice dei livelli occupazionali. Ma se è vero quanto si diceva prima, e cioè che le spinte per le innovazioni provengono da fattori strutturali, come la tecnologia e il mercato in misura certo non minore alle richieste operaie, è giocoforza concludere che un'imprenditorialità orientata al futuro non può permettersi il lusso di accantonare gli appuntamenti con l'innova-zione dicendo che « queste sono cose per i mo-menti di boom, non per quelli di crisi ». In primo luogo riorganizzare in modo da aumentare al mas-simo la flessibilità interna dell'azienda significa contribuire a porla nelle condizioni migliori per uscire dalla crisi (massime capacità di riconver-sione, produzione a costi convenienti di un ele-vato mix di piccoli stocks, ecc.). In secondo luogo, riorganizzare durante la crisi significa pre-parare in anticipo condizioni tali che quando la crisi sarà superata, diventerà enormemente più agevole gestire la nuova conflittualità che inevi-tabilmente si determinerà tra capitale e lavoro.

Verso un codice internazionale di regolamentazione

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1975 (pagine 49-54)