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Ferrara folle, falotica e fascista

4. Imborghesire la corte

Ho detto che la promessa a cui Sacripante, alias Renzo Ravenna, lega il destino delle due statue estensi — da resuscitare per «gratitudine» nei confronti degli antichi guardiani della città e per garan- tire «l’educazione al popolo» moderno238 — viene in effetti mantenuta, ma c’è di più. Il progetto del

Podestà riguarda infatti l’intero palazzo Comunale affacciato sulla piazza che ospiterà i due bronzi, ed oltre ad affidare a Giacomo Zilocchi la fusione dei nuovi Nicolò e Borso, l’amministrazione im- pegna un’importante somma di denaro per riportare la sua propria sede storica, decaduta nei seco- li239, all’aspetto neo-trecentesco che aveva nel Cinquecento, con ristrutturazione anche delle merla-

ture e delle finestre originali. Si tratta di un’ulteriore sottolineatura frondista del municipale mito estense, certo difficilmente conciliabile con le direttive uniformanti e neo-romane del governo cen- trale che, infatti, rifiuta di avallare l’opera e soprattutto si esprime contro il ritorno delle due statue, simbolo del preteso nuovo Rinascimento di Ferrara, nella sede desiderata da Ravenna. Dovrà infine intervenire personalmente Balbo: a quanto risulta dal resoconto della Deputazione di Storia Patria il gerarca «interpretò l’unanime volontà del popolo ferrarese» e persuase Roma a cambiare il «decreto contrario in altro favorevole»240. I bronzi sono dunque pronti in tempo per le celebrazioni arioste-

sche, ma resta da compiere l’ambizioso restauro del palazzo.

In particolare, nel 1933, manca un definitivo progetto sulla stanza più importante del Munici- pio; si tratta della sala della Consulta o, secondo una denominazione più raffinata e non priva di echi letterari, sala dell’Arengo241: un grande spazio, deputato alla riunione del consiglio comunale, che si

affaccia sulla piazza con una trifora e un balconcino. Per rendere la sala adeguata all’identità che la dirigenza balbiana aveva sviluppato nel corso del centenario, il Podestà sceglie Achille Funi, un arti- sta concittadino ma già affermato in tutta Italia (è al lavoro, nel ’33, agli affreschi del Tempio della

237 — Mi riferisco in particolare al celebre discorso del 31 dicembre 1925 tenuto in Campidoglio per l’insediamento del primo governatore di Roma (cfr. B. Mussolini, Discorsi del 1925, Roma, Alpes, 1926, p. 279), in cui si profetizza, in uno stralcio famoso poi scolpito nel frontone del Palazzo degli Uffici all’Eur, l’avvento di una «Terza Roma» che «si dilaterà sopra altri colli».

238 — R. Ravenna, Le statue devono tornare sui basamenti, cit., p. 4.

239 — Cfr. la descrizione, forse anche esagerata dall’enfasi per l’imminente restauro, in G. Meletti, Il ripristino del Palazzo

dei Savi, in “Gazzetta Ferrarese”, 10 marzo 1924, p. 2.

240 — M. Calura, Italo Balbo per l’arte e la storia di Ferrara, in Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria, vol. 1, Ferrara, 1942, p. 3.

Pace a Roma)242 che, sotto molti aspetti, incarna perfettamente le esigenze estetiche e politico-cultu-

rali dell’opera: ha partecipato all’avanguardia più legittimata dal regime, quella futurista, per poi virare su temi e forme di radicale classicismo, senza mancare però di attraversare il modernismo squisitamente ferrarese della prima Metafisica coi cui protagonisti era stato in diretto contatto.

Funi, amico di Quilici e decoratore tra i più richiesti dalle committenze fasciste per il suo reto- rico stile neo-neo-classico, non è uno sconosciuto tra gli optimates della ‘terza Ferrara’: nel pieno del- le celebrazioni ariostesche partecipa infatti alla Mostra Regionale d’Arte Moderna che, a poco più di un mese dall’inaugurazione di quella rinascimentale di palazzo dei Diamanti, porta a palazzo San- t’Anna un controcanto contemporaneo alla grandiosa esposizione dei pittori dell’età estense243. Le

sue tele, come ci informa una recensione di Corrado Padovani sulla “Rivista di Ferrara”, sono tra le più numerose e rivelano il «valore ricostruttivo della sua arte», che è al contempo moderna e tradi- zionale, rinnovatrice di valori perduti: «l’ideale bellezza a cui aspira si identifica appunto con l’antica aspirazione dei maestri dell’arte classica: egli però rivive questo grande sogno con spirito squisita- mente moderno»244. Secondo Lucio Scardino, che ha ricostruito i rapporti dell’artista con il Comune

e ha descritto il processo che lo ha portato alla sala dell’Arengo, già nell’estate del ’33 «è ormai evi- dente che un certo tipo di cultura ferrarese identificava in Funi il proprio pittore ideale, colui che poteva far resuscitare lo spirito dell’umanesimo estense coniugato con la robustezza dell’arte roma- ne e le finezze letterarie neoclassiche»245. Quel che è certo è che il 23 febbraio del 1934 Ravenna e il

pittore firmano un contratto per la realizzazione dei serramenti, degli stipiti, delle finiture lignee per le finestre, di un pavimento a mosaico (che sarà poi realizzato in legno), di colonne e candelabri; ma soprattutto di un esteso affresco che «si estenderà a tutte le pareti ed al soffitto»246. Una cura comple-

ta dello spazio dunque, su cui ci soffermiamo perché il soggetto commissionato è quello dei «miti e delle storie Ferraresi»247, e Funi sceglie, in un concepimento creativo a cui partecipano altri intellet-

tuali cittadini, di dedicare metà di una parete all’Orlando furioso.

Ottenuto il lavoro, il pittore si dedica per prima cosa ai cartoni. La fase dell’inventio si nutre di un intenso dialogo con il teorico dell’eterno Rinascimento, Nello Quilici, che come sappiamo aveva avuto grandi responsabilità culturali nella regia del centenario appena concluso. È suo figlio Folco a ricordare più tardi lo stretto rapporto tra l’esecutore dell’affresco e il giornalista: in un ricordo degli anni Ottanta rievoca infatti un confronto con lo stesso Funi sui «tanti mesi» trascorsi, lui bambino, nella residenza ferrarese, dove il pittore lavorava in soffitta discutendo spesso col padrone di casa («mi disse di come insieme avessero “scritto una pittura”, lui e mio padre»)248. La ‘scrittura’ della pit-

tura aderisce evidentemente al disegno politico-culturale, messo in scena durante le manifestazioni legate ad Ariosto, di rinascenza municipale, di ritorno ai più alti raggiungimenti di governo e di vita attraverso le testimonianze vive dell’arte e della poesia, di rispecchiamento della città moderna nel suo passato estense. Il progetto iconografico prevede infatti tre ordini di figurazioni, tutti estrema-

242 — Una descrizione suggestiva delle gigantesche figure affrescate ancora in corso d’opera si trova in A. Neppi, Sopral-

luogo alla nuova chiesa del Cristo Re, in “Lavoro Fascista”, 20 dicembre 1933, p. 3.

243 — La mostra è inaugurata, sempre nell’ambito del centenario, a giugno, mentre quella dei pittori rinascimentali era stata aperta a maggio con l’orazione di Ojetti. Oltre a Funi e ad altri autori minori vi espone de Pisis.

244 — C. Padovani, La pittura e la scultura emiliana del ‘900, in “Rivista di Ferrara”, I, 7, 1933, p. 7. <

245 — L. Scardino, Un artista ferrarese alla ricerca di Miti, in Id. (a c. di), Achille Funi e il mito di Ferrara, Ferrara, Belriguar- do, 1985, pp. 15-40: 26.

246 — Le varie finiture e le indicazioni esecutive per l’affresco sono elencati nel contratto, riprodotto — insieme a un secondo, relativo a un aggiornamento del compenso e delle scadenze — in ivi, pp. 50-51.

mente evocativi rispetto alla gloria cinquecentesca e alle sue radici leggendarie. Sul soffitto, intorno a un pergolato, una balaustra con donne affacciate è conchiusa in un ciclo zodiacale che rappresenta tutti i segni, a loro volta corrispondenti, nell’ordine più basso, a una cornice in cui si susseguono le allegorie dei dodici mesi. Scendendo alle pareti, cinque scene principali sono inframmezzate da nudi ciclopici di divinità classiche: Ercole, Marte, Mercurio e Apollo. Le scene sono quelle di San Giorgio che uccide il drago, della caduta di Fetonte, del triste amore di Ugo e Parisina, dell’assedio di Geru- salemme ispirato al Tasso e, come anticipato, dell’Orlando furioso249. Il titolo, che raccoglie la leggen-

da cristiana, quella pagana, quella della storia cittadina e i due capolavori letterari, è Il Mito di Ferra- ra, e sembra rispondere al percorso attraverso i secoli condotto da Balbo nella sua lettura all’Ottava d’oro e da Quilici nel suo discorso palermitano stampato sul “Padano”. Prima di guardare da vicino la ‘parete epica’ che vede affiancati Liberata e Furioso, vorrei approfondire il significato complessivo della figurazione e il modo in cui è nata.

Già dalla sommaria descrizione dei soggetti è chiaro che il riferimento più evidente e quasi ostentato è quello agli affreschi di Schifanoia, altro palazzo restaurato in occasione del centenario e riscoperto sia per l’alto impegno della mostra dei pittori ferraresi del Rinascimento, sia per la più popolare ricostruzione, al limite del folklore, dei costumi e dei programmi equestri per il palio di San Giorgio (vd. l’uso che si fa dell’iconografia nel manifesto delle celebrazioni, fig. 7). Funi tuttavia non separa il mondo superno delle divinità da quello terreno: i suoi dei hanno le proporzioni di sta- tue dipinte e sono incastonati al livello dei miti, che come vedremo rappresentano passato e presen- te, realtà e finzione in una sintesi simbolica di grande evidenza per i visitatori contemporanei. La fascia dello zodiaco, con i mesi sottostanti, non è dunque un filtro tra due mondi, ma la spia lapalis- siana dell’omaggio al Salone dei Mesi, entrato di prepotenza nell’immaginario di artisti e cittadini ferraresi. Secondo una tarda testimonianza del figlio, il pittore in quegli anni lo accompagnava nella sala di Schifanoia «ogni volta che aveva un poco di tempo libero»: «insieme padre e figlio commen- tavano le opere di Ercole de’ Roberti, di Francesco Cossa: li osservavano attenti e appassionati»250.

Anche una delle giovani pittrici coinvolte nella realizzazione dell’affresco, Felicita Frai, ricorda l’osmosi diretta e copiosa tra l’iconografia del palazzo antico e quella del palazzo da ammodernare: «a Schifanoia passavamo ore e ore, ci avremmo quasi dormito: la bellezza del Salone dei Mesi aveva per noi del miracoloso!»251. Elementi di continuità tra le due stanze sono riconoscibili anche al di là

dell’esplicita ripresa della fascia astrologica e della rappresentazione dei mesi: in particolare la parete di San Giorgio omaggia esplicitamente, oltre a Cosmè Tura (fig. 8), alcuni precisi brani schifanoie- schi come nota anche Scardino252. Ma oltre all’officina ferrarese del Quattrocento — e a quella, ben

diversa, del Novecento, da cui il pittore riprende l’inconfondibile blu verdastro dechirichiano ed al- cune citazioni letterali su cui torneremo — è al confronto con la borghesia intellettuale della città che si devono alcune delle più significative invenzioni dell’opera. Le figure femminili affacciate alla balaustra dipinta sul soffitto per esempio non sono dee, né allegorie o creature mitologiche, ma quelle «belle donne che a Ferrara sono tante e così accoglienti» del cui sorriso Ariosto in persona invitava il giovane Quilici a bearsi nel fantastico incontro raccontato nel discorso del centenario253.

249 — Per una rappresentazione sintetica dei soggetti e del loro rapporto con lo spazio della sala, cfr. lo schema in L. Scardino (a c. di), Achille Funi e il mito di Ferrara, cit., p. 81.

250 — Riprendo la citazione di un saggio di Piccinini da ivi, p. 83 (F. Piccinini, Achille Funi, in “2001”, n. 24, Milano, 16

giugno 1971). <

251 — F. Frai, Ricordando Funi e Ferrara, in L. Scardino (a c. di), Achille Funi e il mito di Ferrara, cit., pp. 47-49: 48.

252 — «I riferimenti schifanoieschi in questo pannello si sprecano, forse a causa del soggetto prettamente cortese». L. Scardino, Un artista ferrarese alla ricerca di Miti, in Id., Achille Funi e il mito di Ferrara, cit., p. 31.

«Volto, occhi, bocca» delle fanciulle rappresentate — non solo quelle del soffitto, ma anche le sette che compaiono nelle scene del mito sulle pareti — sono infatti «ad immagine e somiglianza di illiba- te e illustri concittadine», mentre «il ritratto del corpo [...] era di fanciulle non proprio immacolate che il maestro e i suoi assistenti avevano scovato dietro persiane chiuse per legge»254. A contemplare

le leggende di là dalla corona dei mesi è dunque un gruppo di puttane e di signore novecentesche mescolate tra loro e vestite da dame classiche, e anche Parisina, Angelica, Clorinda, Venere, le Eliadi e la principessa Silene sono costruite sommando volti noti a corpi forse ancora più noti presso la società cittadina coinvolta nel revival estense. Allo stesso modo (le rivelazioni in proposito sono cita- te dai ricordi di Folco Quilici, ma la bibliografia unanime conferma)255 i personaggi maschili — eroi,

santi, mori, paladini, semidei e angeli — sono composti da corpi di contadini e operai e da volti di eminenti ferraresi. Entrare nella sala dell’Arengo perciò — vale a dire, come suggerisce la definizio- ne del Battaglia, nella sala della «assemblea dei cittadini»256 — significa dunque, per gli abitanti di

Ferrara, specchiarsi letteralmente in quell’eterno Rinascimento che la cerchia balbiana ha sommini- strato a tutti gli strati della popolazione in occasione del ritorno di Ariosto al centro della scena cul- turale. Da queste premesse si può arrivare a conclusioni particolarmente interessanti — e finora mai avanzate — a proposito dei due riquadri dedicati a Tasso e Ariosto, che passo ad analizzare.

I due affreschi, che si spartiscono la parete sud, sono immediatamente distinguibili non solo per il soggetto, ma anche per l’immediato colpo d’occhio della composizione: come nota anche Fla- vio Fergonzi257, al glorioso ordine e alla scena precisa della Liberata si contrappone il caos di episodi

simultanei e visivamente stridenti del Furioso. Funi evidentemente ragiona con finezza sulla profon- da distanza dei due massimi capolavori epici di Ferrara, e traduce visivamente le rispettive identità letterarie. Tuttavia mi sembra di poter leggere un significato ulteriore dietro alla scelta compositiva. In particolare il fatto che, per Tasso (fig. 9), i tre quarti della parete siano dedicati alla rappresenta- zione dei crociati e di Gerusalemme — con la sola aggiunta dell’iconico episodio della morte di Clo- rinda, utile a sottolineare che si tratta proprio della Gerusalemme di Tasso e non di un brano di sto- ria cristiana — invita forse a una lettura più problematica, visto che sia i cavalieri che la città sono rappresentati attraverso delle evidenti trasfigurazioni. Come ci confermano le memorie di Frai, die- tro ai volti dei crociati si nasconde infatti un gruppo preciso di notabili ferraresi: Nello Quilici è Gof- fredo di Buglione e al suo fianco c’è il critico della “Rivista di Ferrara” Corrado Padovani insieme ad altre due figure di spicco della città (nonché collaboratori del giornale di Quilici stesso): l’avvocato Boari e l’ingegnere Savonuzzi; la moglie di Quilici invece, Mimì Buzzacchi (pittrice di scuola Roma- na e più tardi affrescatrice, al seguito di Balbo, in Libia) è il paggio con l’asta, mentre il prosatore vi- cino al futurismo Benso Becca, anche lui legato al giornale, cavalca poco dietro. Praticamente l’inte- ra falange è costituita da intellettuali della dirigenza balbiana, legati soprattutto alla fucina del “Pa- dano”. Gerusalemme dal canto suo, come notano tutti i commentatori, è in tutta evidenza costituita da un affastellarsi di monumenti romani (vd. particolare fig. 9): la piramide Cestia, la colonna Traia- na, la porta di San Paolo, il tempietto di San Pietro in Montorio, il Pantheon, la torre del Campido- glio e persino il colosso di Nerone. Ebbene, mi pare che la scelta simbolica di fare della città santa

254 — F. Quilici, Il fantasma dell’opera (un ricordo di Funi), cit., p. 11.

255 — Scardino per esempio fa alcuni nomi: «[Funi] immortala così nel suo affresco i notabili ferraresi del tempo (gli ingegneri comunali Girolamo Savonuzzi e Antonio Manfredini), oltre ai giornalisti del “Padano” (Nello Quilici e Corra- do padovani), ai loro parenti (Vanna Quilici e Aurelia Savonuzzi) e alle presenze della sua quoridianità» L. Scardino, Un

artista ferrarese alla ricerca di Miti, in Id., Achille Funi e il mito di Ferrara, cit., p. 29. Alcuni nomi sono aggiunti da Frai, come vedremo.

una sintetica Roma aprospettica e dei crociati i ferraresi protagonisti del preteso Rinascimento cul- turale di quegli anni sia anche un modo per celebrare le iniziative del centenario ariostesco e le altre a venire: opposti alla capitale classica, gli intellettuali di Ferrara non ne sono i nemici ma comunque la assediano e la espugnano: il neo-classicismo estense che abbiamo visto costituire il nerbo del loro progetto politico e culturale li porta a trionfare sul centralismo del contraltare romano, e al contem- po anche a liberare positivamente la classicità dell’Urbe. Non si tratta insomma, a mio avviso, di una semplice raffigurazione della Liberata, ma di un più ardito risultato della ‘scrittura della pittura’ ordi- ta insieme a Quilici (che infatti è il protagonista della scena): una rappresentazione dell’ambiguo rapporto frondista con il centro dell’impero, ossequiato come sacro e al contempo da riconquistare con le armi e il favore degli angeli. Non a caso l’affresco gemello dedicato ad Ariosto non solo tenta davvero, a differenza di quello tassiano, di presentare la maggior porzione possibile del poema senza concentrarsi su una sola scena — si va da Astolfo verso la luna a uno scontro tra cavalieri (forse Ri- naldo e Ferraù), dal bacio tra Angelica e Medoro all’assedio di Parigi e, su tutto, campeggia la gigan- tesca figura di Orlando pazzo — ma manca anche di volti particolarmente riconoscibili: persino il paladino sull’ippogrifo, che avrebbe offerto un facilissimo omaggio al quadriumviro aviatore, è rap- presentato con l’elmo calato e dunque senza fisionomia.

Soffermandosi sull’affresco ariostesco è possibile notare che proprio alla prova del Furioso si compie davvero l’incontro figurativo tra le glorie estensi e la moderna cultura della città pentagona, tra l’officina ferrarese e la metafisica. Se l’accostamento tra Angelica e Medoro in basso e Orlando in alto sembra infatti sintetizzare (fig 10) i languori del trionfo di Venere nell’allegoria di aprile del Cos- sa con l’anatomia tesa dei ciclopi in quella di settembre di De Roberti (entrambe nel registro supe- riore di Schifanoia), la piccola e curatissima natura morta che si trova — apparentemente senza mo- tivo — nell’angolo inferiore sinistro richiama letteralmente gli enigmi di de Chirico: non solo vi tro- viamo l’iconico pane ferrarese intrecciato, tipico motivo degli accrochages già visti nel primo capitolo, ma anche il casco di banane, altrettanto caratteristico della fase metafisica (si pensi al capolavoro del ’13 L’incertezza del poeta) e altri frutti, e ortaggi, delle composizioni dello stesso momento (fig. 11).

In conclusione, coerentemente con le ipotesi fin qui espresse, c’è da segnalare che in effetti una figura dal volto riconoscibile si staglia tra le donne e i cavalieri: si tratta del paladino armato sul lato destro della porta, separato da tutte le scene e rivolto, di fronte, al pubblico che guarda. Nello Quilici, che firma una preziosa pubblicazione dedicata al Mito di Ferrara all’inaugurazione della sala compiuta258, lo identifica senza indugi col pittore stesso, che si include dunque come un maestro

quattrocentesco nella sua stessa opera:

A destra del gruppo di Angelica e Medoro, l’affresco è interrotto dalla porta che dà accesso alla sala. Nel breve spazio che rimane tra la porta e lo spigolo, Achille Funi ha posto una figura di pala- dino, in piedi, corazzato e armato di tutto punto, ricoperto in parte da uno scudo bizzarro verde rame , che sembra un cartiglio di acciaio, su cui è dipinta la testa di un mago, una figura medusea. Il capo del paladino è scoperto, ed è facile indovinare nei lineamenti del viso l’autoritratto del pittore. Statuario, a gambe divaricate, il guerriero impugna la spada: la sua armatura rifulge di metallici ri-

flessi: il viso è raccolto in concentrata serietà.259

Identificato, in generale, come un qualunque paladino, il cavaliere dietro cui si cela l’autore delle pitture mi pare non possa essere che Ruggiero, visto che lo «scudo bizzarro» di cui parla Quilici allu- de evidentemente allo scudo fatato che l’amante di Bradamante trova appeso all’ippogrifo e adopera

258 — Si tratta di N. Quilici, Il mito di Ferrara negli affreschi di Achille Funi, Milano, Edizioni del Milione, 1939. Con nume- rose riproduzioni in bianco e nero e a colori, il volume esce nella collana “Monumenti del Regime” ed è dedicato «a Italo Balbo, della città estense figlio e rinnovatore». Una ristampa anastatica si trova in L. Scardino (a c. di), Achille Funi e il mito

contro l’orca di Ebuda (la «testa di un mago» è il volto di Atlante, artefice del magico oggetto). Si può dunque pensare che Funi si ponga così come genitore, proprio con l’affresco in cui rappresenta sé stesso, della nuova casa d’Este che, con l’aiuto di Ariosto, fa risorgere la ‘terza Ferrara’ dalle sue ceneri e la riconsegna al proprio mito. Il pittore d’altronde, nella sua trasfigurazione epica, non è solo un defilato sebbene fondamentale protagonista dell’antica e nuova leggenda, ma anche un in-