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Spirito ariosteo del realismo magico

6. Alla prova del volo

Non ci si aspettino dal più sfacciatamente ariostesco tra i racconti di Bontempelli — sin dal titolo, Le ali dell’ippogrifo — corrispondenze retoriche, allegoriche e d’invenzione con la poesia di Ariosto simi- li a quelle stabilite per le altre sue opere. Il testo è infatti magico in modo diverso, sostenuto da «un novecentismo di stile» (come ha scritto Baldacci, aggiungendo però subito che si tratta proprio di «ciò che il novecentismo non voleva essere»)222 definito da Contini «una sorta di canto»:

il segno più chiaro di questa tendenza lirica è dato vederlo nello sforzo che fa la sua sintassi per diventare asimmetrica, vivente, popolare, come nel periodo ateniese dell'epoca d'oro, come in

Platone.223

Una simile prosa attica e godibile, ben diversa dal movimentato intreccio delle storie degli anni Ven- ti, è dedicata a una sorta di spin-off del Furioso tra canti IV e VI, e cioè a un’inventata tappa del viaggio

involontario di Ruggiero, quello in cui «era uscito fuore / per molto spazio il segno che prescritto / avea già a’ naviganti Ercole invitto» (VI, 17) verso l’isola di Alcina.

Come per le Angeliche kitsch di Savinio e de Chirico, il riferimento si fa omaggio esplicito alla fine di una lunga parabola e ai margini del complesso posizionamento spirituale ed estetico nei con- fronti del modello classico. Del resto, siamo negli stessi anni (scritto nel 1940, Le ali vede la luce in rivista nel 1941); anni che per Bontempelli coincidono, come già rapidamente sintetizzato, con un disincanto nei confronti dell’Italia fascista, con una progressiva espulsione dagli spazi pubblici e con un vero e proprio esilio. Per di più, la prima edizione del racconto è corredata da un set di illustra- zioni a colori proprio di de Chirico che non sarà poi mai più ripreso nelle successive ristampe in vo- lume, scomparendo dagli occhi dei lettori e dei critici per finire ingiustamente sepolto nel silenzio delle emeroteche.

L’incantevole avventura inedita di Ruggiero è la terza di tre terse favole comparse sullo stesso settimanale, “Tempo”, nel giro di tre anni, dal ’39 al ’41224. La prima, intitolata inizialmente Toro

Primo e poi Viaggio d’Europa, reinventa il mito della principessa fenicia e della sua navigazione a dorso di toro fino a Creta. La seconda, La via di Colombo, è dedicata invece alla prima traversata dell’oceano e ai dubbi dell’esploratore genovese, insinuati da un clandestino convinto che le caravelle stiano ve- leggiando verso regni ultraterreni. Con Le ali dell’ippogrifo infine si raggiunge, dopo il Mediterraneo e l’Atlantico, anche il Pacifico, completando quella che a Ferrara Bontempelli aveva chiamato «la grande strada marina d’occidente»225. Il titolo del volume che raccoglierà i tre racconti, Giro del sole,

si riferisce dunque alla «via verso ove cade a punto / il Sol quando col Granchio si raggira» (IV, 50),

una vera e propria circumnavigazione «in su le carte» del mondo e del tempo condotta dall’autore nel corso della stasi forzata dell’esilio veneziano. Che l’idea di un simile inseguimento dell’astro ver- so ovest sia di matrice ariostesca mi sembra indubitabile, anche se il parallelo coi viaggi descritti nel-

221 — A proposito del rifiuto, cui notoriamente seguì quello di Luigi Russo, cfr. G. Turi, Lo stato educatore, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 136-137.

222 — L. Baldacci, Introduzione, in M. Bontempelli, Opere scelte, cit., p. XL.

223 — G. Contini, presentazione di B. in Id., Italia magica, cit., pp. 31-32: 32. <

224 — Toro primo (poi Viaggio d’Europa) esce sui numeri dal novembre 1939 al gennaio 1940 e avrà una edizione autono- ma, dal titolo Viaggio d’Europa, con illustrazioni di Arturo Martini (Milano, La chimera, 1943); La via di Colombo esce sul numero del 12 dicembre 1940; Le ali dell’ippogrifo su quello del 20 marzo 1941.

l’intervento ‘geografico’ del 1933 non è stato mai avanzato (se non per l’ovvio rifacimento del terzo racconto). Del resto, quando l’autore vedeva nella reinvenzione degli eroi e nel «riportare l’inven- zione narrativa al poema» i compiti principali di una nuova letteratura libera, aggiungeva come ulte- riore mandato quello di «riportare una nota di splendore solare» alla scrittura e sottolineava che la critica inibiva tali compiti perché pretendeva un romanzo-documento «non nel significato spirituale (espressione per cui per esempio il liberissimo Orlando è documento vivo dell’epoca sua), ma nel senso più balordamente materiale»226. Giro del sole, scritto ai margini della scena letteraria ufficiale e

dunque senza più il fiato della critica di regime sul collo, è forse il libero compimento di quegli au- spici e in generale delle fantasie di avvicinamento di Bontempelli al Furioso e ai suoi avventurieri. In particolare mi sembra di poter individuare in una delle ottave iniziali del secondo itinerario di Rug- giero — quello «da Alcina ad Atlante» nel quale, secondo l’autore, «il cerchio si chiude» e dopo cui «la sconfinata libertà del viaggiatore d’un tratto malinconicamente finisce»227 — l’ispirazione per la

formula, che vedremo avere un significato fondamentale. Mi riferisco al distico finale dell’ottava 70 del decimo canto, in cui l’eroe in sella all’ippogrifo decide di riprendere la rotta del suo precedente volo per tornare in Europa proseguendo a occidente «e finir tutto il cominciato tondo / per aver, come il sol, girato il mondo». Questa sorta di progresso verso ponente, in linea con la ‘irrimediabile’ occidentalità mussoliniana del Bontempelli più nazionalista ed europeista228, sarà messo in crisi pro-

prio in Le ali dell’ippogrifo, da leggersi come una mise en abîme dell’intero ‘giro’.

La scelta dei protagonisti delle tre storie non è banale. Perché, ad esempio, Colombo e non l’Ulisse dantesco? Non certo per questioni cronologiche: se fosse realmente esistito, ovviamente, Ruggiero avrebbe compiuto il suo viaggio ben prima del comandante della Santa Maria e Bontem- pelli lo sa bene, visto che nel suo stesso racconto lo fa passare «sopra l’America» e gli impedisce di scoprirla con l’espediente di «un ammasso di nuvole» che costringe l’ippogrifo «a salire molto in al- to»229. Nè può essere casuale la scelta di partire dal Mediterraneo e di finire nel Pacifico, che giustifi-

ca peraltro il ricorso alla figura di Europa, mai prima menzionata dall’autore (a differenza degli altri due viaggiatori) ma certo fortemente simbolica. È più probabile che l’intenzione bontempelliana sia quella di accostare, ancora secondo i dettami del realismo magico, un mito classico, una vicenda di realtà storica e una pagina di poema per raccontarle tutte con lo stesso grado di ironica verosomi- glianza, come tappe successive di un’unica avventura. Del resto il viaggio di Colombo è il più in- quietantemente misterioso dei tre: l’unico personaggio a diffidare dal proprio mezzo di trasporto è anche l’unico a disporre di una normale nave. Chi è poi Gomez, il clandestino che mette in dubbio i motivi dell’intera spedizione e le stesse convinzioni scientifiche su cui si basa? Al contrario, Europa è più divertita che sorpresa quando il toro si tramuta in un dio, mentre il passaggio a volo di Ruggiero sull’isola del terzo racconto è persino ignorato da tutti gli abitanti eccetto una fanciulla — che co- munque, invece di essere sorpresa o spaventata, è solo abbastanza estroversa da salutare il nuovo arrivato. Mito e realtà sono le componenti fondamentali della poetica novecentista; l’autore sceglie di coronarle con la sintesi della poesia ariostesca in un trittico troppo essenziale per ammettere altri «fonti primigenie» a cui abbeverarsi.

Le ali si apre situando subito la vicenda nella piega del Furioso cui corrisponde: sin dalla prima riga è dichiarato che si assiste alla più antica traversata dell’Oceano Pacifico, condotta dall’animale

226 — M. Bontempelli, L’avventura novecentista, cit., p. 170. 227 — M. Bontempelli, L’Ariosto geografo, cit., p. 555.

228 — Dalle pagine più in linea col regime dei primi numeri di “900”: «Abbiamo per l’Oriente una diffidenza innata, e ce la teniamo preziosa»; «nel momento stesso in cui ci sforziamo essere degli europei, ci sentiamo perdutamente romani»;

mitologico «a volo quando portò Ruggero dai Pirenei a un’isola dell’Asia ove Alcina lo aspettava, ma lui non ne sapeva niente»230. Nel canto decimo, ricordando questo viaggio in balia dell’ippogrifo in-

governabile, Ariosto dice che il cavaliere era stato tenuto dalla bestia sempre «sopra il mar» e che «terren vide di rado» (X, 69); così nell’interpolata ‘giunta’ novecentesca, grazie anche alla nuvolaglia che oscura l’America, si rispetta il dato scrupolosamente, senza omettere le rare e trascurabili terre realisticamente ammesse nel poema. Il protagonista infatti «durante il viaggio guardava giù da una parte e dall’altra» ma «non scòrse che ogni tanto un isolotto roccioso con intorno i soliti gabbia- ni»231. La medesima fedeltà è osservata anche da de Chirico, che nella prima illustrazione inquadra il

viaggiatore proprio mentre sorvola scogli e isolette (fig. 3). L’artista sceglie uno stile vicino a quello di Fragonard, in linea con l’arcadica prosa d’arte della narrazione, e si discosta dalla lettera del testo proprio per avvicinare l’ippogrifo al pegaso delle illustrazioni settecentesche.

Come specificato nel canto quarto la cavalcatura non ha morso e il cavaliere «deve lasciarsi portare», ma quando i due sorvolano «una vera isola grande», addirittura abitata e «quasi tonda, con un largo orlo piano tutt’intorno, poi un circolo di piante basse [...] e poco più in dentro un altro anello, di rocce alte e strette» l’eccitazione e la fame spingono Ruggero a implorare la creatura e a farla così atterrare. Già queste prime pagine mostrano bene l’inedita levigatezza del solito realismo meraviglioso bontempelliano, finalmente alla prova con il volo ariostesco più volte opposto, nel suo impareggiabile incanto, all’ode montiana alla mongolfiera, alle cronache d’aviazione e all’aeropoesia futurista. L’autore si sforza di immaginare scoperte fisiche ed emotive inattingibili su un banale ae- roplano. Ruggero ad esempio prova per la prima volta a parlare e si stupisce del suono che le sue parole producono nell’aria mobile e rarefatta della cavalcata in cielo («si mise a ridere sentendo la propria voce in mezzo allo spazio»)232. Il «rombo dolce delle ali» poi è tutto biologico, tanto da poter

suonare più o meno allegro, e in generale il velivolo vivo e autonomo offre l’occasione per esperien- ze peculiari, come quella di addormentarsi volando per risvegliarsi al cospetto di un’alba sulle acque dell’oceano. Ciò che però colpisce di più è l’attenzione stilistica con cui si fa emergere l’impotenza dell’aviatore, che non può guidare la propria cavalcatura né sa dove si trovi o dove stia portandolo: uno stato che strategicamente aumenta l’effetto di stupore e rincuorata curiosità generato dalla vi- sione dell’isola misteriosa.

È proprio l’isola l’invenzione più interessante e significativa del racconto. Si tratta, all’appa- renza, di una vera e propria utopia (anche nel senso letterale del termine)233, costruita ovviamente

con in mente la città del sole campanelliana che in quegli anni interessava molto ad Alberto Savi- nio234. Gli abitanti, all’alba, si radunano sulla spiaggia di levante per salutare cantando la sfera infuo-

cata che sorge; poi salgono tutti su una grande nave e costeggiano l’isola seguendo il sole verso po- nente. Con studiate tappe preordinate il vascello fa rifornimento di viveri e altre cose utili senza mai interrompere il cammino, nel corso del quale ognuno svolge le sue mansioni o si diletta in giochi e conversazioni. Il viaggio quotidiano si conclude sulla spiaggia occidentale, dove gli isolani sbarcano per accompagnare con un secondo canto il sole dentro il mare in cui loro stessi si bagnano per imi- tarlo. Nella notte la nave non torna indietro ma continua il giro per ritrovarsi a oriente la mattina

230 — Ivi, p. 537. 231 — Ibidem. 232 — Ivi, pp. 537-538.

233 — Le altre isole identiche alla loro immaginate dagli abitanti sono infatti «tutte fuori dalla geografia umana» e gli abitanti stessi si dichiarano «irraggiungibili». Ivi, p. 555.

234 — Cfr. il già citato saggio dei primi anni Quaranta stampato poi come prefazione all’edizione Colombo in avvio della “collana degli utopisti” nel 1944, oggi in T. Campanella, La città del sole, con una prefazione e commento di A. Savi-

successiva, così da permettere ai passeggeri di scendere per ricominciare il rito. Ogni cosa si svolge da sempre nello stesso modo e gli isolani, vestiti di identiche tuniche azzurre e tutti all’apparenza belli e giovani (si fatica persino a distinguere le femmine dai maschi visto che nessuno porta la bar- ba), neanche si domandano perché, confidando ciecamente nella ripetizione e nella monotonia. Dia- logando sul ponte della nave, uno di loro riflette sulla meraviglia, considerando malati coloro che la nutrono per il nuovo e l’insolito giacché «maraviglioso è tutto quello che nato di numero riesce a ridiventare norma cioè numero e ritmo»:

La maraviglia comincia quando il caso si ripete fino a diventare legge immutabile: è maravi- glioso che il Sole ogni sera tramonti e ogni mattino risorga, da immemorabili secoli e millenni e miliardenni, con gli stessi aspetti e divisioni di tempi. Ogni anno a quella stagione un albero germi- nare e poi fiorire. Dentro noi a ogni secondo il cuore dà un battito, e sale e s’abbassa il respiro; ogni sera il corpo d’ognuno s’addormenta e dopo tante battute si sveglia. E così ogni notte spuntare tutte quelle costellazioni sempre uguali nel cielo e i loro moti ripetersi per le innumerevoli notti del mon-

do; e più d’ogni cosa i modi e i cicli della generazione sopra la terra e nel mare.235

Una perfetta felicità sembra accompagnare il ritmo universale di questa vita sull’isola tonda — come la città di Campanella — e regolata dalle scansioni immutabili del cosmo. Tuttavia, a ben vedere, le incrinature di un simile idillio si fanno progressivamente chiare nella narrazione, distaccando la pic- cola terra asiatica dalle utopie della tradizione. Sull’isola non ci sono filosofi né poeti, non c’è gerar- chia e tutti rispondono solamente al muto sole, unica guida riconosciuta. Le vestigia di un antico, più consapevole rapporto perduto con gli atti e con gli oggetti del rito quotidiano, sono evidenti: pur conoscendo tutti nei minimi dettagli le prescrizioni per la giornata ad esempio, nessuno sa da dove venga la nave e perché il cammino a ponente non sia percorso attraverso la terraferma. L’abitudine di ripetere, sempre alla stessa ora, la frase «Ricòrdati, che questo potrebbe essere l’ultimo viaggio» è salutata da una fanciulla con candida incomprensione: «Lo abbiamo detto tante volte, che non sap- piamo più che cosa vuol dire»236. I tempi stessi per simili appuntamenti con la monotonia sono mi-

surati attraverso una serie di grandi rocce egualmente distanziate che hanno forma d’uomini: Rug- gero si stupisce scoprendone le mastodontiche fattezze — e de Chirico coglie proprio la reazione di meraviglia (fig. 4) facendo della statua un granitico Grande Metafisico che scruta l’orizzonte — ma gli abitanti dell’isola si limitano a usarli come meridiane, come rovine risemantizzate dalla necessità, e mancano di imitare il loro pietrificato atteggiamento centrifugo di sguardo verso il mare, verso le altre terre vicine e lontane. Non sono mancate occasioni, nel passato relativamente recente, per un «rapidissimo» viaggio «nelle parti più vicine del mondo»237 allo scopo di procurare oggetti utili e so-

prattutto informazioni («perché è pur bene», ammette uno degli isolani, «sapere tutto») ma, senza alcun motivo, quei pellegrinaggi sono cessati:

oramai, non so come, da parecchi anni non ci siamo più andati, in quelle terre là, dove si grida, si inventa, si comanda, soprattutto si litiga, dove si giudica e si punisce, dove si notano tutte le azioni degli uomini e si studiano come se fossero movimenti delle stelle; e la maggior parte di quelle azioni sono bassezze o delitti, ma quelli non lo sanno, hanno un ingegno straordinario a trovar loro certi

nomi grandiosi.238

Gli ideali che sembrano sostenere gli uomini e le donne del racconto nel circolo continuo delle loro esistenze sull’isola sono dunque piuttosto in linea con quelli di una civiltà ideale estranea al caos, al potere e alla violenza. Tuttavia non hanno un reale legame con il rituale che vivono, che funziona

235 — M. Bontempelli, Giro del sole, cit., p. 551. 236 — Ivi, p. 557.

piuttosto come un narcotico assentarsi dalla storia. La voce narrante ci informa che la notte «è un teso travaglio di aspettazione, dubbio che si accumula sul cuore», mentre il giorno «di tanto anelito [...] è il necessario riposo [...] una ripresa lenta di forze, una serie d’atti precisi che raddensano la no- stra sostanza quando più minacciava dissolversi». Simili idee «che non tutti afferravano» erano co- munque «in tutti ricevute per tradizione [...] diventate natura»239 acriticamente, per forza di ripeti-

zione. Non a caso il senso del continuo giro a occidente è interpretato da chi lo ripete come un eser- cizio di leggerezza e di calma, ma nessuno riesce a interpretare il fine, l’esito, la soluzione di tale esercizio:

«Quando il Sole ha fatto per quell’uomo il numero di giri necessari intorno alla terra, lui fi- nalmente s’accorge d’essere diventato leggero»

«Ma il numero di giri che bastava per te non basta per me» incalzò Mattia. «In questo modo nascono gli squilibri tra gli uomini, e questa è la grande storia che si insegna di generazione in gene- razione nel mondo.»

«Io non capisco» disse Sirio «che su due miliardi d’uomini, dicono che tanti ne ha la terra, solo in questo piccolissimo punto e solo per noi così pochi il Sole abbia girato abbastanza per farci rag- giungere la calma.»

«Oh» rispose Cèrilo abbassando la voce «io sono certo che sono altre isole simili alla nostra [...] per questo credo che siamo irraggiungibili. E ognuno non conosce che l’isola propria. Forse nuove ne nascono e le vecchie scompaiono, quando non servono più.»

«In che modo possono non servire più?»

Nessuno rispose. Un silenzio carico avvolse per un minuto quella gente imperterrita.240

Mi sembra che una simile utopia degradata a cieca abitudine, in cui uomini che hanno costruito co- lossi protesi verso l’orizzonte diventano schiavi del sole e si accontentano di girare abbastanza da raggiungere una pace composta d’ignoranza e oblio, sia il drammatico esito allegorico di quell’Italia idilliaca che Bontempelli aveva prefigurato nel 1907 e ritenuta a portata di mano negli anni del fasci- smo. La sostanziale ‘provincialità’ degli isolani — che disprezzano gli avvenimenti, le città e la voglia di novità che ha spinto alcuni passati compagni ad andare via — somiglia a quella dell’area strapae- sana della cultura tra le due guerre, contro cui l’autore si era sempre schierato.

Ma è la loro tabella di marcia svuotata di senso, obnubilante e rigidamente osservata a colpire di più nel suo rivelare un giudizio amaro sul regime, in cui Bontempelli aveva effettivamente credu- to ma che si era trasformato sotto i suoi occhi (e anche per sua responsabilità) in uno spastico totali- tarismo ottuso e rituale, estraneo all’Europa e ai suoi stessi ideali di partenza — almeno per come poteva averli intesi lui, che in effetti aveva cominciato presto a scrivere contro la stolida applicazione di principi retorici e in favore di un fascismo più socialista e modernista. Non ho nessuna intenzione, come già detto, di affrontare direttamente la questione del fascismo e del successivo anti-fascismo di Bontempelli: trovo però che sia impossibile leggere Le ali senza, ancora una volta, pensare all’aspira- zione a uno sguardo sereno sul mondo — da cui partire per offrire un documento spirituale (non materiale) dei tempi — che l’autore nutriva specchiandosi nelle ottave ariostesche. Una visione «ni- codemita»241 e in un certo senso ‘a chiave’ di questo come di altri testi già analizzati mi pare autoriz-

zata proprio dal modo in cui l’autore leggeva Ariosto e vi trovava i segni di un’insofferenza politica ed esistenziale velati dalla razionale intelligenza dell’immaginazione. D’altronde è vero che la fortu- na del racconto è legata soprattutto alla purezza dello stile e alla riuscita fantasia delle invenzioni, in effetti godibilissime anche senza la lettura storica e testimoniale che sto proponendo.

Ma torniamo alla vicenda narrata e al ruolo che Ruggero gioca nel suo intreccio. Il cavaliere

239 — Ivi, p. 567. 240 — Ivi, p. 555

241 — Nel senso che notoriamente Eugenio Garin attribuì all’aggettivo, cfr. E. Garin, premessa alla nuova edizione in