• Non ci sono risultati.

Su altri avvistamenti del poeta di marmo

Ferrara folle, falotica e fascista

1. Su altri avvistamenti del poeta di marmo

Se nell’età del Neoclassicismo e del Romanticismo era soprattutto sotto il segno di Tasso che si con- sumavano i più intensi innamoramenti poetici per la città di Ferrara, teatro di mitiche sofferenze e di colloqui col proprio genio per avventori del calibro di Stendhal, Byron, Goethe e Shelley, il primo modernismo novecentesco sembra invece veder aumentare le quotazioni di Ariosto, fantasma più gioviale e oltranzista, architetto di follie prodigiose e per nulla intime, manipolatore della natura e mago razionale. Abbiamo visto il poeta di marmo scendere dalla colonna rinascimentale di piazza Ariostea per far compagnia ai Dioscuri della metafisica, ma non solo ai loro occhi lucidamente vi- sionari si è manifestato, nella sua città d’elezione, all’inizio del secolo. Anche un visitatore fiorentino come Fernando Agnoletti ad esempio, nel 1915, lo avvista chiaramente durante il suo pellegrinaggio futurista verso la grande guerra.

Arruolatosi volontario, da vero avanguardista, fin dalle prime avvisaglie del conflitto, lo scrit- tore lacerbiano — già lettore di italiano a Glasgow e ora habitué del caffè Le Giubbe Rosse: un para- dossale dantista-futurista di area papinana1 — compie il suo breve viaggio nella città padana per in-

contrare un sodale che ammira e che ha da poco diffuso le sue quasi involontariamente rivoluziona- rie Poesie elettriche, Corrado Govoni. L’incontro tra i due così antitetici futuristi — l’uno veterano della guerra italo-turca e, da pochi mesi, autore del fortunato canto di battaglia Trento e Trieste2, l’al-

tro svagato contemplatore della natura impegnato, in quelle settimane, a tracciare le peculiari paro- libere naïf di Rarefazioni3 — è presto tradotto in un’entusiasta prosa per “La Voce” destinata poi a

confluire nel suo più celebre libro, Dal giardino all’Isonzo4, e a suscitare, quasi mezzo secolo dopo, le

memorie personali e intellettuali di Giuseppe Raimondi5.

1 — Oltre a collaborare con “La Voce” e poi con “Lacerba” e ad aderire, proprio nel ’15, al Fascio rivoluzionario d’azione interventista con Marinetti, negli anni Dieci Agnoletti pubblica contributi assai specialistici sulla Commedia (vd. ad esem- pio l’erudita nota Limiti della osservazione etnologica nella Divina Commedia, in “Archivi per l’antropologia e l’etnologia”,

XLI, 1, 1911, pp. 422-425) e fonda, in Scozia, il primo comitato “Dante Alighieri”.

2 — L’inno irredentista compare su “Lacerba” nell’autunno del ’14 tra i vari contributi interventisti del gruppo fiorenti-

no che faceva capo a Papini e soffici (F. Agnoletti, Canto per Trento e Trieste, in “Lacerba”, II, 22, 1914, p. 297). Ripubblica-

to da “La Voce” nel 1915 come volumetto autonomo col sottotitolo Fanfara di guerra, esaurì rapidamente due ristampe e venne riedito l’anno successivo.

3 — Si tratta della prima sua opera ad uscire firmata da «Corrado Govoni Futurista» (Cfr. C. Govoni, Rarefazioni e parole

in libertà, Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1915). Le incantate parolibere, così poco simili alle violente composizioni tipografiche marinettiane, sono state ristampate diverse volte, in volume e in antologie, nel secondo Novecento, fino alla recente anastatica C. Govoni, Rarefazioni e parole in libertà, a c. di P. Maccari, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2006.

4 — F. Agnoletti, I poeti di Ferrara, in “La Voce”, VII, 11, 1915, p. 672. L’edizione in volume da cui sono tratte tutte le cita-

zioni, è in F. Agnoletti, Dal giardino all’Isonzo, Firenze, Libreria della Voce, 1917, pp. 37-42 . Oltre ad annoverare l’autore tra i vociani «ora celebri e che lo saranno immancabilmente», nella sua fortunata panoramica dei primi anni Venti sulla cultura italiana, Prezzolini include Dal giardino nel canone dei «più bei libri, alcuni dei rari libri che sopravviveranno del tempo della guerra» (G. Prezzolini, La coltura italiana, Firenze, Libreria della Voce, 1923, pp. 186, 160).

5 — La descrizione della vista dai bastioni sembra a Raimondi ricalcare «veramente la città antica di cui qualcuno di noi ha ricordo», e il recupero della rara prosa d’inizio secolo permette allo scrittore di soffermarsi sulla poesia del «patetico, provinciale Govoni», dal cui «fianco» fa spuntare — con un’acuta ricostruzione del contesto visivo e intellettuale — «l’ar- te di Filippo De Pisis», che è in realtà il principale oggetto del contributo. L’articolo incentrato sulla prosa di Agnoletti è apparso su “il Resto del Carlino” nel 1958, ma cito dalla versione poi raccolta in volume: G. Raimondi, I poeti di Ferrara,

S'era in piedi sulle mura verdi, soffermati, dopo aver guardato il verde e aspirato l’odore. Tutto verdissimo a distesa, la terra e gli alberi, con un po’ di bigio di tronchi. [...] L’agro ferrarese e la città giacente sono così piani e immoti che basta salir poco, le mura basse e larghe, e si vede tutto. Il rit- mo delle distese si risponde e continua: anche se un angolo chiude si sente il proseguire dell’orizzon- te. E c’è momenti che l’occhio getta sulla quiete vasta raggi che partono in volta, abbracciano le

case e le luci e inghirlandate di verde le riconducono al cuore.6

All’indomani della dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria, Ferrara appare ancora antica e agre- ste e, «sul colmo delle mura larghe, tutte verdi e vestite, c’è la pista dei cavalieri» percorsa «con passo smorzato» da un destriero comparso dal nulla. Agnoletti immortala il poeta suo amico a caccia di fiori, «rauco di felicità», mentre «senza saperlo» canta «la sua terra»7. Il canto silenzioso, trascritto

nella forma di una breve panoramica lungo il paesaggio e la sua storia, è interrotto però dall’intro- missione di una figura aerea, di un fantasma che svetta sulla linea contigua di natura e architettura, di un poeta sospeso nel cielo che attira il dito dell’altro poeta, Govoni, pronto a riconoscerlo.

Sopra le mura, le case e gli orti mi accennò una figura confusa sospesa in cielo. — È l’Ariosto, disse.

— Dove l’hanno messo?

— Sotto c’è una piazza. Gli orti di Ferrara sono così grandi e tanti che di qui non si conoscono le piazze. La città è tutta radure ariose, piene d’alberi fioriti. Vedesse com’era grande il suo! Ora non più.

— Andiamo a vederlo.8

«È l’Ariosto», lo stesso Ariosto che pochi mesi più tardi incontrerà de Chirico nelle sue flâneries e Sa- vinio pronto a imbarcarsi per Salonicco. Quando Agnoletti propone a Govoni di andarlo a vedere, il poeta risponde subito «Andiamo. L’Ariosto mi piace» e l’altro a ruota esclama «E a me!». Presto un’esitazione intellettuale lo coglie, chiamando alla mente le prescrizioni anticlassiche del suo prin- cipale riferimento culturale: «Che direbbe Soffici?». Basta tuttavia una salomonica, acuta considera- zione del sodale a scacciare l’ombra dello Über-Ich fiorentino: «Pace. I grandi qualche volta non rico- noscono i grandi»9. A onor del vero, tra gli avanguardisti dall’anteguerra Soffici è stato forse il primo

a tornare a sfogliare Ariosto: nell’ambito del progetto editoriale “Scrittori Nostri” — la collana di classici italiani fondata da Papini per Carabba poco prima che Croce varasse, con Laterza, i suoi “Scrittori d’Italia” — l’«Apollinaire italiano in formato ridotto»10, oscillante allora tra Parigi e la To-

scana, scelse infatti di curare proprio uno dei volumetti dell’Ariosto minore, che uscì nel 1911 come undicesimo numero della serie11. Nell’introduzione a tale vituperata edizione di Elegie, sonetti e can-

zoni12, a cui in realtà Soffici si dedicò con convinzione dal 190913, non mancano riscontri di quanto

«sia come presentito e preannunziato il linguaggio e il ritmo della passione contemporanea» nel-

6 — F. Agnoletti, I poeti di Ferrara [1915], in Id., Dal giardino all’Isonzo, cit., pp. 37-38. 7 — Ivi, p. 38.

8 — Ivi, p. 39. 9 — Ibidem.

10 — La celebre fulminante definizione è di Mengaldo. P. V. Mengaldo (a c. di), Poeti Italiani del Novecento [1978], Milano, Mondadori, 2010, pp. 337-338.

11 — L. Ariosto, Elegie, sonetti e canzoni, a c. di A. Soffici, Lanciano, Carabba, 1911. Il libro sarà riedito per gli stessi tipi nel 1926 e nel 1931 (da quest’ultima ristampa sono tratte tutte le citazioni).

12 — Abbiamo visto ad esempio, nel capitolo precedente, che Cremante la rubrica tra le «approssimazioni» e i «pretesti ariosteschi» di alcuni «scrittori contemporanei» (R. Cremante, Archivi del nuovo. Tradizione e Novecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984, p. 49). Si tratta in effetti di un’edizione priva di particolari meriti filologici — si limita a riprendere le le- zioni di una stampa fiorentina ottocentesca uscita per Leonardo Ciardetti — ma certo meritevole dal punto di vista della diffusione dei testi, accessibili in un formato corrente ed economico dopo una lunga disattenzione editoriale.

l’«impeto» della lirica amorosa ariostesca14, e l’ardito curatore propone di leggere nei sonetti «il nuo-

vo atteggiamento dell’anima antica che per il tramite vibratile del verbo si congiunge alla moder- na»15. Ma torniamo sulle mura di Ferrara nel 1915 e all’avvistamento della statua di Ariosto tra cielo

e tetti.

Il dialogo tra Govoni e Agnoletti prosegue con i motivi per cui il poeta del Furioso è tanto con- geniale allo spirito e alla scrittura dei due interlocutori («ci sono», commenta l’uno, «stanze soleggia- te, melodiose, piene di respiro»; e l’altro incalza «c’è quella gioia di galoppare sui prati intatti por- tando in groppa la meraviglia»)16, e il revival rinascimentale prosegue nella passeggiata attraverso gli

orti, oltre Casa Romei, intorno alle logge che fanno sospirare Govoni «Qui gli Estensi un tempo...»17.

La meta finale non è tuttavia la piazza additata dai terrapieni ma, come si capisce dal motto latino letto subito ad alta voce dall’autore-protagonista, la vera e propria casa di Ariosto, tre traverse più avanti lungo il Corso.

Due donne belle vestite di nero ci sfiorano con gli occhi neri. Sorridono un poco. Vanno da una gran porta silenziosa a un’altra gran porta silenziosa.

— Eccola. «Parva sed apta mihi».

Io dove l’ho veduto? Hanno tagliato il lauro di Astolfo!

Mi parve di averlo veduto. O un orto come quello, dove qualcuno chiede pace all’amore: pace e amore alle ultime primavere, in una vita che tramonta: gli occhi guardano vastamente: lacrime affiorano e non li velano: in silenzio. [...] Mi tornava Ravenna nel cuore, ma soffocata. La casa quasi la stessa; l’ingresso lungo, fino all’hortus conclusus; qui il portico, due stanze sopra e l’orto più vasto di là. Tutto come laggiù. Mancava il lauro che chiamai d’Astolfo, che sfiorava l’altana e rompeva la luna sul mio letto al sereno. «L’avete tagliato?» La donna con le chiavi non sentì e non rispose. — L’orto una volta giungeva a quel convento.

— C'era una grotta e siepi di sambuco. L’Ariosto le credeva d’alloro.

Tendevo l'orecchio invano all’usignolo che mi parlava le sere fresche dal lauro di Astolfo. Ave-

vo abitato quelle stanze e gli orti, ma in un’altra città, in un’altra età.18

Al militare autore di canti di guerra sovvengono improvvisamente memorie languide: è l’Ariosto lirico a suscitare la sua immedesimazione di amante e di stanco uomo di mondo, che «chiede pace all’amore» e «pace e amore alle ultime primavere». E quando, insieme al compagno, sale fino allo «studio» dove il poeta «aveva ravviato le rime, conchiuso il grande ciclo giocondo» e ospitato nelle sue carte «i paladini faticosi fra i colonnati dell’ultimo grande cantare», un’eccitazione tanto vitalisti- ca quanto poco futurista («gli uomini vivi», conclude, «sono quelli che amano i morti») esplode sen- za freno: «qui! questa tavola! lui!»19. Il racconto, di cui questo pellegrinaggio ispirato costituisce

l’acme, si conclude quindi con una firma sul registro dei visitatori, con «il bacio di chi ama e parte» lasciato ai due poeti ferraresi del titolo, Govoni e Ariosto, e con un commiato agli incanti della città: «Addio, dolce Ferrara; orti, fiori, mestizia! Si torna alla computisteria della vita. Parva sed apta mihi. O per lo meno così avviene che sia»20. Vale la pena segnalare che, quando ben più tardi il solariano

Raffaello Franchi dedicherà a Govoni uno dei suoi ritratti letterari, la prosa ariostesca tornerà utile — in un’interpretazione, a dire il vero, un po’ spericolata — per evocare i tratti di una ‘ferraresità’ poetica in grado di trascendere generi ed epoche: «Govoni e Ariosto: due ferraresi. Nel ritrovarvi

14 — A. Soffici, Prefazione, in L. Ariosto, Elegie, sonetti e canzoni, cit., pp. 5-10: 9. 15 — Ivi, p. 8.

16 — F. Agnoletti, I poeti di Ferrara [1915], in Id., Dal giardino all’Isonzo, cit., p. 38. 17 — Ivi, p. 40.

18 — Ivi, pp. 40-41. 19 — Ivi, p. 41.

una identità di sangue espressivo consisteva la sua [di Agnoletti] scoperta amorosa»21. Sebbene non

sia facile dare corpo a una simile idea — se non magari rintracciando qualche raro rimando testuale tra le liriche dei due concittadini — 22 è interessante che Franchi legga in Ariosto, «il poeta che meno

piace quando più in Tasso c’incanta “l’odorata maremma e il ricco mare”», una peculiare nettezza, un rifiuto di sfocate oscurità artificiose, una meraviglia assai consonante con le ricerche poetiche più immaginifiche della tarda modernità («incisione contro prestigio di effusione: la cinquecentesca ot- tava d’oro dove risuona metallico il ricciolo cesellato; appetto a quella che sembra soprattutto so- stanza d’eco clamante nel sogno»)23. Tra sogno e mito estense, eco rinascimentale e risoluto moder-

nismo, si colloca d’altronde un altro incontro con Ariosto tra le vie della città pentagonale, vissuto sempre negli anni Dieci da un protagonista della Ferrara novecentesca su cui finora non ci siamo soffermati: Filippo de Pisis.

Anche lui amico di Govoni, cresciuto a Ferrara e, tra il ’15 e il ’16, in stretto contatto coi fratel- li de Chirico, il poeta pittore aveva cominciato a pubblicare saggi e prose liriche molto giovane. Era stato forse lui a mostrare per primo ai due Dioscuri piazza Ariostea24, tanto suggestiva quanto irri-

ducibile allo schema estetico delle piazze d’Italia, e a riconoscere poi — pur con il lapsus che sappia- mo25 — quello specifico paesaggio urbano nella trasfigurazione di Il grande metafisico. A poche set-

timane dalla partenza di Savinio per la Grecia e poco prima che Giorgio completi ed esponga il ca- polavoro ispirato dalla statua del poeta, de Pisis scrive in meno di due mesi26 una serie di frammenti

metafisici che compongono la cronaca autoscopica e vagabonda di una giornata in città, vissuta e trascritta a Ferrara nel tardo autunno del 1917. Tra queste pagine, poi pubblicate in una plaquette a Bologna27, troviamo lo specchio del racconto saviniano sul poeta di marmo, che nella scrittura feb-

brile del ferrarese si apparenta esplicitamente coi manichini della metafisica e si fa tanto proteiforme da assomigliare, per via del biancore del gesso — medium, come abbiamo visto con de Chirico, anti- tetico al marmo ma suo archetipo, essendo la materia dei bozzetti e degli studi per le statue — a uno dei soggetti più cari all’avanguardia internazionale, il clown.

E richiamai disperatamente, senza lagrime, senza neppure sospirare (dio mio, dio mio! ...) altre notti!

Noi fermi sotto la colonna, il piedistallo, bianco parallelepipedo con gli spigoli acuti, gli angoli retti, le labbra dello sguscio taglienti come rasoi, e poi il cilindro bianco della colonna che si piega pian piano un po’ indietro, si svinca, e la statua fatua, vedetta eroica, muta-gessosa, olmpiaca, occhi cieca, marmorea, ferma, mannequin che sta lì lì per cadere come un birillo rigido, fissato a una cer- niera, come il romano bianco, magnetizzato dall’istriona con la faccia infarinata o un clown da

21 — R. Franchi, Govoni dolce Sisifo [1941], in Id., Istmo. Ritratti letterari, Roma, Edizioni di Lettere d’oggi, 1942, pp. 32-35:

33. Lo scritto era stato precedentemente pubblicato su “L’Italia che scrive” (XXIV, 24-26, p. 326), mentre il volume è stato

recentemente riedito a c. di P. Sanna, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2005.

22 — Ad esempio tra un incipit govoniano come «La bella donna che mi apparve in sogno» (C. Govoni, Pellegrino d’amo-

re, Milano, Mondadori, 1941, p. 92) e quello dell’ottavo madrigale Ariostesco, «La bella donna mia d’un sì bel fuoco».

Non mi risulta che esista, in ogni caso, uno studio dell’influenza di Ariosto sulla poesia govoniana, e l’incontro di spiriti proposto da Franchi resta specificamente legato alla vicenda ferrarese con Agnoletti.

23 — R. Franchi, Govoni dolce Sisifo [1941], in Id., Istmo. Ritratti letterari, cit., p. 34.

24 — Cfr. R. Ladogana, Filippo De Pisis. Percorsi di vita e di arte, Cagliari, Edizioni AV, 2012, p. 19. 25 — Cfr. capitolo primo, secondo paragrafo.

26 — Alessandro Del Puppo, a partire dai taccuini dell’autore, colloca la stesura delle prose tra il novembre del 1917 e il gennaio del 1918. Cfr. A. Del Puppo, Dal diario alla pittura: temi e motivi del primo De Pisis, in F. De Pisis, Pensieri e note

1917-1918, a c. di A. Del Puppo, edizione critica di S. Volpato, prefazione di A. M. Caproni, Genova, San Marco dei Giu- stiniani, 2002, pp. 15-26: 21.

27 — F. de Pisis, Mercoledì 14 novembre 1917, Bologna, Tipografia Paolo Neri, 1918. Lo scritto è stato poi raccolto in varie collezioni di prose dell’autore e cataloghi; tutte le citazioni qui sono relative all’edizione F. de Pisis, Mercoledì 14 novembre

CIRCO.28

La «statua fatua» dell’allucinata notte ferrarese, sebbene ricalchi lo stesso improvviso disequilibrio e la discesa dal piedistallo, non somiglia poi molto a quella della luminosa e straordinariamente quoti- diana visione saviniana che pure ne è evidentemente l’ipotesto. In Ferrara - Partenza (che abbiamo analizzato nel primo capitolo) d’altronde la piazza è associata a una meridiana solare con la colonna a fare da gnomone, mentre de Pisis immagina un «piano (piazza) quadro» che gira piano «come la roulette che sta per fermarsi»29, facendo del monumento verticale l’asta cui la mano del croupier im-

prime la rotazione: un’intuizione visiva suggerita forse dall’elemento tortile che percorre in bassori- lievo la colonna di Ercole Grandi, in effetti poi sottolineato da una pennellata scura nella più tarda tela dedicata allo scorcio ferrarese (fig. 1).

Nello stesso spezzettato racconto de Pisis torna più volte sulla propria smania di eroicità30 e

sul furor che eccita e minaccia le sue escursioni nella realtà cittadina e nel proprio amor di sé31. Ma

soprattutto finisce per incontrare, in un caffè fin de siècle, il solito fantasma, che appare in una veste peculiare nell’ultima pagina.

La signora ha già bevuto il suo «un latte caldo» nella coppa d’argentone, attende (cappellino bianco, occhi incolori, tristi) forse qualcuno che non viene... me berce comme un songe qui dure jusqu’au

matin. — Che cosa?

— L’amore... si intende.

A la mia destra Lodovico Ariosto, che fuma un toscano: uniforme da sottotenente, mostrine

nere, stellette d’argento.32

Questo Ariosto fumatore in «uniforme da sottotenente» potrebbe naturalmente essere un semplice barbuto ufficiale forestiero, che nell’aspetto ricorda al flâneur uno dei ritratti del poeta rinascimenta- le — magari proprio quello marmoreo che domina la piazza ferrarese. D’altro canto non è azzarda- to pensare a una sovrapposizione tra il grande cinquecentesco e Ardengo Soffici, che come sappia- mo ne ha da poco curato le rime: Soffici è appunto un sottotenente di fanteria dal 191633 e dunque

indossa — come mostrano le foto d’epoca (fig. 2) — le «mostrine nere» e le «stellette d’argento»; sempre nel ’16, il 21 settembre, de Pisis si rivolge a lui per lettera la prima volta adoperando il grado militare34, e appena pubblicato il volumetto di Mercoledì 14 novembre 1917 gliene invia una copia fir-

mata, come dimostra oggi il catalogo del suo archivio fiorentino35. Il dettaglio del sigaro toscano

28 — Ivi, p. 115. 29 — Ibidem.

30 — «Sento solo ardente in ogni fibra il desiderio di grandezza, di eroicità, di amore, di piacere, e piango del mio desi- derio inappagato». Ivi, p. 106.

31 — Nel breve brano Eroicità! leggiamo: «Io sono l’uomo che sempre è desto! Io sono l’uomo che sempre piange! Io sono un uomo di talento [...] Presto diverrò pazzo! (La persona per bene mormora ghignando «Lo sei già!»)». Ivi, p. 110. 32 — Ivi, p. 124.

33 — Precisamente, da sottotenente, servirà nel «181o battaglione, 3a compgania, II armata», come si evince dall’indiriz-

zo del mittente nelle cartoline spedite dal fronte (cfr. ad esempio G. Prezzolini - A. Soffici, Carteggio 1907-1918, a c. di M.

Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, vol. I, p. 274). Tra le molte fonti che testimoniano del militarismo

di Soffici si può citare il suo giornale di guerra letterario, A. Soffici, Kobilek, Firenze, Libreria della Voce, 1918, salutato

così da Pancrazi, che registra così la promozione a tenente e la conseguente riassegnazione: «Il tenente del 128o Fanteria

Ardengo Soffici [...] ci ha finalmente dato un libro o giornale o diario di guerra, dove la guerra è vista, vissuta o raccon- tata com’è e per quel che è (nella testa però di un ben nato uomo e italiano come Soffici». P. Pancrazi, Soffici al Kobilek [1918], in Id., Ragguagli di Parnaso, Roma-Bari, Laterza, 1941, pp. 194-198: 194.

34 — Scrive al «Sottotenente Soffici» una missiva oggi conservata presso l’archivio di seguito segnalato. <

35 — S. Baggio - A. Marucelli (a c. di), Archivio di Ardengo Soffici. Inventario sommario, Firenze, febbraio 2005, Serie II (Do-

spinge naturalmente a propendere per una simile identificazione36. Senza necessariamente oblitera-

re questa ipotesi, se ne può tuttavia articolare una ulteriore più legata al dialogo intellettuale con de Chirico, che nel testo è un personaggio evocato continuamente e in particolare compare — nel