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All’origine dell’Ecocriticism: i meriti delle Humanities

I. INTRODUZIONE

3. ECOCRITICISM: LA NUOVA ECOLOGIA LETTERARIA E LA CRISI

3.1 All’origine dell’Ecocriticism: i meriti delle Humanities

L’attuale panorama mondiale, caratterizzato da una crisi energetica e ambientale senza precedenti, rivela una situazione di profondo disagio: boschi e foreste in fiamme, ecosistemi minacciati e distrutti, oceani sempre più caldi, ghiacciai che si sciolgono, frequenti emissioni di gas serra ed inquinanti atmosferici, fenomeni meteorologici estremi, specie animali e vegetali che si estinguono e diffusioni incontrollabili di nuove pericolose pandemie. Questo è il drammatico scenario odierno che i giornali e i notiziari di tutto il mondo si impegnano a denunciare con toni sempre più catastrofici ed apocalittici, manifestando le crescenti preoccupazioni della comunità mondiale di esperti riguardo alla salute del pianeta e della natura. È ormai palese che la società umana sia giunta ad un punto del proprio sviluppo in cui non è più possibile portare avanti una crescita incontrollata, incurante dell’ambiente e delle conseguenze che comportamenti sbagliati hanno riportato su di esso. Infatti, l’aggravarsi della crisi ambientale dei nostri giorni ha fatto sì che entrassero nel linguaggio comune nuovi termini, come ad esempio “deep ecology”, “anthropocentrism” e “green economy”, che agiscono come indicatori o spie di una graduale presa di coscienza del problema e indicano un lento cambiamento di mentalità, divenuto particolarmente evidente nelle nuove generazioni. Quest’ultime sono pervase da uno spirito di trasformazione che le porta a domandarsi cosa è possibile fare per intervenire in difesa della natura e, seppur nel proprio piccolo, ridurre l’impatto dell’uomo sul pianeta. Si tratta di una domanda molto importante, che inevitabilmente susciterà qualche timore in coloro che se la porranno e che si confronteranno con tematiche così complesse.

Proprio a questo proposito, nel suo libro Ecocriticism: The essential reader del 2015 Ken Hiltner sostiene che è possibile individuare nella maggioranza della popolazione una particolare tendenza, vale a dire che se interrogate su un’eventuale soluzione alla crisi

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ambientale, le persone tenderanno a rivolgersi soltanto alle scienze per trovare una risposta a problemi riguardanti il cambiamento climatico, la conservazione della wilderness e la perdita di biodiversità. Secondo l’autore tale propensione è dovuta soprattutto al fatto che i primi studi sull’ambiente sono stati condotti in ambito scientifico più di quarant’anni fa in rinomate università americane, nelle quali veniva dato ampio risalto alle ricerche di stampo scientifico e, al contrario, si lasciava in disparte il notevole contributo offerto dalle discipline umanistiche. Questo modo di agire ha portato a pensare che il disastro ambientale attuale sia una problematica esclusivamente di competenza della scienza e che l’arte, la letteratura e la musica non siano di alcun aiuto nel risolvere la crisi attuale. Abbey sarebbe profondamente in disaccordo con queste affermazioni, visto che non condivideva l’incondizionata fiducia che i suoi contemporanei avevano nella tecnologia e nella scienza. Concorderebbe, dunque, con Hiltner nell’asserire che anche le scienze umane possono svolgere un ruolo importante nel forgiare un futuro migliore sia per l’uomo che per la natura.

Un’ulteriore prova che conferma le idee di Hiltner è rappresentata dal fatto che tra le opere più influenti di carattere ambientalista del XX e XXI secolo compaiono proprio testi di scrittori, poeti, e giornalisti, come Edward Abbey, Michael Pollan e Rachel Carson, tutti considerati personalità di spicco nella lotta per l’ambiente che hanno contribuito in modo sostanziale al dibattito sull’ecologia senza essere scienziati in senso stretto. In effetti, Pollan è un rinomato saggista e giornalista americano, mentre Abbey possedeva due lauree in inglese e filosofia. Dei tre scrittori nominati Rachel Carson si potrebbe considerare l’unica con una formazione più scientifica rispetto agli altri, visto che riuscì a conseguire una laurea in zoologia presso la Johns Hopkins University. Tuttavia, è bene precisare che si guadagnava da vivere scrivendo opere di divulgazione, dapprima dedicandosi a piccoli opuscoli e cataloghi e, successivamente, passando alla scrittura di libri di fondamentale importanza come Silent Spring (1962), che l’avrebbero consacrata per sempre come una delle voci più autorevoli levatasi in difesa della wilderness. Pertanto, nonostante le scienze forniscano un contributo unico nello studio dell’ambiente e della sua conservazione, anche le cosiddette Humanities possono offrire un’essenziale collaborazione, dato che la scrittura, creativa, diaristica, divulgativa, non solo può trasformarsi in un efficace mezzo di comunicazione di idee e principi, ma può anche avere un enorme impatto ambientale:

I am firmly of the conviction that now, more than ever, we are in need of talented environmental writers. (Hiltner, 2015: xiii)

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Le Humanities permettono all’uomo di avere più chiara l’attuale condizione ambientale e, in più, lo aiutano a trovare una risposta ad uno degli interrogativi più complessi della storia, cioè che tipo di relazione esista tra l’uomo e la natura. Più precisamente, l’attuale crisi ambientale ed energetica ha assunto una maggiore rilevanza ed urgenza poiché sembra chiaro che l’uomo si sia ormai scordato della profonda connessione che lo lega alla natura, culla ed origine della vita. In effetti, la visione della natura o, più precisamente, della wilderness è molto cambiata nel corso del tempo, arrivando ad evolversi ed assumere diverse rappresentazioni, delle quali alcune positive e benevole, mentre altre negative ed ostili. Non è di certo una coincidenza che nella sua opera intitolata Natura, prodotta in collaborazione con Roberto Bondì nel 2014, Antonello La Vergata indichi il termine “natura” come una delle parole più ambigue della filosofia e dell’intera cultura occidentale. Insieme all’aggettivo “naturale”, questi vocaboli hanno assunto una quantità sconvolgente di significati diversi, che cambiano a seconda del contesto culturale e del momento storico preso in considerazione: molti concetti o immagini della natura comparsi nel corso della storia hanno condizionato sia il modo, sia le parole con cui parliamo della natura e delle sue infinite rappresentazioni.

In altre parole, dietro a termini come “natura” e “naturale” si celano una grande problematicità e ricchezza storica, le cui radici affondano in un passato lontano. Infatti, i primi che si sono interrogati sul tipo di relazione che esiste tra uomo e natura sono stati i filosofi greci presocratici. Secondo La Vergata, ad essi bisogna attribuire la prima indagine di stampo filosofico sulla natura, che al tempo consisteva nel tentativo di conoscere le cause di ogni cosa e di spiegare il perché gli esseri nascano, muoiano o semplicemente esistano. In questa prima fase la natura veniva descritta in senso molto ampio come un qualcosa di unitario ed estremamente dinamico, che includeva al suo interno tutte le forme di vita e i loro processi. Anche gli uomini rientravano in questo universo dotato di una particolare scintilla vitale e in esso individuavano i principi che spiegavano la realtà. In verità, è bene precisare che nella prima fase di riflessione sul legame tra uomo e natura non esisteva una vera gerarchia che elevasse l’uomo al di sopra di tutte le altre specie e che, in più, lo facesse sentire autorizzato a sfruttare ogni risorsa naturale per incrementare la propria prosperità. Più precisamente, l’arroganza e il sentimento di superiorità degli uomini sulle altre specie, sia animali che vegetali, non si erano ancora manifestati in tutta la loro pienezza, come avverrà invece qualche secolo più tardi. Tuttavia, alcune tracce di questi atteggiamenti è possibile riscontrarle già in certi filosofi dell’epoca: ad esempio, gli Stoici erano profondamente convinti che il mondo fosse stato creato per gli uomini, visto che gli sembrava alquanto inconcepibile pensare che la natura fosse stata

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plasmata per le piante e gli animali che, non avendo la ragione, non avrebbero potuto apprezzarla e sfruttarla in maniera adeguata.

In effetti, questa prima riflessione dimostra come la filosofia sia stata una delle principali discipline umanistiche a fornire un contributo unico e decisivo all’esplorazione della complessa dinamica tra uomo e natura: studiando la storia della filosofia, si può osservare come è gradualmente cambiata la mentalità dell’essere umano, arrivando persino ad analizzare le accezioni moderne del termine natura, solitamente impiegato in relazione alle questioni ambientali. In particolare, La Vergata crede che nella lunga storia della filosofia sia possibile individuare un preciso evento storico di grande importanza, che ha cambiato per sempre l’immagine della natura agli occhi dell’uomo e che, di conseguenza, ne ha determinato un suo “innaturale” trattamento: l’avvento e la diffusione del Cristianesimo.

Nel suo saggio The historical roots of our ecologic crisis, lo storico e studioso Lynn White, Jr. afferma che nessun altro credo religioso è così antropocentrico come il cristianesimo, soprattutto se declinato nella sua versione occidentale: “Christianity is the most anthropocentric religion the world has seen” (White, 2015: 43). Infatti, è proprio nella Genesi che ha inizio il motivo biblico che innalza l’uomo e lo elegge signore della natura. Dopo aver creato la luce, il buio, le piante e gli animali, finalmente Dio creò l’uomo e lo fece a sua immagine e somiglianza. Egli rappresentava il coronamento sacro e felice dell’opera di Dio, dal quale aveva ereditato in gran parte la ragione e la trascendenza, vale a dire doti uniche che lo distinguevano e lo rendevano così speciale agli occhi del divino artefice da concedergli l’onore di dare un nome a tutti gli altri esseri della creazione. Il cristianesimo ha rappresentato una grande rivoluzione che non ha soltanto stabilito una forma di dualismo tra uomo e natura, ma ha anche riaffermato più volte che è segno della volontà divina che l’uomo sfrutti l’ambiente e le sue risorse per i propri fini. In questo modo, viene dichiarata la vittoria della religione cristiana sul paganesimo e su altre dottrine di origine orientale, le quali attribuivano ad ogni elemento naturale l’esistenza di un cosiddetto genius loci, ovvero di uno spirito guardiano, il cui compito principale consisteva nella protezione del regno naturale. Sconfiggendo l’animismo e il paganesimo, la Cristianità è riuscita ad eliminare il sentimento di riverenza e rispetto nei confronti degli spiriti della natura, incrementando, al contrario, l’indifferenza umana al mondo naturale e alle sue sofferenze:

The spirits in natural objects, which formerly had protected nature from man, evaporated. Man’s effective monopoly on spirit in this world was confirmed, and the old inhibitions to the exploitation of nature crumbled. (ivi)

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Sia La Vergata che Lynn White concordano sull’idea che il cristianesimo, la tecnologia e la scienza siano i veri responsabili e colpevoli dell’erronea superiorità dell’uomo sulla natura e sulle altre specie. Infatti, proprio come Abbey, i due autori credono che per risolvere l’attuale crisi ambientale non sia più sufficiente fare soltanto ricorso ad un uso maggiore di scienza e tecnologia, ma che sia, invece, obbligatorio ripensare il nostro rapporto con la natura e la nostra concezione della religione cristiana. Ben presto saremo chiamati ad abbandonare definitivamente gli antichi dogmi religiosi, caldeggianti lo sfruttamento incontrollato della natura in nome di una presunta superiorità dell’uomo, per abbracciare nuovi stili di vita più rispettosi del delicato ecosistema naturale di cui l’uomo fa parte. In questi nuovi sistemi non ci saranno scale gerarchiche tra esseri viventi, ma tutti godranno della medesima importanza. Ebbene, si tratta di un cambiamento epocale, che soltanto alcuni individui radicali e ribelli saranno capaci di avviare. A questo proposito, è interessante notare come Lynn White indichi proprio San Francesco come capostipite di questa schiera di personaggi dotati della giusta audacia per opporsi alla tradizione. Secondo l’autore del saggio, il santo tentò di abbattere la tirannia umana sulla natura e di dare il via ad una rivoluzione spirituale basata sull’uguaglianza tra tutte le creature. Non vi sono dubbi che nella schiera sopra citata rientrino anche scrittori quali Carson, Abbey, Nӕss e molti altri, tutti accomunati dal desiderio di denunciare uno sviluppo e un progresso nefasto ai danni della natura.

A ciò si deve aggiungere che La Vergata attribuisce parte della responsabilità dell’attuale crisi ambientale non soltanto allo sviluppo storico della religione cristiana, ma anche alla rivoluzione scientifica del XVI secolo, accusata di essere stata l’artefice della morte della natura: infatti, con l’avvento della tecnica e della scienza quest’ultima perse la sua sacralità, il disincanto sostituì il timore reverenziale e le nuove tecnologie incoraggiarono il suo sfruttamento oltre limiti prima impensabili: “non più madre, la natura divenne una donna da violentare” (La Vergata, Bondì, 2014: 75). Richiamando alla memoria le descrizioni di Abbey della devastazione della natura, non può non stupire come tra il cosiddetto “Desert Anarchist” e l’autore del volume Natura si instauri un parallelismo nella scelta della stessa metafora: la natura viene personificata e si trasforma in un essere di sesso femminile brutalmente violentato dalla fame di ricchezza e potere di coloro che una volta erano suoi figli. Gli uomini erano stati elevati, in quanto esseri spirituali e dotati di ragione, al di sopra della natura e delle altre creature, considerate mera materia, dunque manipolabile a piacimento. Nonostante La Vergata riconosca che una parte della colpa per la superiorità dell’uomo sulla natura sia da attribuire all’evoluzione storica della scienza e di alcuni concetti scientifici, è necessario precisare che

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l’autore non è affatto contrario a quest’ultima e ne afferma il contributo fondamentale nella trattazione delle questioni ecologiche odierne. Ciò si può chiaramente vedere nel volume

Ecologia e Sostenibilità (2008), prodotto in collaborazione con Giuseppe Ferrari:

Per affrontare problemi così grandi occorrono non solo tesi forti, ma anche analisi sottili, scientifiche, economiche, politiche, filosofiche, storiche. Un contributo non piccolo verrà dalla storia delle idee. Le discussioni attuali mancano di prospettiva storica. Ma le idee e gli argomenti che vengono usati oggi per discutere delle questioni ambientali hanno una storia, come tutte le cose umane.

(La Vergata, Ferrari, 2008: 14)

Ciò su cui Abbey e Lynn White concordano è il bisogno di recuperare il senso della “simpatia cosmica” o “unipatia”, che La Vergata definisce essere l’immedesimazione con la natura, attribuendo a quest’ultima lo stesso valore riconosciuto all’uomo e trattandola non con il distacco di chi ha solo interessi pratici, ma con partecipazione e rispetto. L’uomo deve abbandonare il bisogno di dominare e consumare sempre nuovi enti e deve, al contrario, ritrovare quel senso originario di legame con l’ambiente, la cui ricchezza più preziosa consiste proprio nell’ampia varietà di forme di vita. In effetti, sarebbe un errore considerevole ritenere che siano esseri animati soltanto quelli che hanno una forma corporea simile a quella umana: “L’uomo non è il modello dell’universo” (La Vergata, Bondì, 2014: 94).

In verità, è proprio questo uno dei meriti delle Humanities rispetto alle scienze, ossia il riuscire a fornire una prospettiva totalmente diversa sulla complessa relazione che lega l’uomo alla natura in maniera inscindibile. Pur non riportando calcoli o non essendo basati esclusivamente su valutazioni scientifiche, gli studi delle discipline umanistiche, portati avanti da diversi scrittori e autori proprio come l’anarchico Edward Abbey, riescono ad arrivare dritti alla coscienza dell’uomo e gli ricordano di essere debitore della natura stessa. Essa non è estraneità, negatività o materia informe priva di spirito a cui l’umanità, libera e creativa, può imporre il proprio ordine, bensì è un universo complesso con pari dignità, che risente dei nostri atteggiamenti negativi.

Con il passare del tempo e l’acuirsi della crisi ambientale, le Humanities stanno dando prova del fatto che il mondo e la natura dovrebbero essere visti come organismi viventi di cui siamo parte integrante, e non padroni. Sfortunatamente, il pensare la natura come un organismo pieno di vita e di dignità non garantisce di per sé il rispetto verso l’ambiente e l’odierna crisi ne è una chiara dimostrazione: di fronte alla decadenza attuale legata all’esaurimento delle risorse

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naturali, l’Occidente sta incominciando a rendersi conto dell’importanza dei valori ambientali e del loro rispetto e, per questa ragione, gli ambientalisti stanno cercando di promuovere un’etica ecologica, al cui centro si trovi l’interconnessione tra uomo e natura e che, in più, diffonda una visione olistica dell’ambiente, inteso come entità organica. Tuttavia, è bene precisare che la nuova etica ecologica, che promuove un equilibrio e una comunione con la natura, non dovrà alimentare forme di misantropia come l’anti antropocentrismo, cioè, in altre parole, non dovrà dare il via ad una tendenza opposta che fomenti rancori ed astio nei confronti dell’uomo.

Il fondamentale contributo delle Humanities alla questione ambientale si riesce a vedere con più chiarezza nel caso della wilderness americana. In questo contesto il già complesso rapporto tra uomo e natura assunse dimensioni ancora più evidenti e il graduale cambiamento della rappresentazione della natura, da un’entità pericolosa a una ricchezza da proteggere, si fece maggiormente visibile. Infatti, tracce di questa relazione così complicata sono individuabili già con l’arrivo dei primi pellegrini puritani nel Nuovo Mondo, poiché la loro fede e la loro particolare visione dell’ambiente avrebbero avuto conseguenze profonde sullo spirito della nascente nazione americana. A loro era stata affidata una missione di carattere divino, vale a dire trasformare la natura selvaggia, la wilderness, in un giardino per l’umanità. I primi uomini della frontiera sentivano che la loro lotta contro la natura indomita, luogo di pericolo e di tentazione, non era combattuta solo per la sopravvivenza, ma anche per civilizzare il Nuovo Mondo e portare l’ordine nel caos. Ebbene, secondo La Vergata questo atteggiamento rivela il dramma che si trova alla base della cultura americana, strettamente legata allo scontro tra natura e civiltà. Tuttavia, La Vergata mette anche in luce che nel corso del tempo si affiancò a questa rappresentazione negativa una nuova visione della natura e delle sue risorse: più precisamente, a mano a mano che la wilderness veniva domata e si espandeva la cultura urbana, si diffuse una nuova tendenza caratterizzata da una rivalutazione estetica e morale della natura, che la portava ad essere percepita non come un nemico da sconfiggere, ma come un luogo di rinascita. Infatti, la crescente percezione delle conseguenze negative dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, entrambe tematiche centrali della produzione di Abbey, si trasformarono ben presto in un culto nazionale e in oggetto di aspre critiche:

Ai valori estetici e morali si aggiunsero quelli patriottici: il rapporto con la natura divenne parte integrante dell’identità americana. L’Europa aveva la storia e i monumenti, l’America aveva la wilderness: un’inesauribile guida morale che

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indicava la giusta via di mezzo fra la fede nel progresso e il richiamo cristiano all’umiltà. (La Vergata, Bondì, 2014: 190)

In maniera graduale si diffuse nell’immaginario collettivo l’idea che la wilderness fosse uno spazio da riconquistare e da proteggere, poiché il sempre maggiore restringimento delle aree di natura vergine rendevano l’America pericolosamente simile all’Europa. La natura stava soccombendo al progresso così come la flora e la fauna del deserto dell’Arizona svanivano sotto i cingoli dei bulldozers nel romanzo di Abbey, The Monkey Wrench Gang. In realtà, è proprio in corrispondenza di questo cambiamento di mentalità che le Humanities fornirono un contributo prezioso alla complessa dinamica tra uomo e natura nel contesto americano. Ciò è evidente in ambito letterario, quando negli anni quaranta del XIX secolo nei dintorni di Boston fiorì la corrente del Trascendentalismo, che poneva al centro della sua riflessione proprio il legame umano con l’ambiente. Secondo tale dottrina gli oggetti naturali sono riflessi e simboli della verità, mentre l’uomo trova nella natura incontaminata una fonte di miglioramento morale. Soltanto nel più profondo dei boschi, delle montagne o del deserto l’uomo può ritrovare la vera libertà e sperimentare un più intenso contatto con la schiettezza e la primitività della natura incontaminata. Emerson per primo e, successivamente, Thoreau invitavano a considerare la natura non una semplice massa inerte, bensì un corpo con uno spirito. Da questi autori Abbey ereditò la visione della wilderness come di una necessità vitale, una fonte sacra di vitalità originaria, nella quale era possibile ricercare la propria autenticità lasciandosi alle spalle l’egocentrismo della razza umana. L’aiuto delle Humanities non si ferma con Thoreau ed