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I. INTRODUZIONE

3. ECOCRITICISM: LA NUOVA ECOLOGIA LETTERARIA E LA CRISI

3.3 Le fasi dello sviluppo dell’Ecocriticism

Una prima forma di ecocriticism ha avuto origine in America agli inizi degli anni sessanta del XX secolo, quando l’ecologia letteraria era riuscita ad ottenere una fortuna notevole presso la critica statunitense. Le ragioni di tale successo sono da ricercare nel passato letterario di questo grande paese, la cui cultura ed identità si fondavano su alcune opere riguardanti proprio il difficile legame tra uomo e wilderness. Tra queste si devono ricordare Leaves of grass di Walt Whitman e soprattutto Walden, or Life in the Woods di Henry D. Thoreau. In effetti, la prospettiva critica di questa nuova ed emergente disciplina non si riesce ad applicare facilmente fuori dai confini americani, sebbene il tema della natura sia stato trattato anche in contesti letterari diversi. Ciò lo si deve al fatto che in molte altre letterature, a differenza del caso americano, si registri la totale assenza di opere che consacrino gli esordi della propria tradizione nazionale all’insegna di valori proto ecologisti, come il desiderio di una vita di solitudine e semplicità nella wilderness incontaminata.

È bene precisare che in questa prima fase non è corretto parlare di ecocriticism poiché ancora non era stata sancita né riconosciuta la nascita di un movimento organizzato e coerente. Infatti, nonostante la crescente affermazione dei primi gruppi ambientalisti a metà degli anni sessanta e settanta, i lavori degli studiosi e dei ricercatori, che si erano occupati delle preoccupazioni per la salute della natura e delle critiche relative alle nuove teorie ecologiste, non erano considerati parte della medesima dottrina, ma, al contrario, erano suddivisi in altre categorie letterarie, come il pastoralismo o gli American Studies. Secondo Pippa Marland e il suo articolo, Ecocriticism, del 2013 la mancanza di coerenza e di unità interna di questa nuova dottrina nei suoi primi tempi ne riduceva in maniera considerevole l’attendibilità:

The multiplicity of perspectives and objects of study outlined above has perhaps contributed to an enduring perception in certain quarters of the academy that ecocriticism lacks legitimacy or coherence as an area of critical theory. (Marland, 2013: 846)

In verità, il termine “ecocriticism” verrà usato per la prima volta soltanto nel 1978 da William Rueckert in un suo saggio intitolato Literature and Ecology: An Experiment in

Ecocriticism, nel quale l’autore cercava di applicare i principi e i concetti dei movimenti

ecologisti allo studio della letteratura. Si trattava di un nuovo approccio critico, che fino ad allora non era mai stato esplorato ma che, da quel momento in poi, avrebbe ottenuto un gran successo. Infatti, una delle più importanti e più autorevoli opere appartenenti alla prima fase

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dell’ecocriticism è indubbiamente Silent Spring (1962) di Rachel Carson, vale a dire un’inchiesta sulle conseguenze dell’uso del DDT considerata il manifesto antesignano del movimento ambientalista e fonte di ispirazione per la fondazione della futura agenzia americana per la difesa dell’ambiente, la U.S. Environmental Protection Agency (EPA). Secondo Scaffai, la nascita di un filone di studi identificabile con l’etichetta “ecocriticism” risale soltanto agli inizi degli anni novanta. In particolare, nel dicembre 1991 si tenne una sessione speciale della Modern Language Association intitolata esattamente Ecocriticism: The Greening of Literary

Studies, alla quale presero parte Harold Fromm e Cheryll Glotfelty, vale a dire due degli

esponenti più importanti del mondo accademico i cui scritti sul legame tra natura e letteratura sono universalmente considerati come le pietre miliari dell’ecocriticism. Più precisamente, il primo è un docente di inglese presso l’Università dell’Arizona, mentre la seconda insegna all’Università del Nevada a Reno. A loro si deve la consacrazione della nuova disciplina per mezzo della pubblicazione nel 1996 di un cospicuo volume, The Ecocriticism Reader:

Landmarks in Literary Ecology, curato da entrambi i professori e divenuto ben presto testo

canonico della materia. L’opera presenta dimensioni notevoli e obiettivi ambiziosi, visto che raccoglie i contributi di vari studiosi nordamericani considerati anticipatori e fondatori dell’ecocriticism come, ad esempio, il saggio di William Rueckert, in cui viene usato per la prima vera volta questa espressione. Nella sua introduzione al testo Glotfelty ribadisce l’unicità e l’originalità dell’approccio critico della nuova disciplina, denunciando la disgregazione e la mancanza di compattezza che ne hanno caratterizzato la nascita: infatti, i primi studiosi della materia difficilmente facevano riferimento alle ricerche degli altri specialisti poiché non erano al corrente della loro esistenza. In altre parole, mancava un senso di coscienza comune:

Che cos’è dunque l’ecocriticism? In parole povere, l’ecocriticism è lo studio della relazione tra la letteratura e l’ambiente fisico. Proprio come la critica femminista esamina il linguaggio e la letteratura da una prospettiva di genere, e la critica marxista porta la consapevolezza dei sistemi di produzione e della classe economica nel suo modo di leggere i testi, così l’ecocriticism ha un approccio agli studi letterari incentrato sulla Terra. Gli eco-critici e i teorici fanno domande come le seguenti: com’è la natura rappresentata in questo sonetto? Quale ruolo ricopre lo scenario naturale della trama di questo racconto? I valori espressi in questo dramma sono in accordo con il sapere ecologico? (Glotfelty, 2017: 59)

Glotfelty e Fromm affermano che esistono almeno due approcci dell’ecocriticism alla letteratura: il primo è “storico ermeneutico”, vale a dire che è volto ad analizzare ed interpretare

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la relazione tra uomo e natura esistente in un testo, il secondo, invece, è “etico pedagogico”, cioè punta a fare dell’opera letteraria uno strumento di diffusione della coscienza ambientale. Quest’ultimo aspetto si può particolarmente apprezzare in Edward Abbey, che si serve del romanzo The Monkey Wrench Gang per offrire ai propri lettori una visione più chiara delle tremende ricadute sull’ambiente che i comportamenti umani, ormai totalmente incuranti della

wilderness e dei suoi delicati equilibri, hanno avuto nel corso del tempo. Egli cerca di mettere

in luce il bisogno urgente di riconsiderare la tipologia di relazione che l’essere umano instaura con il mondo naturale, rimarcando con forza che è stata proprio la nostra visione culturalmente costruita della natura a farci sentire autorizzati a poter sfruttare la wilderness ben oltre il limite del possibile. Abbey era convinto che la specie umana prima o poi sarebbe stata costretta a recuperare quella stretta connessione che la legava all’ambiente, chiamata da Lawrence Buell “human and non-human web of interrelations” (Marland, 2013: 846). Grazie agli studi di quest’ultimo nel campo della critica ecologica nordamericana, è stato possibile compiere un rinnovamento sostanziale. Professore di Letteratura americana a Harvard, Buell non si è occupato soltanto del trascendentalismo di Emerson e Thoreau, ma ha anche esteso i limiti dell’ecocriticism, slegandolo dal mito originario della purezza e della wilderness. Più precisamente, Buell ha cercato di individuare i limiti dell’ecocriticism e ne ha preso le distanze: infatti, secondo l’autore il termine “ecocriticism” potrebbe erroneamente portare a pensare ad “un gruppo di adoratori della natura”; al suo posto suggerisce la più adeguata etichetta “Environmental Criticism”, che indica lo studio di ambienti ibridi, dove naturale e artificiale si mescolano.

Sarà soltanto nel 1992 che il nascente ecocriticism otterrà un ulteriore riconoscimento visto che in quell’anno venne creata, in occasione dell’incontro annuale della Western Literature Association, la Association for the Study of Literature and Environment (ASLE), presieduta da Scott Slovic, che all’epoca lavorava come docente alla University of Nevada di Reno, una delle prime università americane ad aver attivato un percorso di studi relativo alla letteratura e all’ambiente. Tale associazione aveva l’obiettivo di promuovere la circolazione e lo scambio di idee che in ambito letterario consideravano il rapporto tra gli esseri umani e il mondo naturale. Marland sostiene che la fondazione di questa prima organizzazione di professionisti e studiosi dell’ecocriticism fu seguita per volere di Patrick Murphy nel 1993 dall’istituzione di una rivista critica intitolata Interdisciplinary Studies in Literature and

Environment (ISLE) con lo scopo di creare un punto di riferimento per gli studi critici che siano

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spicca in particolare la Gran Bretagna, dove nel 1998 fu creata un’associazione gemella dotata della propria rivista, Green Letters, pubblicata per la prima volta nel 2000. Parallela alla versione britannica, esiste un’altra organizzazione che viene considerata la corrispettiva europea dell’ASLE: la European Association for the Study of Literature, Culture, and the Environment (EASLCE). Tutte le associazioni ed organizzazioni nominate cercano di dare risalto al contributo che le scienze umane possono dare sia all’attuale crisi ambientale sia alla relazione umana con la natura, ambiti a lungo considerati di sola pertinenza delle scienze.

Trascorsa una prima fase di assestamento coincidente con le origini della disciplina, l’ecocriticism conobbe un rapido sviluppo suddiviso in più fasi. In un articolo del 2011 intitolato Literature and the Environment, frutto della collaborazione di tre autorevoli esponenti dell’ecologia letteraria, vale a dire Lawrence Buell, Ursula K. Heise e Karen Thornber, si afferma che è possibile individuare due fasi principali nello sviluppo di questa nuova disciplina critica. Più correttamente, Buell sostiene che si dovrebbe parlare di “ondate” o di “ecocritical waves” (Marland, 2013: 851), espressioni che potrebbero essere sostituite anche dal termine “palimpsest” (ivi), poiché non si deve commettere l’errore di pensare che i diversi stadi dell’ecocriticism siano separati tra di loro. Al contrario, tra di essi esiste una profonda connessione che non solo permette alle nuove fasi di innestarsi in quelle precedenti, fungendo da solida base, ma addirittura rende possibile individuare i tratti più importanti della corrente critica che sono rimasti stabili nel tempo e che sono stati tramandati all’ondata successiva. È stato Buell nel suo volume The Future of Environmental Criticism, pubblicato nel 2005, ad adottare per primo questa suddivisione, pur ammettendo che non è sempre facile stabilire una distinzione netta tra le prime due fasi e farvi rientrare le diverse opere ed autori. Nel libro afferma che la prima ondata dell’ecocriticism, soprattutto negli Stati Uniti, era particolarmente interessata alle modalità e alle strategie di rappresentazione letteraria del mondo naturale, dedicando buona parte delle sue energie alla ricerca di quelle forme di espressione letteraria e narrativa che potessero meglio esprimere il messaggio ambientalista degli autori di questa fase iniziale. La prima generazione di autori dell’ecocriticism, generalmente appartenenti tutti al XX secolo e tra i cui nomi più importanti Pippa Marland inserisce quelli di Edward Abbey, Wendell Berry e Annie Dillard, trattava tematiche relative alla wilderness, al genere del nature writing e prendeva a modello di riferimento testi importanti come Walden; or, Life in the Woods di Thoreau e gli scritti di John Muir incentrati sulla natura selvaggia della Sierra Nevada in California. Questi scrittori erano elogiati per l’elevata raffinatezza dei loro testi, nei quali amavano rappresentare spesso la natura selvaggia e incontaminata, rivelando così la forte

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influenza del Trascendentalismo americano del XIX secolo. I loro scritti ponevano l’enfasi sulla funzione rieducativa e morale della natura, sola entità in grado di donare la vera libertà all’uomo, e, inoltre, ribadivano la profondità e l’unicità del legame che l’individuo stabilisce con il paesaggio naturale e la wilderness. Più precisamente, Buell, Heise e Thornber definiscono questa radicata connessione di tipo biologico, psicologico e spirituale con il mondo naturale “innate bond” (Buell, Heise, Thornber, 2011: 419). L’obiettivo principale consisteva nel promuovere il contatto con la natura al fine di preservarla e valorizzarla, analizzando il collegamento tra uomo e natura principalmente a livello locale e regionale. Lo si può vedere quando Abbey decide di rendere noto non lo sfruttamento smodato delle risorse naturali portato avanti in tutto il pianeta, bensì sceglie di limitare la sua azione denuncia alla distruzione del Colorado Plateau e della Four Corners Region:

For first-wave ecocriticism, “environment” effectively meant “natural environment”. In practice if not in principle, the realms of the “natural” and the “human” looked more disjunct that they have come to seem for more recent environmental critics – one of the reasons for preferring “environmental criticism” to “ecocriticism” as more indicative of present practice. Ecocriticism was initially understood to be synchronous with the aims of earth care. Its goal was to contribute “to the struggle to preserve the biotic community”. The paradigmatic first-wave eco-critic appraised the effect the effects of culture upon nature, with a view toward celebrating nature, berating its despoilers, and reversing their harm through political action. (Buell, 2005: 21)

È molto interessante notare come ogni paese sia stato in grado di sviluppare una differente ed originale variante dell’ecocriticism. Se in America tale disciplina riscosse un notevole successo grazie alle opere narrative di grandi scrittori, in altri paesi oltre l’oceano, come ad esempio in Gran Bretagna, un contributo fondamentale alla nuova critica ecologica non fu dato soltanto dalla narrativa, bensì dalla poesia,definita da Jonathan Bate “eco-poetry” (Marland, 2013: 849). In effetti, la prima ondata dell’ecocriticism inglese se ne servì soprattutto per incrementare la sensibilità alle tematiche ambientali. Per Bate, la poesia romantica inglese, con un’attenzione particolare per le opere di William Wordsworth, consente all’uomo di comprendere meglio la propria appartenenza al mondo naturale, con il quale condivide una parte di vulnerabilità:

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Green critics should not approach poetry with a “set of assumptions or proposals about particular environmental issues, but as a way of reflecting upon what it might mean to dwell with the earth. (ivi)

Contrariamente alla prima, la seconda ondata dell’ecocriticism, composta per lo più da autori e opere del XXI secolo, presta molta attenzione a non sublimare eccessivamente la

wilderness, tendenza propria di vari scrittori della fase precedente. Più precisamente, avviene

un cambiamento di vedute radicale che porta questa nuova ondata a non focalizzare più le critiche e gli studi soltanto su di un’idealizzazione bucolica della natura, o come la chiama Hiltner “some sort of imagined pristine wilderness” (Hiltner, 2015: 131). Lo sguardo viene ora rivolto a questioni ambientali attuali di grande rilevanza ed urgenza come, ad esempio, la segnalazione delle aree naturali dove la devastazione e la distruzione umana sono divenute più visibili: esempio lampante dei nuovi temi trattati è l’opera di Rachel Carson, Silent Spring (1962), che deve il suo titolo alla costatazione della mancanza del canto degli uccelli nei campi primaverili per via del massiccio utilizzo di insetticidi e agenti chimici che ne hanno determinato una grave strage. In effetti, Hiltner afferma che uno dei vantaggi più importanti di questo cambiamento di priorità consiste nel fatto che la nuova ondata è in grado di ottenere un maggior riconoscimento culturale e, di conseguenza, più influenza politica nel fare valere la propria azione di denuncia, visto che l’environmental criticism non si occupa solamente di una passata natura pastorale, ma tratta anche tematiche legate all’attualità del XXI secolo. Tuttavia, è bene specificare che anche gli studiosi della seconda fase possono occuparsi di argomenti legati al primo ecocriticism, pur essendo perfettamente consapevoli delle implicazioni che questa scelta comporta: ad esempio, Hiltner sostiene che nell’apertura di Silent Spring Carson offra ai propri lettori una visione estremamente romantica della natura. In verità, l’occhio attento di un autore appartenente alla seconda ondata critica si accorgerà che si tratta di una strategia retorica che l’autrice adotta per raccogliere consenso di fronte alla distruzione della natura. Egli non si lascerà influenzare da questa rappresentazione del mondo naturale, ma cercherà di capire quali tecniche rendono possibile tale idealizzazione.

In realtà, tra le tematiche care al secondo ecocriticism compare la cosiddetta “Environmental Justice (EJ)”: concetto sviluppatosi a partire dagli anni 80 del XX secolo e che nel corso del tempo è arrivato ad indicare lo stretto legame che, sfortunatamente, esiste tra inquinamento, razzismo e discriminazioni di diverso tipo. In verità, sarebbe un errore credere che l’eco-criticismo si interessi solo di ambiente, visto che prende in considerazione anche una gran varietà di problematiche, siano esse sulla razza, sul genere o sulla classe sociale di

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appartenenza, che si intrecciano al tema più ampio della natura e della sua rappresentazione. Più precisamente, l’Environmental Justice cerca di far notare come non sia una coincidenza che aree particolarmente inquinate a livello idrico e dell’aria siano zone dove vive un’alta percentuale di popolazione di colore o appartenente a minoranze etniche. I forti pregiudizi nei confronti di alcune fasce di popolazione uniti ai privilegi della classe dominante fanno sì che non si realizzi un’equa distribuzione dei benefici e degli oneri ambientali. Secondo Pippa Marland, un ulteriore campo di ricerca che potrebbe fornire informazioni utili all’ecocriticism sul come si è arrivati ad avere una determinata costruzione culturale della natura è sicuramente l’ecofeminism. Si tratta di una prospettiva critica rivoluzionaria che combina un approccio sociale e ambientalista all’analisi dell’attuale rapporto tra uomo e natura. In particolare, si promuove l’idea che la responsabilità dell’odierna distruzione della wilderness non sia da attribuire all’intera umanità, bensì ad una parte di essa formata da esseri umani la cui posizione socio-economica gli ha permesso di prendere decisioni di peso politico e di trarne preziosi vantaggi. Nella maggior parte delle società moderne, questa sezione ricca e fortunata è composta tendenzialmente, ma non sempre, da un’élite bianca e di sesso maschile. È per questa ragione che la natura, seviziata e violentata, viene spesso rappresentata come un essere di sesso femminile:

It has also emphasized the necessity of identifying and disrupting the hierarchies typical of western post-Enlightenment thought, which have all been systemic to the logics and practices of domination of women, people of colour, nature, workers, animals. In fact, one of the key contributions of feminist and eco-feminist thought to contemporary ecocriticism is its unsettling of binaries such as culture/nature, male/female, mind /body, civilised/primitive, self/other, reason/matter, human/nature and so on. (Marland, 2013: 852)

Se la seconda fase dell’ecocriticism era riuscita a lasciarsi alle spalle le problematiche ambientali di livello locale e regionale per abbracciare, invece, questioni di carattere ben più ampio e di importanza globale, anche la terza e la quarta ondata, che secondo Marland si sarebbero sviluppate dal 2009 in poi, avrebbero avuto la stessa capacità, riuscendo addirittura ad espandere ulteriormente i propri confini e ambiti di interesse. In particolare, la terza fase consisterebbe in uno sviluppo che riconosce le particolarità etniche e nazionali, ma non le considera confini invalicabili. Al contrario, si pone l’obiettivo di esplorare tutti gli aspetti dell’esperienza umana del mondo naturale, adottando un punto di vista ambientalista ed ecologista. È stato sulla scia di questo spirito che nel 2010 a Cochabamba, in Bolivia, si è tenuta

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la World People’s Conference on Climate Change durante la quale fu firmata la Universal Declaration of the Rights of Mother Earth. Quest’ultima incoraggiava un senso di cittadinanza globale che rimarcava il profondo legame tra l’uomo e la natura in quanto entrambi considerati entità indivisibili e dipendenti da un destino comune. Ebbene, si tratta di un nuovo paradigma chiamato “eco-cosmopolitics” (Marland, 2013: 854), che attacca direttamente i disastri ambientali prodotti dal capitalismo mondiale e promuove la giustizia ambientale e sociale per tutte le forme di vita, umane e non. Per quanto riguarda la quarta ondata dell’ecocriticism, questa dovrebbe considerarsi parallela alla terza, piuttosto che successiva, testimoniando il diffondersi del “material ecocriticism” (Marland, 2013: 855) che, secondo Scaffai in

Letteratura e Ecologia, avrebbe per oggetto le “narrazioni” prodotte dai fenomeni materiali. Le

radici dell’eco-critica materiale affondano ancora nel terreno della filosofia della natura, tuttavia questa nuova direttrice si emancipa dal tema chiave della wilderness, dalla linea trascendentalista e dal pregiudizio di naturalezza del primo ecocriticism. La relazione tra l’umano e il materiale concentra l’analisi su contesti ibridi dove natura e artificiale si