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Cronache Economiche. N.009-010, Anno 1974

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CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA

DI TORINO

9/10

ANNO 1974

(2)

Dislocazione degli odici regiooali

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Artigia-n a t o

- A s s e s s o r a t o U r b a n i s t i c i ed A s s e t t o d e l T e r r i t o r i o

^ V i a M a g e n t a 1 2 T e l . 5 7 . 1 7

- A s s e s s o r a t o A s s i s t e n z a c servizi S o c i a l i - Assessorato Commerci»! Lavoro • Polizia u r b a n a

e rurale

- A s s e s s o r a t o I s t r u z i o n e • A s s i s t e n z a S c o l a s t i c a • Musei o B i b l i o t e c h e

- A s s e s s o r a t o S a n i t à

A s s e s s o r a t o T r a s p o r t i e C o m u n i c a z i o n i - Assessoiato T u r i s m o Parchi naturali S p o r t C a c c i a

e P e s c a

Gì* u f f i c i d e l l a S e z i o n e d e c e n t i a i a di T o r i n o d e l C o . R e C o s o n o in via M a g e n t a 12, tel. 57.17 la sedo

del C o m i t a t o regionale d i c o n t r o l l o sulle Province è .n corso Pr.ne.p. E ugen.o 36. tei 489 104 4 8 9 6 6 1 4 8 9 772

@ C o r s o S t a t i U n i t i 2 1

T e l 5 4 7 2 . 3 1 • 5 1 . 7 2 . 1 8 - 5 3 7 7 4 2 — Assessorato Aqi c o l t u r a e Foreste

( I s p e t t o r a t o Regionale Foieste • I s p e t t o r a t o Pro-vincia!» Agi icoltura)

V i a A s s i e t t a 7 T e l 5 8 1 6 6 8 - I s p e t t o r a t o R-pai n m e n t a l e d e l l e F o r e s t e i P r o v . di T o n n o ) C o r s o B o l z a n o 4 4 T e l . 5 1 . 3 4 3 4 Via-— A s s e s s o i a t o L a v o n P u b b l i c i • I n f r a s t r u t t u r e • bilità Poi t< e N a v i g a z i o n e l a c u a l e ( P r o v v e d i t o r a t o r e g i o n a l e O p e r e p u b b l i c h e U f f i -c i o d e l G e n i o Civile di T a r i n o - U f f i -c i o Espi o p r i ) Q C o r s o R e U m b e r t o 6 4 T e ! 5 0 4 5 9 6 - 5 0 4 6 1 3 — S o p r i n t e n d e n z a ai b e n i librar. P i a z z a C e s a r e A u g u s t o 5 * * T e l 5 4 4 3 9 7 5 3 5 5 2 7

— UHICI del M e d i c o Provinciale (Prov d i T o r i n o ) T e l 5 4 . 0 3 8 6 5 4 6 1 7 5

— UHICI de" Vetei m a n o Provinciale (Prov d i T o n n o )

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cronache

economiche

sommario

rivista della camera di commercio industria artigianato e

agricol-tura di forino

numero 9 / 1 0 anno 1974

Corrispondenza. manoscritti, pubblicazioni deb-bono essere indirizzati alla Direzione della Ri-vista. L'accettazione degli articoli dipende dal giudizio insindacabile della Direzione. Gli scritti firmati o siglati rispecchiano soltanto il pen-siero dell'Autore e non impegnano la Direzione della Rivista né l'Amministrazione Camerale. Per le recensioni le pubblicazioni debbono es-sere inviate in duplice c o p i i . f É vietata la ri-produzione degli articoli e delle note senza I autorizzazione della Direzione. I manoscritti, anche se non pubblicati, non l i restituiscono

Direttore responsabile: Francesco Sarasso Vice direttore: Franco Alunno Redattore capo: Bruno Cerrato L. M a l l è 3 La Sacra di S. Michele G. Cansacchi

13 La circolazione dei lavoratori nell'ambito della CEE

I Speciale ;

21 Dibattito sulla programmazione in Piemonte (2a parte)

ASSETTO DEI SERVIZI IN PIEMONTE

* * *

35 In anteprima uno studio delle Camere di commercio della regione

R Bello - L. Chiara

36 Inquadramento generale della ricerca

P. Gallo

47 Osservazioni sul tema dei servizi scolastici

D. Cravero

52 A proposito di organizzazione dei servizi sanitari

P. F. Becchino

57 Per una revisione di alcune disposizioni di legge sul collocamento dei lavoratori

E. Battistelli

61 Ripercussioni agronomiche del declino zootecnico

A. Trincheri

64 Condizioni per un ritorno al credito possibile

A. Salvo

68 Quali strumenti urbanistici per le Comunità Montane?

P. Condulmer

72 II Colle di Tenda e il suo traforo

A. Vigna

78 Un difficile Samia quello della 39" edizione 82 Tra i libri

90 Dalle riviste

Figura In copertina :

La Sacra di S. Michele: la parte absidale.

Direzione, redazione e amministrazione

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C A M E R A D I C O M M E R C I O

I N D U S T R I A A R T I G I A N A T O E A G R I C O L T U R A

E U F F I C I O P R O V I N C I A L E I N D U S T R I A C O M M E R C I O E A R T I G I A N A T O

Sede: Palazzo degli Affari - Via S. Francesco da Paola. 24 Corrispondenza: 10123 Torino - Via S. Francesco da Paola, 24

IO 100 Torino - Casella Postale 413.

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B O R S A V A L O R I

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G A B I N E T T O C H I M I C O M E R C E O L O G I C O

(presso la Borsa Merci) - 10123 Torino - Via Andrea Doria, 15.

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La Sacra di S. Michele

Luigi Malie

All'imbocco della valle di Su sa, all'altezza delle chiuse longobarde, sorge la Sacra di S. Michele.

Un iniziale sacello a S. Mi-chele risaliva forse al VI secolo, come emanazione spirituale del culto dedicato all'arcangelo dal santuario, fondato nel 492 al Monte Gargano presso Beneven-to e come mediazione alla fonda-zione di luoghi di culto a Mont S. Michel in Normandia nel 709, a S. Michel d'Aiguille in Alver-nia (chiesa romanica su più an-tico edificio), a S. Michel de Cuxa nei Pirenei. Quell'iniziale sacello sul monte Pirchiriano

(Porcariano) forse fu eretto da monaci bizantini fra il 535 e il

555, diventando poi carissimo ai

Longobardi. È difficile accettare che il sacello sopravviva in una delle absidi della cripta attuale. Siamo incerti su quanto avvenne nel secolo IX e X; probabilmen-te nel IX o dopo le invasioni dei Saraceni, nel X secolo già avan-zato, si ampliò l'antico edifi-cio poi demolito, restandone la cripta, piccola, per far luogo alla nuova chiesa, la prima romani-ca, iniziata nel 998-999, di cui resta la più ampia cripta incor-porante la vecchia, e parte del cosiddetto coro vecchio. Ma v'è chi ritiene che la cripta sia tut-ta romanica, formatut-ta d'una pic-cola nave mediana sul luogo della originaria e affiancata poi da due ali un po' più Iarde.

La cronaca d'un monaco Gu-glielmo, del sec. XI, preziosis-sima pur facendo parte a leg-gende, parla d'un fondatore S. Giovanni Vincenzo, cui si uni S. Romualdo venuto dall'an-tistante monte Caprario e s'ag-giunse un parente di Giovanni: Guglielmo da Volpiano. Ma su S. Romualdo occorre andar cau-ti, s'egli nacque nel 906, non po-tendo certo partecipare alla co-struzione della chiesa a fine seco-lo! Può solo tenersi conto d'un suo viaggio a S. Miguel de Cuxa come spinta a proporre la costru-zione d'una chiesa nuova. Gu-glielmo da Volpiano abitò per anni al Monte Pirchiriano ma per lasciarlo nel 990, quando si recò in Borgogna e divenne abate di S. Benigno di Digione. Ciò che è certo, è che il pontefice Silve-stro Il chiese al Conte Hugo di Montboissier l'erezione d'una grande chiesa conventuale, co-me centro co-mediatore tra Francia. Roma e Monte Gargano: e del-l'edificazione fu dato incarico all'abate Arvertus di Lézat, sen-za che si abbia documentazione sull'architetto da questi prescel-to. Ricorse egli a Guglielmo da Volpiano che tra il 997 e il 1001 era impegnato all'Abbazia di Fruttuaria? Troppo poco rima-ne di Guglielmo per una rispo-sta precisa; ma soprattutto, trop-po trop-poco resta della originaria co-struzione romanica per trarre conclusioni. Nel 1148

documen-ti provano l'insufficienza della chiesa ma non è certo che l'in-grandimento sia avvenuto subi-to. In ogni caso, la terza chiesa, costruita dopo la metà del se-colo XII, continuata ricollegan-dola al « coro vecchio » nel se-colo XIII. è sopravvissuta ma con rimaneggiamenti forse già nel sec. XIV e restauri moderni, pili rispettosi quelli di Alfredo d'Andrade della fine dell'800, gelidi e incomprensivi quelli con-clusi nel 1957.

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nestre che non illuminano la chiesa ma danno al di sopra del-la volta: forse conseguenza di rimaneggiamento del sistema di coperture fin dal duecento. Ri-mane comunque all'insieme un carattere lombardo che per la pianta è stato paragonato a quel-lo dell'Abbazia di Morimondo, e cosi per la larghezza estesa della nave mediana. Non mancano, per i pilastri, richiami al duomo di Piacenza. Per la forma dell'absi-de centrale trilobata i rapporti sono con la Francia di Sudovest.

Appare stupendo lo spettaco-lo esterno della nuova parte absi-dale romanica issata sulle gigan-tesche sostruzioni, cristallino ba-stione commentato con lucidezza da due semicolonne e da un'ar-cata accogliente una finestra e un oculo; in basso s'apre il por-tale, in alto s'appoggia il giro delle tre absidi di cui la centrale con loggia ad archetti. Insieme potente quanto nitido negli squa-dri, non trovando confronti, non dico di stile ma d'effetto, se non in qualche esempio d'architettu-ra normanna ma con imponenza che ha la più adatta risonanza nel giro di montagne attorno.

Il grande scalone interno inse-rito nella viva roccia è stato com-parato con lo scalone già indu-cente al coro della cattedrale di Puy in Francia; e le due nicchie affiancanti l'abside potrebbero

indurre il pensiero a chiese del Velay. L'interno della chiesa, dalle crociere nervate molto am-pie su pilastri cilindrici, fonde uno schema lombardo — asso-dante pilastri polistili — a uno schema borgognone (S. Filiber-to di Tournus usa lo stesso dop-pio sistema di pilastri); ma i

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In alto: Sacra di S. M i c h e l e - T o r r e della Bell'Alda. In basso: Sacra di S. Michele - Porta dello Zodiaco

- Niccolò e aiuti.

restauri subiti hanno raggelato tale interno in cui la nota com-pressa e massiccia romanica già accoglie timbrature gotiche; e ne parleremo ancora.

A breve distanza dal com-plesso claustrale stanno i resti del cosiddetto « Sepolcro dei Mo-naci », edificio a pianta centrale costituita da un ottagono a lati alternatamente retti ed emicicli. In alzato, una cupola con giro d'archettature — già sormonta-te da lansormonta-terna — chiude il bloc-co murario. L'edificio può esser datato, in base al tipo di mura-tura, al sec. XI avanzato. Forse fu costruito al tempo della prima crociata come « chiesa del S. Se-polcro »? In ogni caso era dedi-cato a S. Stefano, protettore ap-punto di tali chiese del Sepolcro. Da essa furono forse tratti gli elementi del portale dello Zodia-co, installati poi come portale in vicinanza dell'ingresso della chiesa di S. Michele.

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A sinistra: Sacra di S. Michele - Porta dello Zodiaco - Capitelli del Leone, testa di drago e delle Sirene (lato sinistro salendo dallo Scalone dei Morti). A destra: Sacra di S. Michele - Porta dello Zodiaco - Capitello di Caino e capitello a fogliame e pigne (lato destro salendo dallo Scalone dei Morti).

Alla Sacra di S. Michele, nel-l'ambiente altissimo interno alla sostruzione, i pilastri recano ca-pitelli istoriati della metà del sec. XII. Sul fianco destro della chiesa s'apre un portale a forte strombo, battuto da una fila di colonnine romaniche tarde, con bei capitelli a decorazioni vege-tali, continuando lungo la pare-te espare-terna a guisa di loggetta cie-ca le cui ogive trilobe sono un'ag-giunta del '300. Ma è la « porta dello Zodiaco », al termine

su-periore dello « Scalone dei mor-ti», a costituire l'interesse mag-giore, col suo complesso varialo, stilisticamente e qualitativamen-te, di parti non omogenee.

Tali elementi, apparentemen-te ben collegati, sono in verità sistemati con tutte le libertà con-seguenti ad un impiego di ricu-pero: i due stipiti, ad esempio, sono decorati solo sulla fronte e su un lato, indicando un'origina-ria collocazione tutta diversa, come elementi angolari e non,

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Sacra di S. Michele - Porta dello Zodiaco - Capitelli del Leone e testa di drago e delle Sirene (lato sinistro salendo dallo Scalone dei M o r t i ) .

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la firma dello scultore « Nicho-laus » è ornato a densi racemi includenti figure umane e anima-li, su due lati, con analogo an-damento. L'altro stipite reca, en-tro girali più larghi, i dodici se-gni dello zodiaco e, su un lato, entro dodici rettangoli formati da ornato a treccia, diciannove costellazioni. Solo due capitelli figurati di colonne, sono lavorati

(al pari delle loro basi) su due facce: il capitello marmoreo con due storie di Caino e Abele (Sa-crificio, Uccisione) e quello con tre figure lottanti che aggirano il blocco d'arenaria. Altri cinque capitelli di colonne si collegano in altro gruppo: il primo con due scene di Sansone, un secondo con fogliami, un terzo con la Lussuria, un quarto con tre aqui-le, un quinto con due sirene, tutti in arenaria e scolpiti su quattro facce (non più tutte intatte). I capitelli di pilastri portano acanti o un leone; quelli sugli stipiti hanno fogliami.

Gli artisti all'opera sono due: il « Nicholaus » — generalmen-te, anche negli studi più recenti, identificato col Nicolò che esegui sculture alle Cattedrali di Ferra-ra, Piacenza, Verona e che alla Sacra compare in fase antece-dente, intorno al 1120 — auto-re dei due stipiti, delle basi figu-rate, dei due capitelli di Caino e dei lottatori. Le altre parti spet-tano ad un secondo scultore ri-masto anonimo; ma è arduo sta-bilire se fra i due gruppi vi sia (e di che portata) una qualche differenza di tempo, poiché il ca-rattere più primitivo e arcaico del secondo scultore porla con sé anche una qualità inferiore, con conoscenze desunte — e non be-ne interpretate — da Nicolò, di-mostrando una propria forma-zione indipendente. Ma in ogni caso il portale dello Zodiaco si

presenta oggi incompleto anche iconograficamente; e al tempo stesso con elementi che, per la soggettistica, non s'accordano, sicché le ultime ricerche propen-dono a credervi fuse le parti eli due complessi: il gruppo di rilie-vi di Nicolò, appartenente ad un portale (forse però non del Se-polcro dei Monaci, ma della pre-cedente chiesa di S. Michele) ; il secondo gruppo, formante inve-ce un complesso libero — non un portale — poteva esser parte d'un matroneo o d'una cripta o del chiostro: ma i due primi casi son da escludere per quanto si conosce della Sacra, restando aperta l'ipotesi del terzo. La col-locazione attuale, cosi casuale, non può essere del tempo della terza chiesa né rispondere ad una avveduta ricostruzione del tardo ottocento, piuttosto adeguandosi ad una frettolosa messa in salvo di materiali.

A Verona Nicolò fu attivo nel 1132, a Ferrara nel 1135, a Pia-cenza dove è suo il portale Sud ed era suo l'originario portale centrale (poi sostituito da copia ottocentesca), lavorò in prece-denza e proprio con Piacenza son più stretti i legami della sua parte alla Sacra. I portali di Pia-cenza sorsero dopo il 1122; il suo operato alla Sacra può esser prossimo o anche antecedente al 1120 (e tuttavia vi è anche chi propende a posticipare la Sacra a Piacenza). La presenza di Ni-colò alla Sacra è importantissi-ma; egli vi appare certo giovane ma pienamente maturo e li si pongono le basi eli quella attivi-tà piacentina, impregnata di va-lori provenzali e lolosani (già presenti alla Sacra) da cui esce la grande scuola plastica di Pia-cenza, una delle basi culturali dell'Antelami.

Sacra di S. Michele - A n o n i m o maestro della «Scuola di Piacenza» - Angelo dell'Annuncia-zione (fìnestrone dell'abside maggiore della

chiesa).

Sacra di S. Micholo - A n o n i m o maestro della « Scuola di Piacenza » - Madonna dell'Annuncia-ziono (fìnestrone dell'abside maggiore della

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Il secondo maestro del portale della Sacra si configura invece più specificamente nella corrente lombarda comasca, con richiami alla seconda generazione cosca operante ai capitelli del ma-troneo nel Duomo di Parma, più liberi. Egli si dimostra eclet-tico, poco originale ma capace di notevole espressività che gli merita maggior stima di quanta concessagli in passato. La parte spettcìntegli può datarsi al 1130-1150.

Le figure dell'Annunciazione, stanti, e i rilievi degli Evangeli-sti nell'abside maggiore, appar-tengono alla scuola di Piacenza che poco dopo la metà del se-colo XII dovette operare con una sua bottega alla Sacra. I richia-mi con i profeti del Duomo pia-centino sono stati messi in luce di recente, ed anche quelli con i frammenti d'un ambone alla Col-legiata di Castell'Arquato. L'An-nunziata, per il capo, lega stret-tamente con una Madonna della

parrocchiale di Cacleo (Piacen-za) . La datazione per tali scul-ture della Sacra può stare in-torno al 1170. Certo l'Annuncia-zione è una delle più forti opere elei Piemonte in tutto il secolo. In tempo adiacente furono ese-guiti i capitelli con rilievi vege-tali o figurati della prima parte della chiesa o dell'abside, non senza qualche deflusso wiligelmi-co. I capitelli della parte ulte-riore, sono già trecenteschi, pie-gandosi a forme gotiche.

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La circolazione dei lavoratori

nell'ambito della CEE

Giorgio Cansacchi

Gli artt. 48-73 del Trattato di Roma costitu-tivo della Comunità Economica Europea pongono fra gli scopi fondamentali della Comunità la libe-ra circolazione nel territorio comunitario delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali; più particolarmente, riguardo alle persone, le norme del Trattato impongono agli organi socie-tari e agli Stati-membri di sviluppare un'azione programmata diretta a favorire la ricerca dell'oc-cupazione, lo stabilimento nel luogo di lavoro, l'esplicazione dell'attività lavorativa, l'acquisi-zione dei salari e delle previdenze sociali, il tra-sferimento di lavoro da un luogo ad un altro, ecc. dei lavoratori dipendenti, detti comunemente « la-voratori salariati ». La liberalizzazione perseguita dalla Comunità non si limita ai soli lavoratori salariati; essa deve attuarsi a favore di tutti i lavoratori (intesa questa espressione in senso lato) e quindi comprende anche i lavoratori auto-nomi, i professionisti, gli imprenditori industriali, i commercianti, i prestatori di servizi, ecc.

Si deve, però, notare che questa liberalizza-zione nel campo del lavoro presenta per gli Stati-membri un interesse assai maggiore — ed anche minori difficoltà di attuazione — riguardo ai la-voratori salariati, che non riguardo alle altre ca-tegorie di lavoratori, specialmente a quelle pro-fessionali ed imprenditoriali. Basti por mente al fatto che, da un lato, gli Stati di emigrazione te-mono di vedere accresciuta in patria la disoccu-pazione operaia (foriera di crisi economiche e di sovvertimenti sociali) e, dall'altro lato, gli Stati di immigrazione si preoccupano di poter disporre delle masse operaie necessarie al funzionamento e all'espansione del proprio sistema industriale. Possiamo ricordare — ad es. — come per l'Ita-lia, il cui sviluppo industriale, ancorché in co-stante crescenza, non è sufficiente ad impiegare tutta la manodopera operaia disponibile, la pos-sibilità di indirizzare l'emigrazione di parte di questa oltre frontiera, costituisce un notevole

vantaggio per i positivi effetti che ne conseguo-no, sia economici, sia sociali. La graduale rea-lizzazione dello scopo di attuare nell'ambito comunitario una più facile circolazione di mano-dopera operaia, è stato ottenuto dalla CEE me-diante l'emanazione di Regolamenti comunitari e di Direttive comunitarie. I primi, all'atto della loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Comunità, sono entrati immediatamente in vi-gore in ciascuno degli ordinamenti giuridici de-gli Stati-membri (abrogandovi —• se del caso — la legislazione ad essi contraria anteriormente vigente); le seconde hanno invitato gli Stati desti-natari ad armonizzare la loro legislazione inter-na, entro termini prefissati, ai fini specificamente indicati ed obbligatori.

Dovendo dare un giudizio complessivo della normativa comunitaria fino ad ora emanata in questa materia, si può affermare che il risultato cui essa tendeva è stato solo parzialmente rag-giunto in quanto — come vedremo — anche in questo settore si sono, in concreto, urtati i due principi contrastanti della « sovranazionalità » dell'Organizzazione comunitaria e della « sovra-nità nazionale » dei singoli Stati-membri.

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mate-ria un regime definitivo (per quanto la « definiti-vità » in questo campo debba considerarsi sem-pre relativa, trattandosi di situazioni che mutano continuamente generando nuovi problemi e sug-gerendo nuove soluzioni).

A questi atti normativi debbono aggiungersi quelli relativi alle previdenze (sicurezza sociale) dei lavoratori salariati. 11 primo Regolamento in oggetto porta il n. 3 ed è del 25 settembre 1958, seguito da numerosi altri per specifiche categorie di lavoratori (frontalieri, stagionali, lavoratori del mare); attualmente tutta la materia è stata rive-duta, in seguito ad un'esperienza decennale, e vennero emanati tre Regolamenti, il n. 1408 del 14 giugno 1971 concernente l'applicazione del regime di sicurezza sociale ai lavoratori salariati e ai membri delle loro famiglie, il n. 574 del 21 marzo 1972 che disciplina l'esecuzione delle norme poste dal precedente, il n. 2864 del 19 di-cembre 1972 che parzialmente modifica ed inte-gra quello del 1971.

Poiché ho già trattato delle previdenze sociali a favore dei lavoratori salariati nell'ambito del MEC in uno scritto pubblicato su questa stessa Rivista ( C A N S A C C H I , Le previdenze sociali dei

lavoratori subordinati nell'ambito della CEE

-1973), vi rinvio il lettore, limitandomi, in que-sta sede, a toccare brevemente l'argomento illu-strando le direttive generali del sistema adottato per la necessaria contestualità di trattazione.

* * $

L'attuale normativa comunitaria, considerata nel suo complesso, ha unificate le legislazioni de-gli Stati-membri in tema di assunzione, di sog-giorno e di espletamento dell'attività lavorativa da parte dei lavoratori salariati « stranieri », cioè emigrati dallo Stato-membro della loro cittadi-nanza allo Stato-membro del luogo di lavoro. Illustrerò i punti più salienti di questa norma-tiva, senza scendere a particolari.

In primo luogo i lavoratori immigrati, prove-nienti da uno Stato-membro, sono totalmente equiparati ai lavoratori nazionali in oggetto al rapporto di lavoro. Mentre lo Stato del luogo di lavoro potrebbe, nella sua legislazione, operare una discriminazione sfavorevole ai lavoratori pro-venienti da terzi Stati, ciò gli è precluso riguardo ai lavoratori cittadini di uno Stato-membro. Ne consegue che i lavoratori cittadini degli Stati-membri sono totalmente parificati ai lavoratori

nazionali riguardo ai diritti e ai doveri sorgenti dal rapporto di lavoro; hanno uguaglianza di re-tribuzione (secondo le categorie professionali), di orario di lavoro, di ferie, di attività sindacale, di diritto di sciopero, di destinarietà delle dispo-sizioni dei contratti di lavoro, di godimento delle previdenze sociali localmente predisposte ecc. Tutti i vantaggi elargiti dallo Stato del luogo del lavoro ai famigliari dei lavoratori nazionali sono ugualmente estesi ai famigliari dei lavora-tori immigrati da uno Stato-membro ove detti famigliari abbiano seguito il loro congiunto nel paese di lavoro.

Un altro punto importante riflette l'equipara-zione dei lavoratori provenienti da uno Stato-membro a quelli nazionali relativamente alla pre-ferenza riservata a questi ultimi nell'assunzione agli impieghi disponibili. Questa preferenza di assunzione, ancorché subisca delle limitazioni e spesso possa essere elusa, è regolata nei seguenti termini: le offerte di assunzione predisposte dagli uffici di reclutamento di uno Stato-membro de-vono essere preliminarmente inviate agli uffici di reclutamento degli altri Stati-membri e non possono essere trasmesse a quelli di uno Stato non-membro se non dopo trascorsi diciotto giorni dal ricevimento delle offerte di collocamento di manodopera provenienti dagli uffici di recluta-mento di uno Stato-membro.

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liste dei lavoratori offrentisi per dati lavori. Il Consiglio della Comunità ha, però, disposto che se questa ricerca di impiego non si è realizzata nei tre mesi dall'espatrio, il lavoratore straniero può venire rimandato nel suo Stato di origine. Se le legislazioni dei due Stati interessati (quello nazionale del lavoratore e quello nazionale del datore di lavoro) consentono per certe categorie di lavoratori salariati l'assunzione individuale, un contratto di assunzione al lavoro può essere sti-pulato direttamente fra il lavoratore ed il datore di lavoro. Trattandosi, però, di manodopera sala-riata, nella maggioranza dei casi è esclusa la scel-ta individuale dei lavoratori da parte dei datori di lavoro, ai quali viene unicamente consentito di richiedere all'ufficio di collocamento un dato quantitativo di lavoratori di una determinata ca-tegoria professionale, specificandone in numero minimo richiesto e le caratteristiche di impiego. Pertanto anche nell'ambito del Mercato Comune Europeo la grande maggioranza dei lavoratori sa-lariati viene assunta attraverso gli uffici di collo-camento nazionali; questi possono direttamente comunicarsi le richieste e le offerte di impiego; la reciproca collaborazione è anche consentita fra gli uffici di collocamento regionali di due Stati-membri e particolarmente fra quelli di regioni frontaliere. Gli organi comunitari hanno, però, recentemente istituito un meccanismo più effi-ciente e rapido: è stato creato un ufficio nell'am-bito della Commissione, denominato « Ufficio europeo per la coordinazione delle domande e delle offerte d'impiego ». Questo Ufficio ha il compito di porre a contatto le domande e le of-ferte di impiego salariato provenienti dagli uffici di collocamento degli Stati-membri e di favorirne il reciproco assorbimento.

Il lavoratore salariato straniero, che ha otte-nuto una regolare assunzione di impiego nel ter-ritorio di uno Stato-membro, ha diritto ad otte-nere dall'autorità di polizia di questo Stato la « carta di soggiorno »; quindi la carta di sog-giorno — dalla quale il lavoratore consegue il diritto a risiedere nel luogo di lavoro e se del caso anche a farvi venire la propria famiglia — è condizionata nella sua emissione da parte dello Stato del luogo di lavoro soltanto a due fonda-mentali documenti: al passaporto per l'estero dato al lavoratore dal suo Stato nazionale (in base al quale è avvenuto l'espatrio) e alla dichiarazione di assunzione all'impiego del datore di lavoro op-pure al certificato di lavoro (documenti che

giu-stificano la residenza del lavoratore straniero nello Stato-membro, in cui il lavoro si svolge).

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lavoratore nello Stato di lavoro, non superiori ai sei mesi, non comportano la revoca della carta di soggiorno; il ché significa che le interruzioni su-periori a tale periodo infirmano il rinnovo auto-matico della carta; questa potrà essere riconcessa ove il lavoratore sia stato assunto in un nuovo impiego, mentre in caso contrario sarà costretto a rimpatriare.

* 5jC #

L'ingresso ed il soggiorno in uno Stato-membro dei cittadini lavoratori provenienti da altri Stati-membri sono, però, sottoposti a limitazioni di no-tevole portata. Queste limitazioni derivano dai principi dell'ordine e della sicurezza pubblici e della sanità pubblica. Per ciò che riguarda que-st'ultima è stata emanata una lista di malattie, la cui presenza nel lavoratore immigrante ne giu-stifica il rifiuto di ingresso e di soggiorno; queste malattie, però, non escludono la prosecuzione della residenza del lavoratore straniero nello Stato del lavoro se sono state contratte dopo il suo in-gresso in questo Stato.

Per ciò che riguarda il principio dell'ordine e della sicurezza pubblici la massima discreziona-lità di valutazione è attribuita a ciascun Stato-membro; unicamente si afferma che il rifiuto di ingresso e di soggiorno nello Stato del lavoro deve essere esclusivamente fondato su motivi concer-nenti il comportamento personale del lavoratore rifiutato. Sono, pertanto, escluse misure collettive di espulsione (per es. di tutti i cittadini di uno Stato-membro o di tutti i lavoratori di una data categoria o dei lavoratori stranieri per tema di scioperi di protesta dei lavoratori nazionali o a difesa dell'economia nazionale ecc.). Normalmen-te il rifiuto viene motivato da precedenti compor-tamenti tenuti in patria dal lavoratore emigrato (per es. dall'avere riportato in patria condanne penali interessanti il rapporto di lavoro; dall'aver-vi fatto propaganda sovversiva; dall'aver parteci-pato in maniera violenta e comunque illegittima all'attività sindacale, ecc.). La prassi fin qui se-guita dagli Stati di immigrazione accerta che le autorità di polizia sono state piuttosto « bene-voli » in queste valutazioni; l'aver militato in pa-tria in un partito politico non ammesso ad ope-rare nel territorio dello Stato del lavoro oppure l'aver riportate condanne penali non gravi per reati non specificamente influenti sul rapporto di lavoro non hanno preclusa la concessione della carta di soggiorno od il suo rinnovo.

La decisione che concede o rifiuta — per le cause ora menzionate — la carta di soggiorno, deve essere pronunciata non oltre i sei mesi dalla domanda del lavoratore richiedente e nel periodo di attesa il lavoratore può rimanere nel territorio dello Stato di immigrazione. Contro il rifiuto di concessione della carta di soggiorno il lavoratore immigrato può esperire i ricorsi consentiti dalla legislazione locale contro gli atti amministrativi; nel nostro ordinamento vi potrà, quindi, essere il ricorso gerarchico all'autorità superiore a quella dell'emissione del rifiuto oppure il ricorso giuri-sdizionale al Tribunale Amministrativo Regio-nale. Trattandosi di provvedimenti ampiamente discrezionali — ancorché debbano essere suffi-cientemente motivati — l'impugnativa potrà espli-carsi soltanto su vizi di legittimità e non di me-rito. Un'altra limitazione colpisce « gli impieghi nell'amministrazione pubblica »; i lavoratori stra-nieri, ancorché cittadini di uno Stato-membro, possono venire esclusi da impieghi che compor-tino l'esercizio di un'attività pubblicistica. L'inter-pretazione di questa limitazione è stata oggetto di disparate opinioni in dottrina, alcune più libe-rali, altre più restrittive; l'opinione prevalente è che non sia sufficiente l'assunzione ad un impiego presso una pubblica amministrazione (per es. presso un Comune o presso un ente concessio-nario di pubblico servizio) per dar luogo alla pre-clusione, ma occorre che il lavoratore straniero partecipi effettivamente all'esercizio di una fun-zione di diritto pubblico, cioè eserciti in concreto i poteri di una pubblica autorità.

I motivi di ordine e di sicurezza pubblici inter-feriscono, naturalmente, anche sulla continuazio-ne dell'impiego; l'autorità di pubbblica sicurezza dello Stato del lavoro, allegando i suddetti motivi, può emettere una decisione di espulsione ritiran-do la carta di soggiorno o non più rinnovanritiran-dola in danno del lavoratore salariato straniero (queste decisioni di espulsione, sono per lo più, emesse q u a n d o il lavoratore straniero ha commesso nello Stato del lavoro dei reati o violate norme di poli-zia o partecipato ad attività sovversive).

* * *

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completa equiparazione di trattamento tra i lavo-ratori salariati, cittadini di uno Stato-membro, ed i lavoratori nazionali. Allorché alcune delle previ-denze sociali predisposte dallo Stato del lavoro vengono estese ai famigliari dei lavoratori citta-dini, esse vengono ugualmente elargite ai fami-gliari dei lavoratori stranieri cittadini di uno Stato-membro.

Poiché in materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità ed ogni Stato ha un proprio complesso normativo in materia, di cui impone l'osservanza a tutti coloro, cittadini o stranieri, che lavorano nel suo territorio, non era possibile, per gli organi comunitari, predisporre un unico sistema « europeo » di sicurezza sociale ed imporlo agli Stati-membri in sostituzione di quelli, singoli e diversi, attualmente vigenti. I Re-golamenti comunitari in materia di previdenza sociale sono, perciò, soltanto Regolamenti di coor-dinazione; essi, e le Direttive connesse, si sono limitati a « coordinare », nei modi migliori possi-bili, le leggi e gli apparati amministrativi degli Stati-membri. Rinviando il lettore — come ho già detto — ad un mio recente scritto in materia pubblicato in questa stessa Rivista, mi limito a far rilevare i tratti caratteristici della coordina-zione legislativa ed amministrativa predisposta dalla Comunità.

L'indirizzo fondamentale in questa materia è stato il seguente: il lavoratore salariato, qualun-que sia il suo Stato di provenienza ed ancorché non risieda nello Stato del lavoro, è sottoposto totalmente, sia per gli oneri, sia per i benefici, alla legislazione previdenziale dello Stato in cui svolge il suo lavoro. Una seconda direttiva riguar-da il diritto del lavoratore straniero emigrato riguar-da uno Stato-membro a « totalizzare » in suo vantag-gio i periodi trascorsi al lavoro in altri Stati-mem-bri e presi in considerazione dalle diverse legisla-zioni nazionali per l'acquisto o la conservazione del diritto alle prestazioni previdenziali e per il calcolo dell'ammontare delle medesime. Sarebbe, infatti, iniquo che un lavoratore immigrato, citta-dino di uno Stato-membro, non potesse benefi-ciare, nello Stato del suo attuale lavoro, di una prestazione previdenziale (per es. della cura gra-tuita di una malattia, di una pensione di vecchiaia, della pensione per un'invalidità permanente ripor-tata, di una quota di salario in caso di disoccupa-zione), perché non vengono calcolati, ad acqui-sirne il diritto, i periodi di lavoro trascorsi in altri Stati della Comunità. Si tende, cioè, ad elargire

ai lavoratori salariati, che abbiano lavorato in più Stati all'interno della Comunità, l'integrale com-plesso dei diritti e dei vantaggi che, in base alle legislazioni previdenziali vigenti nei diversi Stati-membri, essi hanno acquisiti, evitando, però, che questa « totalizzazione » non generi « cumuli in-giustificati » di benefici a favore del lavoratore straniero. Non soltanto: in materia di prestazioni di invalidità, di vecchiaia e di morte (pensione a favore dell'ex-lavoratore o pensione a favore dei superstiti) il sistema tende ad ottenere che il bene-ficiario possa usufruire del « più elevato tra gli importi delle prestazioni che sarebbe dovuto da uno degli Stati-membri, se il lavoratore vi avesse compiuta tutta la sua carriera di lavoro ».

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ritna-ne a carico dell'ente previdenziale dello Stato del lavoro, che ne deve rifondere l'importo all'ente erogatore. Naturalmente gli Stati di forte emigra-zione operaia avranno un maggiore importo di credito previdenziale, che non di debito, verso gli Stati di immigrazione. Questi reciproci rim-borsi e le connesse partite contabili tra gli enti previdenziali degli Stati-membri occasionano in-dubbie difficoltà burocratiche ed anche eventuali contestazioni, le quali saranno composte in via conciliativa e diretta fra le amministrazioni inte-ressate.

Norme particolari riflettono il divieto di cu-mulo ingiustificato delle prestazioni previdenziali in capo ad uno stesso lavoratore (onde evitare lucri illegittimi a favore del lavoratore straniero che abbia lavorato durante la sua carriera di la-voro in molti Stati) e dell'ammissibilità, invece, delle cosi dette « assicurazioni volontarie del la-voratore »; è ammesso — ad es. — che il lavo-ratore, soggetto obbligatoriamente alla legislazio-ne previdenziale dello Stato del lavoro, possa con-trarre un'assicurazione volontaria o facoltativa continuata in altro Stato-membro (per es. nel suo Stato nazionale), a condizione che quest'ulti-mo Stato lo consenta in base alla sua legislazione previdenziale.

Infine poiché questa coordinazione fra sistemi previdenziali diversi nell'ambito del MEC può portare degli inconvenienti e dei risultati insod-disfacenti, molto opportunamente si sono costi-tuiti organi appositi con il compito di formulare, a tempo opportuno, correzioni e modificazioni del sistema. Si sono cosi creati: a) una Commissione

amministrativa per la sicurezza sociale dei lavo-ratori emigranti, composta da rappresentanti

go-vernativi degli Stati-membri assistiti da consiglieri tecnici, con lo scopo di interpretare e di applicare le norme dei Regolamenti vigenti e di promuo-vere la collaborazione fra gli enti previdenziali degli Stati-membri per la liquidazione delle pre-stazioni in favore dei lavoratori; b) un Comitato

consultivo per la sicurezza sociale dei lavoratori migranti, composto da rappresentanti dei governi

e dei sindacati nazionali, per esaminare le que-stioni generali derivanti dall'applicazione dei Re-golamenti e delle Direttive comunitarie e se del caso proporne la revisione.

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Da quanto siamo venuti esponendo possiamo pervenire ad alcune osservazioni conclusive.

È consentits^affermare, in primo luogo, che la comunità ha realizzato innegabili progressi nella sua meta di favorire la circolazione dei lavoratori salariati, cittadini degli Stati-membri nell'ambito comunitario; si nota, anzi, in questo campo una normativa vieppiù liberalizzante dai primi Rego-lamenti del 1961-64 a quelli più recenti del 1968-1971. Purtroppo, però, su alcuni punti fra i più importanti e di maggior interesse pratico per i lavoratori salariati la normativa e la prassi comu-nitarie appaiono ancora insoddisfacenti.

Anzitutto — come si è già rilevato — la prefe-renza di assunzione a favore dei lavoratori nienti dagli Stati-membri rispetto a quelli prove-nienti da Stati non-membri, ancorché formalmente disposta, è in concreto poco osservata. In secondo luogo la potestà, totalmente discrezionale, delle autorità di polizia degli Stati di immigrazione di revocare il permesso di soggiorno in danno dei lavoratori stranieri, allegando generici motivi di sicurezza o di ordine pubblico, rende gravemente aleatoria la permanenza di taluni lavoratori nel luogo di lavoro con la consequenziale espulsione e rientro in patria in stato di disoccupazione. Non essendo possibile negare agli Stati di immigra-zione — o meglio alle loro autorità di polizia — il potere di espulsione delle persone « non gra-dite », sarebbe quanto meno auspicabile che esso fosse maggiormente delimitato nella sua discre-zionalità; potrebbero — ad es. — escludersi espli-citamente, tra i motivi di espulsione, quelli di aver occasionato litigi con lavoratori nazionali per essere stati da questi provocati e percossi, di avere partecipato a manifestazioni di protesta a causa di comportamenti discriminatori ed illegit-timi assunti in loro danno dai datori di lavoro, di aver fatta propaganda presso i compagni di la-voro di ideologie politiche invise al governo dello Stato di lavoro, ecc.

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Stato di cittadinanza a quello di lavoro, ecc.). Assai più grave la situazione occasionata dai licenziamenti della manodopera straniera a se-guito di crisi economica dello Stato del lavoro. È intuitivo che in tutti i casi in cui le industrie di un paese debbano ridurre la produzione e quin-di licenziare o porre in cassa quin-di integrazione nu-merose aliquote delle loro maestranze, i primi ad essere sacrificati siano i lavoratori stranieri immi-grati al fine di conservare più a lungo possibile il posto di lavoro ai lavoratori nazionali.

Come si è visto, la normativa comunitaria ha emanate norme e predisposte previdenze anche a favore dei lavoratori stranieri, cittadini di Stati-membri, sia parificandoli ai lavoratori nazionali nel godimento delle previdenze disposte in favore dei disoccupati, sia escludendo per un periodo di tempo abbastanza lungo la revoca della carta di soggiorno onde dar modo al lavoratore disoccu-pato di trovare altra occupazione nello Stato este-ro di soggiorno. Queste disposizioni non appaio-no, però, sufficienti ed alcune altre, almeappaio-no, potrebbero essere adottate a lenire le ripercus-sioni negative del fenomeno. Potrebbe — per es. — statuirsi l'obbligo di determinate scelte: licenziare dapprima i lavoratori meno bisognosi (per minori carichi famigliari o per prossimità di pensionamento) e trattenere, invece, quelli in con-dizioni meno favorevoli; concedersi anche ai lavo-ratori esteri immigrati, divenuti disoccupati, la preferenza nelle assunzioni in altre industrie dello Stato di immigrazione rispetto ai lavoratori na-zionali aspiranti ad una prima occupazione, ecc.

Alcuni miglioramenti potrebbero pure essere introdotti nel sistema previdenziale comunitario, giacché, nonostante gli sforzi finora fatti per la coordinazione delle legislazioni di sicurezza so-ciale degli Stati-membri, i risultati conseguiti han-no dimostrato, in concreto, lacune e difetti. Un risultato notevole potrebbe essere conseguito se si riuscisse — in un f u t u r o non troppo lontano — ad armonizzare integralmente le legislazioni so-ciali degli Stati-membri, quanto meno sui punti più importanti: uguali periodi di continuata atti-vità di lavoro per lucrare le medesime prestazioni previdenziali; uguale ammontare patrimoniale delle medesime; uguali procedure di accertamen-to e di corresponsione; uguali benefici e di pari entità ai famigliari, ancorché residenti all'estero; sveltimento nelle pratiche di reciproco servizio fra gli uffici previdenziali degli Stati-membri, ecc.

In ultimo si deve rilevare che fino ad ora gli organi comunitari non si sono interessati allo spe-cifico problema dei cambi monetari in favore dei lavoratori stranieri. Può accadere, invece, che il lavoratore straniero, remunerato nella moneta corrente nel paese di lavoro, volendo cambiare il riscosso salario nella moneta del suo Stato na-zionale (per es. per rimetterlo ai proprii fami-gliari rimasti in patria), sia danneggiato pecunia-riamente dalla diversità del cambio (cambio libero e cambio ufficiale) praticati nei due Stati.

L'inconveniente si è presentato recentemente in danno dei lavoratori italiani che lavorano in Francia ed in Germania (ed anche in Svizzera, che, però, non appartiene alla Comunità Euro-pea), in quanto la legge italiana divieta di intro-durre in Italia somme in lire italiane superiori a L. 35.000; i lavoratori dovrebbero introdurvi o inviarvi la valuta estera conseguita nello Stato del lavoro (franchi francesi, marchi tedeschi). Senonché il cambio ufficiale di queste monete è, in Italia, meno favorevole di quello libero prati-cato in Francia ed in Germania e pertanto i lavo-ratori italiani, residenti per ragioni di lavoro in questi paesi, preferiscono cambiare in loco l'am-montare dei loro salari ed inviare od introdurre in Italia lire italiane. Questo esempio dimostra come le fluttuazioni dei cambi monetari e le dif-ferenze fra cambi liberi e cambi ufficiali possano arrecare danno ai lavoratori emigrati determi-nando proteste collettive, spesso violente, che sa-rebbe bene prevenire con adeguate previdenze.

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Vedere nella legislazione italiana il D.P.R. 30-XII-1965, n. 1656, e il D.P.R. 29-XII-1969, n. 1225, sulla circolazione ed il soggiorno dei cittadini degli Stati-membri della CEE in Italia e il D.M. 9-VI1-1971 sul conferimento della carta di soggiorno ai medesimi.

B I B L I O G R A F I A

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Milano, 1974.

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Dibattito sulla programmazione in Piemonte

(2° parte)

Come preannunciato nel numero di luglio-agosto, la Direzione della rivista è lieta di pubblicare, a completamento dei precedenti interventi sul tema della programmazione regionale, i contributi critico-operativi che la Federazione regionale delle Unioni agricoltori del Piemonte, l'Associazione piccole e medie industrie di Torino e provincia, la Commis-sione provinciale per l'artigianato di Torino, la Federazione regionale dell'artigianato del Piemonte aderente alla Confederazione generale italiana dell'artigianato e la Commissione permanente del Consiglio regionale per la tutela dell'ambiente hanno inviato in rappresen-tanza degli interessi e delle aspirazioni delle rispettive forze sociali.

Per una buona pianificazione agricola ricordiamoci anche delle direttive comunitarie.

La programmazione in agricoltura da un lato va intesa come lo strumento per superare gli squi-libri di reddito tra il settore primario e gli altri settori, dall'altro come una modalità importante della politica del territorio nel suo complesso.

Teniamo separati i due punti di vista. Intesa nel primo significato la programmazio-ne deve porsi come obiettivo prioritario quello della razionalizzazione dei processi produttivi, tenendo naturalmente conto degli aspetti di tra-sformazione e commerciali.

Mancano a questa definizione, sulla quale tutti possono essere d'accordo, i contenuti concreti da un lato e gli strumenti operativi idonei a tradurre in pratica le impostazioni generali dall'altro.

Sul primo punto non possono esservi dubbi. Gli scopi della programmazione a livello regio-nale non possono essere diversi da quelli della politica agricola nazionale, e questi, a loro volta, non possono differire dalle impostazioni concor-date in sede europea.

Questa tesi trova conferma nella Costituzione e nei Trattati liberamente sottoscritti dall'Italia al momento della fondazione del Mercato comune agricolo e non la si può negare senza chiedere implicitamente la revisione della Costituzione e la denuncia dei trattati internazionali.

La conseguenza di tutto ciò è che il contenuto della programmazione agricola non potrà essere che quella politica di « riforma delle strutture » deliberata due anni e mezzo fa a Bruxelles,

finan-ziata quasi interamente dalla CEE e che ha come scopo proprio quel riequilibrio settoriale e terri-toriale da tutti auspicato.

Che cosa si tratta di fare in concreto? Si tratta di dare vita ad una agricoltura il cui nerbo sia una consistente rete di imprese agricole efficienti, sostenuto da u n costante ed adeguato flusso cre-ditizio, dove i protagonisti siano imprenditori dinamici e tecnicamente aggiornati; e poi di crea-re raccordi a monte e a valle per garanticrea-re approv-vigionamenti a basso costo ed il collocamento della produzione a prezzi remunerativi e soppor-tabili per i consumatori; ed ancora offrire agli operatori un'assistenza tecnica e socio-economica ad alto livello, capace di orientare la produzione nel senso delle esigenze del mercato nazionale ed europeo.

Il fatto che in Italia non si sia fatto nulla in questa direzione non può giustificare ulteriori in-dugi da parte delle autorità nazionali, anche per-ché rimandare ancora il recepimento delle di-rettive comunitarie non può che significare un sostanziale distacco dell'Italia dall'Europa con tutte le conseguenze del caso.

Una volta accolte nel nostro ordinamento, le direttive comunitarie equivarrebbero alle leggi quadro sull'agricoltura, attese ma mai promul-gate, e darebbero alle Regioni un punto di rife-rimento certo per le loro iniziative.

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pro-grammazione, ed in primo luogo alle Regioni, uno sforzo considerevole e dal punto di vista dell'acquisizione delle conoscenze e dal punto di vista della scelta degli strumenti di intervento.

A questo proposito il piano zonale sembra essere, se correttamente attuato, una valida rispo-sta ad entrambi i problemi.

Infatti la scelta di una dimensione geografica-mente ristretta favorisce una più chiara cono-scenza della realtà da modificare, mentre gli in-terventi saranno tanto più efficaci quanto più specifici, adatti cioè ad una zona, ad un gruppo di aziende o addirittura alla singola impresa.

Il piano zonale non è tuttavia sufficientemente definito per poter essere accolto senza riserve. Vi sono alcune condizioni a cui gli imprenditori agricoli non possono rinunciare. La prima è che i protagonisti della programmazione, sia a livello di elaborazione che di attuazione, devono essere gli imprenditori agricoli medesimi.

La seconda è l'esclusione, nella fase di attua-zione, di qualsiasi intervento coercitivo, in linea con l'impostazione europea che identifica nel con-senso e nella volontarietà le caratteristiche di qualsiasi programmazione democratica.

La terza è il mantenimento (o il ripristino) del carattere economico dell'attività agricola con il riconoscimento del ruolo essenziale ed insostitui-bile dell'impresa singola od associata, come cen-tro di decisioni appunto economiche.

Cosi definiti i vincoli della programmazione di zona, occorre affrontare il problema di come tra-durre in fatti concreti le indicazioni di fondo sulle quali ci si è soffermati.

Agli organi regionali responsabili della pro-grammazione si aprono due strade. La prima che richiede tempi lunghi o lunghissimi, consiste in

un'indagine .analitica condotta sull'intero terri-torio regionale e nell'approntamento di piani per tutte le zone cosi individuate. La seconda, che al contrario potrebbe essere immediatamente attua-ta, tende ad evidenziare i punti di crisi più gravi nell'ambito del territorio, a coinvolgere fin dal-l'inizio gli operatori agricoli nello studio delle possibili soluzioni e ad intervenire efficacemente, col consenso degli interessati, per rimuovere gli ostacoli di natura strutturale che impediscono lo sviluppo.

Articolare questo piano di zona secondo questo modello presenta indubbiamente alcuni vantaggi. Oltre a quello dell'immediata operatività di cui si è detto, vi è la relativa facilità con cui i piani di zona cosi concepiti possono essere collegati con la politica del territorio e la programmazione regio-nale nel suo complesso.

La Confagricoltura, da parte sua, ha indicato i fondamentali criteri di una politica di program-mazione che tenga conto, da un lato delle esi-genze del paese, e dall'altro delle uresi-genze del settore produttivo agricolo, attraverso la propria proposta di legge di iniziativa popolare « Norme per l'ammodernamento dell'agricoltura », annun-ciata nella Gazzetta Ufficiale del 29-10-71 n. 275.

Una programmazione che non sia fine a se stessa, ma che si proponga veramente di elevare il tenore di vita di una popolazione, non può non preoccuparsi in via prioritaria di eliminare le situazioni più gravi.

E poiché il sottosviluppo agricolo, coincide quasi ovunque con il sottosviluppo tout-court, il sorgere di una agricoltura efficiente è la risposta più logica che si possa dare se si vuole veramente che i problemi economico-sociali di una Regione siano avviati a soluzione.

B R U N O P U S T E R L A

Direttore della Federazione Regionale delle Unioni Agricoltori del Piemonte

Finanziaria regionale e qualificazione del personale: due strumenti fondamentali per venire incontro alle piccole industrie.

La piccola industria italiana in tutto questo dopoguerra ha continuato a svilupparsi e pro-gredire malgrado le difficoltà che ha sempre dovuto superare.

Come nel resto dell'Italia, anche in Piemonte la piccola industria ha combattuto fra molte dif-ficoltà anche se minori rispetto alle altre regioni, in considerazione della tipologia industriale

pie-montese, che è incentrata su alcune grandi indu-strie trainanti le quali hanno consentito alle imprese minori uno sviluppo nella scia del loro stesso sviluppo.

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del Piemonte e dalla forte concentrazione attorno all'area metropolitana torinese.

Secondo lo studio dell'IRES, le piccole im-prese — intendendo per tali quelle che occupano da 10 a 100 addetti — rappresentavano nel

1951 circa il 2 0 % dell'occupazione industriale del Piemonte. La percentuale aumenta negli anni '50 e nella prima metà degli anni '60; nel 1965 la piccola industria assorbiva il 2 3 % dell'occu-pazione regionale. Negli anni successivi, tutta-via, col complicarsi della situazione sociale e produttiva, le piccole imprese perdono di inci-denza e alla fine del '71 l'occupazione da esse offerta rappresenta solo più il 2 0 % del totale.

Questi dati ci mostrano come le piccole im-prese siano più vulnerabili rispetto alla situazione congiunturale generale: nel momento in cui l'eco-nomia è in fase espansiva, le piccole industrie sanno sfruttare, forse meglio delle altre, le op-portunità che si presentano, mentre incontrano difficoltà decisamente superiori quando l'econo-mia è in fase stagnante o comunque la situazione economica e sociale non esprime un quadro ras-sicurante.

Ma oltre questo principio di carattere gene-rale, vi è un altro fatto più specifico che ha svan-taggiato la piccola industria: l'evoluzione veri-ficatasi nella struttura dei costi aziendali.

L'andamento dei costi, da un decennio a questa parte, ha visto incrementarsi in modo massiccio il costo del lavoro. Per le piccole imprese, che solitamente non sono impostate su tecnologie molto avanzate, o che comunque utilizzano il fattore lavoro in misura percentualmente più rilevante rispetto alle aziende di altre dimensioni, questa maggiore incidenza ha determinato squi-libri a volte molto gravi.

Se sono esatte le affermazioni su esposte, si può comprendere in quale grave situazione si trovi oggi la piccola industria in Piemonte.

La crisi che sta attraversando il Paese è la più grave di questo dopoguerra. Essa sta toccando quasi tutti i settori produttivi e pertanto le pic-cole aziende di ogni settore risentono di tale si-tuazione. Ma se questa crisi è grave per tutti, ancor più grave è per le industrie ubicate in Pie-monte e particolarmente nell'area metropolitana di Torino. Le difficoltà, non solo congiunturali, che l'economia torinese sta incontrando sono evi-denziate in questi giorni da tutta una serie di situazioni negative, I casi più clamorosi sono stati riportati dai giornali, come quelli dell'Emanuel,

della Indesit, ecc.; ma tali casi non sono che gli aspetti più rilevanti e noti di una situazione di disagio ben più generale.

Proprio in questi giorni stiamo assistendo ad un vivace dibattito sulla situazione FIAT. Non è qui il caso di fare presente l'estrema importanza che ha lo sviluppo di questa azienda per l'eco-nomia regionale e torinese in particolare. La ca-pacità della classe dirigente aziendale, unitamente alla classe politica e sindacale, di dare nuovo slancio allo sviluppo di questa azienda costitui-sce la chiave di volta, nel medio termine, per consentire all'intera economia regionale un futuro quanto meno privo di quel carattere di estrema fragilità che è caratteristico del momento attuale. Attorno alla FIAT ruotano oggi, direttamente o indirettamente, quasi tutte le attività imprendi-toriali dell'area torinese. Di conseguenza anche la piccola industria guarda con estremo interesse all'evoluzione di tale azienda.

Le gravi affermazioni fatte dal dottor Umberto Agnelli nella sua recente intervista all'Espresso circa una possibile riduzione del 25-30% dell'at-tività della FIAT, con conseguente analoga ridu-zione dell'attività delle imprese fornitrici, non può che porci di fronte a delle scelte e a delle decisioni estremamente complesse.

Ma la grande difficoltà della piccola impresa deriva dal fatto che questa crisi di carattere con-giunturale si è sommata e sovrapposta ad una più grave crisi strutturale che ha caratterizzato la piccola impresa ormai da molti anni.

Finché l'economia si espandeva a ritmi vera-mente notevoli e ci si trovava in una situazione di non pieno impiego, la piccola industria ha potuto nascondere e mascherare le proprie insuf-ficienze strutturali con quel senso di imprendito-rialità che con grande spirito di sacrificio il pic-colo imprenditore piemontese ha ereditato dai suoi padri, e forse anche con quella utilizzazione

selvaggia — posto che a tale definizione non si

dia solo un significato negativo — della forza lavoro, ricordata sempre dall'amministratore de-legato della FIAT nella citata intervista.

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raggiun-gendo traguardi che forse qualche anno fa si potevano ritenere ancora molto lontani.

Tali due circostanze — e cioè l'indebolimento della struttura industriale italiana ed il raggiun-gimento di una situazione di quasi pieno impiego, con il conseguente maggiore potere del sinda-cato, — impongono alla piccola industria un sal-to di qualità, un diverso modo di intendere il processo produttivo, una nuova via per affrontare la situazione. Ma per le peculiarità tipiche della piccola impresa, per la sua grande fragilità e frammentarietà, essa non è in grado di elaborare e proporre in modo autonomo, e nel breve pe-riodo, — perché è nel breve periodo che si deve agire — soluzioni alternative.

Le piccole industrie chiedono che l'intero si-stema economico e sociale affronti seriamente il problema e consideri la situazione delle piccole industrie con animo disinteressato, ma con la con-vinzione che esse hanno rappresentato ed ancora rappresentano tanta parte di quello che è stato il processo di sviluppo politico, economico e so-ciale del Paese.

Questo serio impegno la piccola industria lo chiede principalmente alle altre due componenti sociali del moderno processo produttivo: al sin-dacato dei lavoratori, alla classe politica, sia cen-trale sia locale.

Ai sindacati non si può non rammentare che la piccola industria, per la sua stessa struttura, non è in grado di assorbire gli stessi oneri che possono invece essere assorbiti dalle grandi im-prese. L'utilizzazione cosiddetta selvaggia della forza lavoro, che forse si è potuta riscontrare ne-gli anni cinquanta, oggi non è più possibile: un diverso modo di concepire il rapporto con i lavo-ratori da parte degli imprenditori, una nuova co-scienza di classe dei lavoratori stessi, l'evolu-zione determinatasi nel contesto nel quale si agisce, il progresso sociale e democratico verifi-catosi in questi anni, impone anche alla piccola industria una certa rigidità nei rapporti con i propri dipendenti.

Ma se si chiede questo nuovo rapporto alle imprese, da parte dei lavoratori non si può di-menticare che queste imprese sono le vere scuole professionali delle grandi aziende, che sono quelle fucine che forgiano gli operai specializzati e che non riescono quasi mai ad utilizzarli, che, infine, se qualche operaio specializzato sceglie di rima-nere nell'ambito della piccola industria, lo fa in contropartita di un salario sensibilmente

superio-re a quello che potsuperio-rebbe ottenesuperio-re psuperio-resso la grande industria.

Il sindacato dei lavoratori non può ignorare questo diverso, e meno economico, modo di uti-lizzo del fattore lavoro che rende, indipendente-mente dalla struttura economica e finanziaria delle competenze del sindacato, più precaria la stabilità aziendale.

Ma essenzialmente nei confronti della classe politica sono indirizzate le richieste dei piccoli imprenditori.

Alcune forze politiche, sia di governo sia di opposizione, che sono corresponsabili della crisi attuale, si atteggiano a portatrici degli interessi e delle aspettative di questo settore dell'apparato produttivo del Paese, per fini per lo più elettora-listici. Ebbene, a queste forze politiche noi chie-diamo di considerare che la piccola industria è ancora essenzialmente produttrice e non distrut-trice di ricchezza per il Paese, e che pertanto ha soprattutto bisogno che vengano difese, o meglio ristabilite, le condizioni generali che non penaliz-zino l'iniziativa economica e il rischio di impresa, che venga garantito un ambiente capace di favo-rire normale selezione e sviluppo delle migliori iniziative produttive, senza che le esigenze

assi-stenziali prevalgano sempre su quelle della

com-petitività.

In tale quadro di carattere generale le piccole industrie chiedono al Governo ed agli organi ese-cutivi locali, principalmente della Regione, pre-cise scelte, al di là delle buone intenzioni tante volte manifestate.

Al Governo centrale si chiede di uscire dal-l'astrattezza ed indicare concretamente come ver-rà impostato quel nuovo modello di sviluppo che da ormai troppo tempo viene proclamato come il grande obiettivo della società italiana, ma che in pratica ha contribuito soltanto a determinare, proprio per la sua astrattezza e le sue incognite, nuova confusione.

Ma venendo ad un discorso pratico, all'auto-rità governativa si chiede che venga revocata la stretta creditizia che ha indiscriminatamente bloc-cato le attività produttive. Se il Paese ha bisogno, e certamente ne ha, di un maggiore rigore di spesa, questo deve essere principalmente indiriz-zato verso quelle attività parassitarie o protette che per tanta parte sono responsabili della situa-zione attuale.

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ter-mine, non verranno quanto prima rimosse, molto difficilmente le piccole industrie riusciranno a superare senza danni l'attuale momento di crisi.

Indipendentemente comunque dal settore ban-cario, l'Amministrazione Statale può concreta-mente agire per migliorare la situazione finan-ziaria delle imprese. I tempi di pagamento delle forniture da parte dello Stato e delle Ammini-strazioni Pubbliche possono essere sensibilmente ridotti. Attualmente questi Enti procedono al pa-gamento delle forniture in tempi che possono anche raggiungere i 200 giorni; se si considera che le piccole imprese in questo periodo si vedono costrette a pagare alla consegna i propri fornitori, ci si rende conto delle immense difficoltà di teso-reria che stanno affrontando.

Analogo discorso può essere fatto per il paga-mento dei rimborsi di IGE, dazio ed IVA.

Anche nei confronti degli organi regionali le piccole imprese hanno motivo di lamentarsi. Or-mai da molto tempo si sente parlare di piano regionale di sviluppo, di nuovo assetto del terri-torio, senza che tali enunciazioni si siano mai tradotte in un piano organico.

Gli operatori economici sollecitano tali scelte in modo da poter operare in una prospettiva più certa, che nel grande sbandamento attuale con-senta di avere quanto meno un punto di riferi-mento su quella che potrebbe essere la struttura regionale nel medio periodo. Ma per fare anche qui un discorso più concreto, all'autorità regio-nale si chiede di dar corso a tutte le infrastrutture che offrono alla piccola industria quei servizi in-dispensabili nell'attuale fase di sviluppo econo-mico, e che la fragile struttura aziendale delle piccole imprese non può individualmente con-sentire.

Da parecchio tempo ormai la Regione Pie-monte ha allo studio la costituzione di una Finan-ziaria regionale. Secondo l'orientamento quasi generale, tale società non dovrebbe agire in pro-prio ma a mezzo di società sussidiarie. Tale tipo

di struttura societaria consente alla Finanziaria Regionale di costituire apposite società di consu-lenza operanti nel campo dell'assistenza econo-mica e commerciale alle piccole aziende. Con questo supporto anche la piccola impresa ver-rebbe messa in condizioni di porre in essere poli-tiche commerciali suffragate da preventive inda-gini di marketing che oggi vengono trascurate o effettuate con eccessivo pressapochismo, il proble-ma del commercio estero potrebbe venire impo-stato in modo più economico, sia per la maggiore assistenza, sia per le ricerche di nuovi mercati.

Con lo strumento della Finanziaria regionale potrebbero anche essere affrontati problemi quali i consorzi di acquisto della cui utilità potrebbero valersi non solo le piccole industrie ma anche tutto il settore commerciale.

Ma al di là delle attività della Finanziaria, la Regione dovrebbe affrontare seriamente altri pro-blemi, primo fra tutti quello della formazione professionale. Si tratta di una esigenza molto sentita che dovrebbe essere articolata su tutto il territorio regionale in relazione alle esigenze ed alle vocazioni industriali delle varie aree indu-striali, tali da fornire anche alla piccola industria una mano d'opera più qualificata.

Non si vuole qui suggerire alla Regione i pro-grammi d'azione, anche perché limitate sono le competenze regionali in materia di piccole indu-strie. Si intende soltanto sollecitare tutte le forze politiche affinché escano dall'immobilismo ormai quadriennale che ha caratterizzato questo nuovo Ente, sul quale si erano accese le attese e le spe-ranze di molti, e si ponga in essere un programma serio di lavoro al quale si possa fare serio riferi-mento.

Alle forze politiche, al Governo, agli Enti lo-cali, ai sindacati dei lavoratori, ognuno nell'am-bito delle proprie sfere di competenza, i piccoli imprenditori chiedono in definitiva un impegno comune, serio e responsabile per superare l'at-tuale momento diffìcile.

A L D O M A R E N G O Presidente Associazione Piccole e Medie Industrie

di Torino e Provincia

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