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Alfredo Salvo

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1974 (pagine 70-74)

È la domanda che, tra le altre, ha fatto sorgere le maggiori perplessità, i più confusi equivoci al-l'avvio del nuovo ente montano: quale tipo di strumento urbanistico sta dietro l'ormai famoso articolo 7 della legge 1102? (').

A quale livello di pianificazione si deve collo-care l'attività comunitaria?

Come interpretare le norme espresse dalla legi-slazione urbanistica ai fini della gestione pro-grammata delle Comunità Montane?

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Nel testo dell'articolo si fa, genericamente, riferimento a « piani urbanistici »; nel titolo si parla di « piani di sviluppo urbanistico ».

Il termine « sviluppo » è quello che caratte-rizza tutta la legge.

Già nei propositi, si esprime l'intenzione di « concorrere... alla eliminazione degli squili-brii »... tra le zone montane e il resto del terri-torio nazionale, alla difesa del suolo e alla pro-tezione della natura... (realizzando) gli interventi suddetti attraverso piani zonali di sviluppo...»(2). È importante notare subito l'originalità della dizione. Nella legge urbanistica del 1942, dalla quale deriva l'attuale ordinamento, si esprime la volontà che le norme tendano ali'« assetto e all'in-cremento edilizio nei centri abitati e allo sviluppo urbanistico in genere » e si mira a « favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all'urba-nesimo » (3). Cioè, l'evoluzione dell'organizzazio-ne collettiva è vista unicamente sotto l'aspetto edilizio, viene confusa — con tragiche conse-guenze — l'attività edilizia con lo sviluppo urba-nistico. E infatti, nella sua applicazione, è stata la licenza edilizia ad assumere gradualmente l'im-portanza che dovevano avere altre linee program-matiche, come vedremo. Poi, la disciplina è arti-colata in modo da prendere iniziative unicamente di tipo vincolistico e rigidamente numeriche;

az-zonamenti, limiti di densità e di altezza, prescri-zioni di inedificabilità, hanno intessuto una rete di norme, in una certa misura « passive », entro le quali l'intervento, privato o pubblico, deve cer-care e trovare la sua giusta collocazione: è fatto

obbligo all'ente pubblico di prevedere standards

per le pubbliche attrezzature, è fatto obbligo ai privati di attenersi alle prescrizioni inerenti ad ogni singola zona... la stessa evoluzione urbana è vista come « espansione », in termini cioè

quanti-tativi, e non come « sviluppo » qualitativo.

Il termine « sviluppo » è quindi di nuova acce-zione, nella terminologia legislativa urbanistica italiana.

È sufficiente però dare uno sguardo alle espe-rienze straniere per notare come si tratti di un tentativo di equiparare i nostri indirizzi alla ma-turazione avvenuta negli altri Paesi. Tranne pochi esempi le legislazioni urbanistiche europee sono state tutte aggiornate negli anni '60.

Già nel 1961 in Polonia si varava la legge sulla pianificazione territoriale con lo scopo di « assi-curare l'ordinato, corretto sviluppo dei singoli territori... » (4). Era già un passo avanti rispetto al nostro obiettivo del « disurbanamento ».

Il concetto veniva poi definitivamente ribadito dalla legislazione inglese che, nel 1962 (5), defi-nisce ciò che dal 1947 veniva affinandosi in quel-l'ordinamento: la pianificazione del territorio an-ziché rifarsi ai vecchi « planning schemes », deve

(1) Legge 3 dicembre 1971, n. 1102, art. 7: Piani di sviluppo urbanistico. — La Comunità Montana, in armonia con le linee di programmazione e con le norme urbanistiche stabilite dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano, per la regione Trentino-Alto Adige, può redigere piani urbanistici, di cui si dovrà tener conto nella redazione dei piani generali di bonifica, dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione che i Comuni sono tenuti ad adottare.

(2) Legge n. 1102. art. 2.

(3) Legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 1.

C) Polonia, Legge sulla pianificazione territoriale. 13 gen-naio 1961.

avvenire attraverso i « development plans » i

piani di sviluppo (6).

Il fatto che il legislatore italiano abbia deciso di affidare ad un piano di sviluppo economico-sociale il futuro delle Comunità Montane è da vedersi, quindi come un timido tentativo di svecchiare l'ottica legislativa in materia urbanistica, un ten-tativo di aggirare l'ostacolo della vecchia legge del '42, « vincolante » e non « propositiva ». Ma, come s'è visto, l'esperienza straniera ha verificato il nuovo modo di pensare la programmazione ter-ritoriale direttamente nell'ambito suo proprio, quello urbanistico. Prescrizioni e programmi han-no avuto il logico ed immediato riscontro in indi-cazioni cartografiche e normative, come garanzia che gli obiettivi individuati possano effettiva-mente essere raggiunti, in termini spaziali.

Per gli inglesi proporre un « piano di svilup-po » significa stendere un piano-programma in senso strettamente e modernamente urbanistico, un piano che, oltre alle indicazioni generali utili a trasformare socialmente ed economicamente una zona, offre le varie normative entro cui si troverà modo di chiedere un « development or-der », un « permesso di sviluppo », per poter edificare. Dalle indicazioni più generali si passa, quindi — nello stesso strumento — alle più mi-nute (quelle che noi definiremmo « da licenza edilizia ») in modo che le seconde non possano disattendere le prime. In una parola, si tratta di un piano urbanistico-economico-sociale.

Se per la legge sulla montagna si è voluto mantenere distinti i due aspetti, ciò è dovuto al-l'estrema indisponibilità della nostra legislazione urbanistica a piegarsi a nuovi modi di pianificare. Nessuna norma o prescrizione dal '42 in poi con-sente di uscire da valutazioni ed obblighi di tipo quantitativo, numeriche e rigide, per avvicinarsi a vere linee di sviluppo che debbono necessaria-mente essere di tipo qualitativo, elastiche e modi-ficabili, se pur sorrette da adeguati vincoli di garanzia.

Quindi, da un lato un piano di sviluppo socio-economico, dall'altro un piano di sviluppo urba-nistico ben distinti.

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La pianificazione urbanistica in ftalia, artico-lata in piani generali e in piani particolareggiati, avviene attualmente su base esclusivamente co-munale.

In realtà la legge del 1942 aveva previsto una programmazione di ben più ampio respiro; il legi-slatore aveva inteso estendere e coordinare la di-sciplina su tutto il territorio nazionale attraverso una ben precisa gerarchia di strumenti pianifica-tori: dai piani territoriali di coordinamento e dai piani intercomunali dovevano venire indicazioni per stendere i programmi delle singole ammini-strazioni, a cui si chiedeva di attuare i piani rego-latori generali comunali attraverso più specifici e dettagliati piani particolareggiati.

Questo meccanismo di competenze stratificate è l'aspetto più significativo della legge ed è ciò che più la fece apprezzare, a quei tempi. Le diverse scale dimensionali in cui ricercare le soluzioni ai problemi urbanistici trovavano (o avrebbero do-vuto trovare) la logica collocazione in un preciso tipo di strumento urbanistico per precise com-petenze.

In sede di commento della legge, allora, si disse che « la formazione dei piani regolatori re-gionali, dei piani regolatori generali per il terri-torio di ogni comune e dei piani particolareggiati, assicura che lo sviluppo delle varie attività inte-ressanti i singoli aggregati urbani e i territori connessi sarà studiato con quella visione d'insie-me non ancora raggiunta (7).

Vediamo subito come si siano individuate nei comuni e nelle regioni le dimensioni territoriali entro cui cercare le linee operative per la pro-grammazione urbanistica. Al comune spetta la disciplina entro i propri confini con direttive ge-nerali (Piano Regolatore Generale) e particolari (Pi ani Particolareggiati); al consorzio di comuni, nel cui ambito ciascun comune mantiene la pro-pria sovranità, sul genere del comprensorio o del-l'area metropolitana, spetta una disciplina « con-cordata » (Piano Intercomunale); all'ente sovrac-comunale, nel cui ambito la sovranità comunale e secondaria rispetto a quella dell'insieme, sul ge-nere che — allora, nel 1942 — era esemplifica-bile unicamente dalle regioni, spetta una disci-plina di maggior respiro (Piano Territoriale di Coordinamento), a cui devono adeguarsi i Piani comunali e gli Intercomunali.

Queste differenziazioni e queste diverse com-(<>) D'altra parie già gli indirizzi dei vari CRPE e degli orga-nismi lerriloriali italiani, Ira il '60 e '70, erano improntati se-condo i modi dei piani di sviluppo e pertanto il termine, se non nella fraseologia legislativa, era entrato anche in Italia almeno nella consuetudine.

(?) Relazione Cozza, dal « Resoconto delle discussioni parla-mentari del Senato del Regno», 21 luglio 1942.

petenze sono da tener presenti anche a proposito delle Comunità Montane.

Come ricorda il Piazzoni (8), l'articolo 7, nella sua stesura originale, prima dell'esame al Parla-mento, consentiva alla C. M. la redazione di un

Piano Intercomunale.

Era una evidente ricaduta, rispetto al tentativo di ammodernamento con la proposizione di « svi-luppo », nella vecchia legge del '42 dalla quale veniva appunto — pari pari — la dizione del-l'Intercomunale. Le tante esperienze negative di questo tipo di strumento, l'incoerenza tra il ri-chiesto sviluppo socio-economico, prescrizione moderna ed il linea con i tempi, e la vecchiezza di un Piano ancora una volta rigido e di difficile applicazione, furono certo motivi validi per le critiche alla proposta della Commissione: ma l'er-rore sarebbe stato grave anche, e soprattutto, in quanto l'« ente Comunità Montana » avrebbe senza dubbio dovuto avere in competenza un piano di maggior respiro che non un Interco-munale.

Per questi motivi, alla Camera l'articolo venne trasformato: si chiese che la C. M. potesse redi-gere un « piano di sviluppo urbanistico » che ri-flettesse « ... le linee di programmazione stabilite dalle regioni... ». Un piano di sviluppo urbani-stico accanto al piano di sviluppo socio-econo-mico, quindi.

Rimesso nei binari della logica, il proposito, però, entrò subito in crisi: ci si accorse che la legislazione urbanistica italiana non conteneva alcuna disciplina per « piani di sviluppo ». Dai piani di coordinamento agli intercomunali, dai comunali ai particolareggiati la legge non usciva e non ammetteva alcuno spiraglio per altri tipi di strumento. La precisazione presupponeva una normativa che mancava, che evidentemente non si voleva (o poteva) definire nell'occasione; d'altra parte si poneva un altro problema, quello della legittimità. Quand'anche si fossero definite le ca-ratteristiche del nuovo tipo di piano, aveva la C. M. veste per redigerlo? La sua individuazione come « ente di diritto pubblico » (9) era sufficien-temente fumosa ed incompleta per lasciar adito a perplessità quando si fosse voluto attribuirle le capacità programmatone di un « ente territo-riale » o .

Si doveva confermare esplicitamente questa competenza. Al Senato si intervenne nuovamente: si tolse la dizione « di sviluppo », che non trovava riscontro nella legislazione vigente e che avrebbe

creato difficoltà applicative e si affermò che « ... la Comunità Mòrifana può redigere... piani urbani-stici ».

Il « può » è quindi da intendersi come affer-mazione di principio e non in senso possibilista: voglio dire che, a mio avviso, l'interpretazione da dare alla norma non è: la C. M. è libera di fare o non fare piani-programma di tipo urbanistico ("), bensì: la C. M. è un ente con capacità di program-mazione urbanistica.

Ad avvalorare la mia tesi sta il plurale adot-tato: si parla di « piani urbanistici », in senso lato, quindi di competenza ad esprimersi in ma-teria.

Ora, da qui a stabilire quale potrebbe essere il tipo di piano della C. M. il passo è breve: in realtà si tratta di stabilire fin dove può giungere la competenza programmatoria; perché nell'affer-mare che essa è in potere di redigere piani urba-nistici si concede implicitamente che ad essa com-petono tutti i piani connessi ad una entità del suo rango.

La C. M. è più di un consorzio di comuni, è un ente sovraccomunale: in essa la sovranità del singolo è subordinata a quella dell'insieme (12). Ne risulta che la competenza sua è di redigere piani fino ad un livello assimilabile al Piano ter-ritoriale di coordinamento.

* * *

Dire che il Piano territoriale per le C. M. è assimilabile al Piano territoriale di coordinamento della legge del '42, significa che per esso valgono le stesse indicazioni di quello e che si colloca nella normativa vigente al suo fianco, pur potendo essere compilato da un ente diverso dalla regione, appunto la C. M.

La proposta consente un'altra serie di conside-razioni: come si sa il Piano territoriale di coor-dinamento non ha mai avuto un regolamento di esecuzione (13), di esse non si fa mai riferimento in circolari ministeriali in via istruttiva e defini-trice. Proprio questa sua lacunosità gli affida quel potenziale innovativo richiesto dalla legge 1102; se quasi tutto dev'essere ancora detto a questo (8) G. PIAZZONI: Economia Montana. Patron, Bologna, 1974. (9) Legge 1102, art. 4.

(10) La Costituzione definisce « enti territoriali » Comuni, Pro-vince, Regioni.

•(l'I Come del resto io stesso avevo interpretato in prima ap-prossimazione (vedi Cronache Economiche n. 3-4. 1974).

(12) Legge 1102, art. 3, comma 4.

livello di pianificazione, è giusto pensare che le proposte vengano dal basso, in un ambito di spe-rimentazione immediata.

Quando la Regione arriverà ad approvare un piano di questo tipo, ne farà propria l'esperienza e saprà bene utilizzarla per i propri compiti pro-grammatori. Perché, non si dimentichi, spetterà alla Regione di esprimersi per dare un volto ine-quivocabile a quello che dovrà essere il « piano urbanistico di sviluppo »; un piano su cui impo-stare le basi per la tanto attesa riforma urbani-stica, a cui chiedere non già soltanto una mera disciplina edificatoria, bensì una accorta ed ela-stica programmazione in via evolutiva del pro-cesso di trasformazione del territorio, un piano che non si limiti a tendere al « disurbanamento » ma arrivi ad ipotizzare un diverso equilibrio tra città e territorio, con il recupero e la riqualifica-zione economica e sociale del secondo nei con-fronti della prima.

Dei tre propositi (eliminazione degli squilibri di natura economica e sociale, difesa del suolo e protezione della natura) espressi (14) dalla legge, non v'è dubbio che gli ultimi due sono di stretta competenza urbanistica.

Nel « programma di tutela ambientale » che il piano dovrebbe avere, suolo e natura andranno intesi con un'accezione la più vasta possibile, consentendo di pianificare gli interventi per quan-to concerne:

a) i servizi antinquinamento (progetti di

in-ceneritori di rifiuti, impianti fognanti a scala intercomunale, ecc.);

b) i servizi in difesa della flora e della

fau-na (centri di ricerca, unità veterifau-narie e botaniche, bacini di ripopolamento e forestazione, ecc.);

c) i servizi per la tutela del patrimonio zootecnico e agricolo (stalle e cantine sociali, fat-torie modello, ecc.);

d) i servizi di recupero del paesaggio

natu-rale come bene collettivo (e non ad esclusivo uso del « ceto automobilistico »: impianti di risalita pubblici gestiti dalla Comunità, « pedonalizza-zione » delle pendici con luoghi di sosta e ri-storo, ecc.);

e) il servizio di recupero e di tutela dei

cen-tri storici e dei percorsi di frequenza per le loca-lità più usuali (con l'analisi delle matrici culturali per gli uni e con l'analisi dei valori ambientali per gli altri);

/) il recupero o la proposta di una tipologia architettonica autonoma e significante (assunzione di un Regolamento edilizio uniformato per tutti i comuni della Comunità, centri di addestramento professionale specializzati in edilizia, cantieri-modello, ecc.); oltre ai consueti interventi di bo-nifica e di ingegneria.

Già da questi punti si vede quanto le ipotesi di assetto urbanistico siano strettamente connesse a incidenze sul tessuto sociale; a maggior ragione per quanto previsto nel primo proposito di legge (eliminazione degli squilibri) le competenze si sfumano e si intersecano: una volta di più la distinzione tra i due piani perde di significato.

Già la 765 (1S) era intervenuta a disciplinare le incidenze sociali di un intervento edilizio.

Definendo « qualsiasi utilizzazione del suolo che... preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo resi-denziale, turistico o industriale... » come

lottiz-zazione, essa chiede che l'autorizzazione a questo

tipo di intervento sia subordinata all'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri di urbanizza-zione primaria e secondaria.

Ora, se per la primaria si può pensare che possa continuare a valere anche per la montagna la definizione composita di: strade, spazi di sosta e parcheggio, fognatura, rete idrica, rete di distri-buzione di energia elettrica e la pubblica illu-minazione, per la secondaria, la definizione si potrà certo ampliare fino ad ammettere la previ-sione (oltre alle scuole, chiese, centri sociali, am-bulatori, mercati, ecc.) di quelle stalle sociali, ricoveri in alpeggio, centri di trasformazione co-munitari di prodotti agricoli, che il piano di svi-luppo potrà prevedere.

Accanto ai centri turistici residenziali, agli insediamenti turistici, contro i quali tanto si sono appuntate le critiche di chi misurava il grado di speculazione e la continua emarginazione degli abitanti montani, si possono prevedere — in que-sto modo — quelle opere per il riequilibrio del-l'assetto socio-economico che sono obiettivo del piano di sviluppo e per ottenere le quali ci si avvale della disciplina più strettamente urba-nistica.

(Il) Leggo n. 1102, art. 2.

(I5) Legge '6 agosto 1967, n. 765: Modifiche ed integrazioni

Il C o l l e eli T e n d a

e il s u o t r a f o r o

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1974 (pagine 70-74)