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Dibattito sulla programmazione in Piemonte (2° parte)

Nel documento Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1974 (pagine 23-37)

Come preannunciato nel numero di luglio-agosto, la Direzione della rivista è lieta di pubblicare, a completamento dei precedenti interventi sul tema della programmazione regionale, i contributi critico-operativi che la Federazione regionale delle Unioni agricoltori del Piemonte, l'Associazione piccole e medie industrie di Torino e provincia, la Commis-sione provinciale per l'artigianato di Torino, la Federazione regionale dell'artigianato del Piemonte aderente alla Confederazione generale italiana dell'artigianato e la Commissione permanente del Consiglio regionale per la tutela dell'ambiente hanno inviato in rappresen-tanza degli interessi e delle aspirazioni delle rispettive forze sociali.

Per una buona pianificazione agricola ricordiamoci anche delle direttive comunitarie.

La programmazione in agricoltura da un lato va intesa come lo strumento per superare gli squi-libri di reddito tra il settore primario e gli altri settori, dall'altro come una modalità importante della politica del territorio nel suo complesso.

Teniamo separati i due punti di vista. Intesa nel primo significato la programmazio-ne deve porsi come obiettivo prioritario quello della razionalizzazione dei processi produttivi, tenendo naturalmente conto degli aspetti di tra-sformazione e commerciali.

Mancano a questa definizione, sulla quale tutti possono essere d'accordo, i contenuti concreti da un lato e gli strumenti operativi idonei a tradurre in pratica le impostazioni generali dall'altro.

Sul primo punto non possono esservi dubbi. Gli scopi della programmazione a livello regio-nale non possono essere diversi da quelli della politica agricola nazionale, e questi, a loro volta, non possono differire dalle impostazioni concor-date in sede europea.

Questa tesi trova conferma nella Costituzione e nei Trattati liberamente sottoscritti dall'Italia al momento della fondazione del Mercato comune agricolo e non la si può negare senza chiedere implicitamente la revisione della Costituzione e la denuncia dei trattati internazionali.

La conseguenza di tutto ciò è che il contenuto della programmazione agricola non potrà essere che quella politica di « riforma delle strutture » deliberata due anni e mezzo fa a Bruxelles,

finan-ziata quasi interamente dalla CEE e che ha come scopo proprio quel riequilibrio settoriale e terri-toriale da tutti auspicato.

Che cosa si tratta di fare in concreto? Si tratta di dare vita ad una agricoltura il cui nerbo sia una consistente rete di imprese agricole efficienti, sostenuto da u n costante ed adeguato flusso cre-ditizio, dove i protagonisti siano imprenditori dinamici e tecnicamente aggiornati; e poi di crea-re raccordi a monte e a valle per garanticrea-re approv-vigionamenti a basso costo ed il collocamento della produzione a prezzi remunerativi e soppor-tabili per i consumatori; ed ancora offrire agli operatori un'assistenza tecnica e socio-economica ad alto livello, capace di orientare la produzione nel senso delle esigenze del mercato nazionale ed europeo.

Il fatto che in Italia non si sia fatto nulla in questa direzione non può giustificare ulteriori in-dugi da parte delle autorità nazionali, anche per-ché rimandare ancora il recepimento delle di-rettive comunitarie non può che significare un sostanziale distacco dell'Italia dall'Europa con tutte le conseguenze del caso.

Una volta accolte nel nostro ordinamento, le direttive comunitarie equivarrebbero alle leggi quadro sull'agricoltura, attese ma mai promul-gate, e darebbero alle Regioni un punto di rife-rimento certo per le loro iniziative.

Resta il fatto che un tipo di politica quale quel-lo sopra delineato impone agli organi della

pro-grammazione, ed in primo luogo alle Regioni, uno sforzo considerevole e dal punto di vista dell'acquisizione delle conoscenze e dal punto di vista della scelta degli strumenti di intervento.

A questo proposito il piano zonale sembra essere, se correttamente attuato, una valida rispo-sta ad entrambi i problemi.

Infatti la scelta di una dimensione geografica-mente ristretta favorisce una più chiara cono-scenza della realtà da modificare, mentre gli in-terventi saranno tanto più efficaci quanto più specifici, adatti cioè ad una zona, ad un gruppo di aziende o addirittura alla singola impresa.

Il piano zonale non è tuttavia sufficientemente definito per poter essere accolto senza riserve. Vi sono alcune condizioni a cui gli imprenditori agricoli non possono rinunciare. La prima è che i protagonisti della programmazione, sia a livello di elaborazione che di attuazione, devono essere gli imprenditori agricoli medesimi.

La seconda è l'esclusione, nella fase di attua-zione, di qualsiasi intervento coercitivo, in linea con l'impostazione europea che identifica nel con-senso e nella volontarietà le caratteristiche di qualsiasi programmazione democratica.

La terza è il mantenimento (o il ripristino) del carattere economico dell'attività agricola con il riconoscimento del ruolo essenziale ed insostitui-bile dell'impresa singola od associata, come cen-tro di decisioni appunto economiche.

Cosi definiti i vincoli della programmazione di zona, occorre affrontare il problema di come tra-durre in fatti concreti le indicazioni di fondo sulle quali ci si è soffermati.

Agli organi regionali responsabili della pro-grammazione si aprono due strade. La prima che richiede tempi lunghi o lunghissimi, consiste in

un'indagine .analitica condotta sull'intero terri-torio regionale e nell'approntamento di piani per tutte le zone cosi individuate. La seconda, che al contrario potrebbe essere immediatamente attua-ta, tende ad evidenziare i punti di crisi più gravi nell'ambito del territorio, a coinvolgere fin dal-l'inizio gli operatori agricoli nello studio delle possibili soluzioni e ad intervenire efficacemente, col consenso degli interessati, per rimuovere gli ostacoli di natura strutturale che impediscono lo sviluppo.

Articolare questo piano di zona secondo questo modello presenta indubbiamente alcuni vantaggi. Oltre a quello dell'immediata operatività di cui si è detto, vi è la relativa facilità con cui i piani di zona cosi concepiti possono essere collegati con la politica del territorio e la programmazione regio-nale nel suo complesso.

La Confagricoltura, da parte sua, ha indicato i fondamentali criteri di una politica di program-mazione che tenga conto, da un lato delle esi-genze del paese, e dall'altro delle uresi-genze del settore produttivo agricolo, attraverso la propria proposta di legge di iniziativa popolare « Norme per l'ammodernamento dell'agricoltura », annun-ciata nella Gazzetta Ufficiale del 29-10-71 n. 275.

Una programmazione che non sia fine a se stessa, ma che si proponga veramente di elevare il tenore di vita di una popolazione, non può non preoccuparsi in via prioritaria di eliminare le situazioni più gravi.

E poiché il sottosviluppo agricolo, coincide quasi ovunque con il sottosviluppo tout-court, il sorgere di una agricoltura efficiente è la risposta più logica che si possa dare se si vuole veramente che i problemi economico-sociali di una Regione siano avviati a soluzione.

B R U N O P U S T E R L A

Direttore della Federazione Regionale delle Unioni Agricoltori del Piemonte

Finanziaria regionale e qualificazione del personale: due strumenti fondamentali per venire incontro alle piccole industrie.

La piccola industria italiana in tutto questo dopoguerra ha continuato a svilupparsi e pro-gredire malgrado le difficoltà che ha sempre dovuto superare.

Come nel resto dell'Italia, anche in Piemonte la piccola industria ha combattuto fra molte dif-ficoltà anche se minori rispetto alle altre regioni, in considerazione della tipologia industriale

pie-montese, che è incentrata su alcune grandi indu-strie trainanti le quali hanno consentito alle imprese minori uno sviluppo nella scia del loro stesso sviluppo.

Tale migliore situazione ha tuttavia contri-buito, a lungo andare, ad accentuare le difficoltà generali ed esterne alle imprese, difficoltà deter-minate dalla notevole specializzazione industriale

del Piemonte e dalla forte concentrazione attorno all'area metropolitana torinese.

Secondo lo studio dell'IRES, le piccole im-prese — intendendo per tali quelle che occupano da 10 a 100 addetti — rappresentavano nel

1951 circa il 2 0 % dell'occupazione industriale del Piemonte. La percentuale aumenta negli anni '50 e nella prima metà degli anni '60; nel 1965 la piccola industria assorbiva il 2 3 % dell'occu-pazione regionale. Negli anni successivi, tutta-via, col complicarsi della situazione sociale e produttiva, le piccole imprese perdono di inci-denza e alla fine del '71 l'occupazione da esse offerta rappresenta solo più il 2 0 % del totale.

Questi dati ci mostrano come le piccole im-prese siano più vulnerabili rispetto alla situazione congiunturale generale: nel momento in cui l'eco-nomia è in fase espansiva, le piccole industrie sanno sfruttare, forse meglio delle altre, le op-portunità che si presentano, mentre incontrano difficoltà decisamente superiori quando l'econo-mia è in fase stagnante o comunque la situazione economica e sociale non esprime un quadro ras-sicurante.

Ma oltre questo principio di carattere gene-rale, vi è un altro fatto più specifico che ha svan-taggiato la piccola industria: l'evoluzione veri-ficatasi nella struttura dei costi aziendali.

L'andamento dei costi, da un decennio a questa parte, ha visto incrementarsi in modo massiccio il costo del lavoro. Per le piccole imprese, che solitamente non sono impostate su tecnologie molto avanzate, o che comunque utilizzano il fattore lavoro in misura percentualmente più rilevante rispetto alle aziende di altre dimensioni, questa maggiore incidenza ha determinato squi-libri a volte molto gravi.

Se sono esatte le affermazioni su esposte, si può comprendere in quale grave situazione si trovi oggi la piccola industria in Piemonte.

La crisi che sta attraversando il Paese è la più grave di questo dopoguerra. Essa sta toccando quasi tutti i settori produttivi e pertanto le pic-cole aziende di ogni settore risentono di tale si-tuazione. Ma se questa crisi è grave per tutti, ancor più grave è per le industrie ubicate in Pie-monte e particolarmente nell'area metropolitana di Torino. Le difficoltà, non solo congiunturali, che l'economia torinese sta incontrando sono evi-denziate in questi giorni da tutta una serie di situazioni negative, I casi più clamorosi sono stati riportati dai giornali, come quelli dell'Emanuel,

della Indesit, ecc.; ma tali casi non sono che gli aspetti più rilevanti e noti di una situazione di disagio ben più generale.

Proprio in questi giorni stiamo assistendo ad un vivace dibattito sulla situazione FIAT. Non è qui il caso di fare presente l'estrema importanza che ha lo sviluppo di questa azienda per l'eco-nomia regionale e torinese in particolare. La ca-pacità della classe dirigente aziendale, unitamente alla classe politica e sindacale, di dare nuovo slancio allo sviluppo di questa azienda costitui-sce la chiave di volta, nel medio termine, per consentire all'intera economia regionale un futuro quanto meno privo di quel carattere di estrema fragilità che è caratteristico del momento attuale. Attorno alla FIAT ruotano oggi, direttamente o indirettamente, quasi tutte le attività imprendi-toriali dell'area torinese. Di conseguenza anche la piccola industria guarda con estremo interesse all'evoluzione di tale azienda.

Le gravi affermazioni fatte dal dottor Umberto Agnelli nella sua recente intervista all'Espresso circa una possibile riduzione del 25-30% dell'at-tività della FIAT, con conseguente analoga ridu-zione dell'attività delle imprese fornitrici, non può che porci di fronte a delle scelte e a delle decisioni estremamente complesse.

Ma la grande difficoltà della piccola impresa deriva dal fatto che questa crisi di carattere con-giunturale si è sommata e sovrapposta ad una più grave crisi strutturale che ha caratterizzato la piccola impresa ormai da molti anni.

Finché l'economia si espandeva a ritmi vera-mente notevoli e ci si trovava in una situazione di non pieno impiego, la piccola industria ha potuto nascondere e mascherare le proprie insuf-ficienze strutturali con quel senso di imprendito-rialità che con grande spirito di sacrificio il pic-colo imprenditore piemontese ha ereditato dai suoi padri, e forse anche con quella utilizzazione

selvaggia — posto che a tale definizione non si

dia solo un significato negativo — della forza lavoro, ricordata sempre dall'amministratore de-legato della FIAT nella citata intervista.

Ma da dieci anni a questa parte il sistema in-dustriale italiano ha avuto uno sviluppo piuttosto alterno e in generale ha subito un indebolimento strutturale sempre più accentuato. Per contro, — e questo lo diciamo con sincero compiaci-mento — la classe lavoratrice, anche in conse-guenza del quasi raggiunto pieno impiego, ha consolidato il suo potere contrattuale

raggiun-gendo traguardi che forse qualche anno fa si potevano ritenere ancora molto lontani.

Tali due circostanze — e cioè l'indebolimento della struttura industriale italiana ed il raggiun-gimento di una situazione di quasi pieno impiego, con il conseguente maggiore potere del sinda-cato, — impongono alla piccola industria un sal-to di qualità, un diverso modo di intendere il processo produttivo, una nuova via per affrontare la situazione. Ma per le peculiarità tipiche della piccola impresa, per la sua grande fragilità e frammentarietà, essa non è in grado di elaborare e proporre in modo autonomo, e nel breve pe-riodo, — perché è nel breve periodo che si deve agire — soluzioni alternative.

Le piccole industrie chiedono che l'intero si-stema economico e sociale affronti seriamente il problema e consideri la situazione delle piccole industrie con animo disinteressato, ma con la con-vinzione che esse hanno rappresentato ed ancora rappresentano tanta parte di quello che è stato il processo di sviluppo politico, economico e so-ciale del Paese.

Questo serio impegno la piccola industria lo chiede principalmente alle altre due componenti sociali del moderno processo produttivo: al sin-dacato dei lavoratori, alla classe politica, sia cen-trale sia locale.

Ai sindacati non si può non rammentare che la piccola industria, per la sua stessa struttura, non è in grado di assorbire gli stessi oneri che possono invece essere assorbiti dalle grandi im-prese. L'utilizzazione cosiddetta selvaggia della forza lavoro, che forse si è potuta riscontrare ne-gli anni cinquanta, oggi non è più possibile: un diverso modo di concepire il rapporto con i lavo-ratori da parte degli imprenditori, una nuova co-scienza di classe dei lavoratori stessi, l'evolu-zione determinatasi nel contesto nel quale si agisce, il progresso sociale e democratico verifi-catosi in questi anni, impone anche alla piccola industria una certa rigidità nei rapporti con i propri dipendenti.

Ma se si chiede questo nuovo rapporto alle imprese, da parte dei lavoratori non si può di-menticare che queste imprese sono le vere scuole professionali delle grandi aziende, che sono quelle fucine che forgiano gli operai specializzati e che non riescono quasi mai ad utilizzarli, che, infine, se qualche operaio specializzato sceglie di rima-nere nell'ambito della piccola industria, lo fa in contropartita di un salario sensibilmente

superio-re a quello che potsuperio-rebbe ottenesuperio-re psuperio-resso la grande industria.

Il sindacato dei lavoratori non può ignorare questo diverso, e meno economico, modo di uti-lizzo del fattore lavoro che rende, indipendente-mente dalla struttura economica e finanziaria delle competenze del sindacato, più precaria la stabilità aziendale.

Ma essenzialmente nei confronti della classe politica sono indirizzate le richieste dei piccoli imprenditori.

Alcune forze politiche, sia di governo sia di opposizione, che sono corresponsabili della crisi attuale, si atteggiano a portatrici degli interessi e delle aspettative di questo settore dell'apparato produttivo del Paese, per fini per lo più elettora-listici. Ebbene, a queste forze politiche noi chie-diamo di considerare che la piccola industria è ancora essenzialmente produttrice e non distrut-trice di ricchezza per il Paese, e che pertanto ha soprattutto bisogno che vengano difese, o meglio ristabilite, le condizioni generali che non penaliz-zino l'iniziativa economica e il rischio di impresa, che venga garantito un ambiente capace di favo-rire normale selezione e sviluppo delle migliori iniziative produttive, senza che le esigenze

assi-stenziali prevalgano sempre su quelle della

com-petitività.

In tale quadro di carattere generale le piccole industrie chiedono al Governo ed agli organi ese-cutivi locali, principalmente della Regione, pre-cise scelte, al di là delle buone intenzioni tante volte manifestate.

Al Governo centrale si chiede di uscire dal-l'astrattezza ed indicare concretamente come ver-rà impostato quel nuovo modello di sviluppo che da ormai troppo tempo viene proclamato come il grande obiettivo della società italiana, ma che in pratica ha contribuito soltanto a determinare, proprio per la sua astrattezza e le sue incognite, nuova confusione.

Ma venendo ad un discorso pratico, all'auto-rità governativa si chiede che venga revocata la stretta creditizia che ha indiscriminatamente bloc-cato le attività produttive. Se il Paese ha bisogno, e certamente ne ha, di un maggiore rigore di spesa, questo deve essere principalmente indiriz-zato verso quelle attività parassitarie o protette che per tanta parte sono responsabili della situa-zione attuale.

Se le attuali limitazioni creditizie, particolar-mente per ciò che riguarda il credito a medio

ter-mine, non verranno quanto prima rimosse, molto difficilmente le piccole industrie riusciranno a superare senza danni l'attuale momento di crisi.

Indipendentemente comunque dal settore ban-cario, l'Amministrazione Statale può concreta-mente agire per migliorare la situazione finan-ziaria delle imprese. I tempi di pagamento delle forniture da parte dello Stato e delle Ammini-strazioni Pubbliche possono essere sensibilmente ridotti. Attualmente questi Enti procedono al pa-gamento delle forniture in tempi che possono anche raggiungere i 200 giorni; se si considera che le piccole imprese in questo periodo si vedono costrette a pagare alla consegna i propri fornitori, ci si rende conto delle immense difficoltà di teso-reria che stanno affrontando.

Analogo discorso può essere fatto per il paga-mento dei rimborsi di IGE, dazio ed IVA.

Anche nei confronti degli organi regionali le piccole imprese hanno motivo di lamentarsi. Or-mai da molto tempo si sente parlare di piano regionale di sviluppo, di nuovo assetto del terri-torio, senza che tali enunciazioni si siano mai tradotte in un piano organico.

Gli operatori economici sollecitano tali scelte in modo da poter operare in una prospettiva più certa, che nel grande sbandamento attuale con-senta di avere quanto meno un punto di riferi-mento su quella che potrebbe essere la struttura regionale nel medio periodo. Ma per fare anche qui un discorso più concreto, all'autorità regio-nale si chiede di dar corso a tutte le infrastrutture che offrono alla piccola industria quei servizi in-dispensabili nell'attuale fase di sviluppo econo-mico, e che la fragile struttura aziendale delle piccole imprese non può individualmente con-sentire.

Da parecchio tempo ormai la Regione Pie-monte ha allo studio la costituzione di una Finan-ziaria regionale. Secondo l'orientamento quasi generale, tale società non dovrebbe agire in pro-prio ma a mezzo di società sussidiarie. Tale tipo

di struttura societaria consente alla Finanziaria Regionale di costituire apposite società di consu-lenza operanti nel campo dell'assistenza econo-mica e commerciale alle piccole aziende. Con questo supporto anche la piccola impresa ver-rebbe messa in condizioni di porre in essere poli-tiche commerciali suffragate da preventive inda-gini di marketing che oggi vengono trascurate o effettuate con eccessivo pressapochismo, il proble-ma del commercio estero potrebbe venire impo-stato in modo più economico, sia per la maggiore assistenza, sia per le ricerche di nuovi mercati.

Con lo strumento della Finanziaria regionale potrebbero anche essere affrontati problemi quali i consorzi di acquisto della cui utilità potrebbero valersi non solo le piccole industrie ma anche tutto il settore commerciale.

Ma al di là delle attività della Finanziaria, la Regione dovrebbe affrontare seriamente altri pro-blemi, primo fra tutti quello della formazione professionale. Si tratta di una esigenza molto sentita che dovrebbe essere articolata su tutto il territorio regionale in relazione alle esigenze ed alle vocazioni industriali delle varie aree indu-striali, tali da fornire anche alla piccola industria una mano d'opera più qualificata.

Non si vuole qui suggerire alla Regione i

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