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Ludovico della tranquillità e del sangue

5. Favola reale e realtà favoleggiata

Accumulare chiavi di lettura senza poterne scegliere una e affidarsi, piuttosto, all’esercizio elemen- tare e complessivo del leggere non significa naturalmente che Baldini — come del resto Bacchelli, con le sue narrativizzazioni della storia estense a cui stiamo per tornare — si limiti a un’arbitraria impressione sul poeta e sulla sua opera, che si sia insomma «inventato un Ariosto» come gli rimpro- vera Seroni in un citatissimo commento182. Negli anni della massima affermazione anche strutturale

della scuola storica e della filologia come strumento di conoscenza, frequentare un classico in veste di lettore e, a propria volta, di autore, implica anche la rivendicazione di un ruolo non scontato, spe- cie se quel classico non è un maestro relativamente recente (come Leopardi o Manzoni, entrambi trattatissimi dalla scrittura critica e non di tutti i rondisti, e di Baldini e Bacchelli in particolare) a cui riallacciarsi dopo lo strappo anti-ottocentesco delle prime avanguardie, ma un più remoto modello da trasportare nelle necessità estetiche e ideali della modernità. Non è un caso che entrambi gli au- tori, pur in modo diverso, tengano molto al rapporto di Ariosto con il suo controverso secolo e con il potere. Non è un caso nemmeno che, al di là di suggestioni personali e riprese specifiche, si impe- gnino a condividere con il loro pubblico soprattutto i compromessi con la realtà, le stanchezze poe- tiche e morali, la virile resistenza pratica e creativa di un poeta tanto fantasioso e apparentemente leggero, emblema di un secolo altrettanto idealizzato. Si potrebbe arrivare a dire che la divaricazione tra i due ‘Ariosti’ sia dovuta, al netto delle differenze stilistiche e tematiche, ai due diversi ruoli sociali e alle due diverse posizioni politiche che Baldini e Bacchelli hanno finito per avere nel contesto del-

l’Italia fascista183. Entrambi tuttavia rispondono in primo luogo a dubbi ineludibili intorno al ruolo

pubblico dello scrittore e all’ammissibilità delle sue private incertezze. Mi auguro che l’approdo che ci accingiamo a raggiungere e interrogare più da vicino — le due opere più ambiziose intorno ad Ariosto, La congiura bacchelliana e Ludovico della tranquillità di Baldini, entrambe dei primi anni Trenta — confermino quest’elemento di coerenza nelle esperienze ariostesche dei due autori esplo- rate fin qui.

Tutta la critica sul mastodontico seguito della Difesa dell’egloga ariostesca pronunciata da Bac- chelli a Ferrara (La congiura di Don Giulio d’Este, come anticipato, è in sostanza un’ampia elaborazio- ne della stessa questione) è incentrata sulla natura del testo, sulla sua legittimità e sul significato che può ricoprire nell’opera dell’autore. Sia i recensori contemporanei che i lettori successivi hanno mi- surato i rapporti d’equilibrio tra storia e invenzione, hanno ragionato sull’opportunità dell’opera- zione e l’hanno inquadrata nella carriera letteraria di Bacchelli, che oggi ci appare — rispetto al 1931, anno di uscita della libro — sospesa nel passaggio tra Una passione coniugale e Mal d’Africa, e soprattutto poggiata sul fulcro che separa e relaziona i due importanti confronti col genere del ro- manzo storico: la prova di Il diavolo di Pontelungo e il fondamentale esito del Mulino del Po. Un buon punto di partenza per districarsi nelle molteplici questioni che solleva il libro (è un saggio o un ro- manzo? illustra o giudica i suoi protagonisti e le loro storie? la congiura ne è l’oggetto o il pretesto?) è offerto da uno scritto immediatamente successivo dell’autore, che risponde alle prime recensioni a pochi mesi dalla data di pubblicazione.

La strategia retorica di questa sorta di autodifesa si basa in gran parte sulla tutela della dimen- sione informativa e «dimostrativa» del testo. Bacchelli esibisce subito la credenziale non da poco del plauso «di E. Gardner sul “Literary Times”»184 e, pur dichiarando di non avere interesse a «intonare

un Exegi monumentum!», si dichiara convinto che, se non altro, «la Congiura resterà lavoro fondamen- tale per chi studierà il periodo di storia ferrarese di cui esso tratta»185. La profezia non si è rivelata poi

troppo audace: non solo il libro è, ad oggi, il suo più citato lavoro su Ariosto e sul Cinquecento — e abbiamo visto che Bigi ne riconosce l’influenza sugli studi successivi186 — ma ha avuto una fortuna

varia e importante. Nel suo best-seller su Lucrezia Borgia, ad esempio, Sarah Bradford cita l’autore come «the historian of the congiura» e sposa in parte le sue conclusioni, specie sul ruolo difficile e ben gestito di Ariosto187. Ciò che più interessa leggendo la contro-recensione è però la serie di aperture

che sono concesse allo sguardo del lettore sull’officina del libro. Bacchelli ha trascorso mesi in archi- vio, andando personalmente alla fonte dei documenti e delle carte che già sostenevano la Difesa e

183 — La questione dei rapporti col fascismo dei due autori è complessa e non è questa la sede per valutazioni. L’inte- resse va piuttosto all’influenza della contingenza politica sulla letteratura e sulla particolare forma di tradizionalismo perseguita da entrambi. In ogni caso, al di là delle rispettive biografie, vd. L. Caretti, Il “fascismo” della Ronda, in “Il Con-

temporaneo”, II, 48, 1955, p. 3; A. Pupino, ‘Modernità’ della «Ronda», in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”,

CLXXIX, 587, 2002, pp. 403-410. Particolarmente utile a capire l’inclinazione ideologica dei rondisti (su cui insisterò per i paralleli che gli stessi Baldini e Bacchelli impostano tra la loro esperienza del potere e quella di Ariosto) il saggio A. Cor- tellessa, Dalla torre d’avorio all’estetica del carro armato. Autonomia ed eteronomia del letterario nelle riviste romane 1926-1944, in F. Mazzonis, La stampa periodica romana durante il fascismo, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1988, pp. 29- 83.

184 — R. Bacchelli, A proposito della “Congiura di Don Giulio d’Este”, in “La Cultura”, X, 11, 1931, pp. 893-901: 893. Il criti-

co citato è con ogni probabilità Edmund Gardner, l’autore tra l’altro di Dukes and Poets in Ferrara: a Study in the Poetry,

Religion, and Politics of the Fifteenth and Early Sixteenth Centuries, uscito nel 1904 a Londra presso Archibald Constable. L’opera di Gardner è certo tra le fonti de La congiura.

185 — Ibidem.

186 — «La congiura di Don Giulio D’Este e gli altri saggi ariosteschi segnano in ogni caso una svolta fondamentale nella storia della critica sull’Ariosto [...] una dimostrazione che sarà tenuta presenta dalla più meditata critica ariostesca recen- te, dal Dionisotti al Caretti al Segre». E. Bigi, Bacchelli tra Ariosto e Leopardi, in G. Pampaloni et alii, Riccardo Bacchelli. Lo

lasciando che ricerca e invenzione combattessero la loro battaglia sullo scrittoio. Per difendersi dai commenti negativi di Roberto Palmarocchi, uno dei più severi recensori, l’autore ammette di aver fatto violenza al proprio stile in cerca di certezze e di aver cercato, nella fatica dello studio, soprat- tutto di far viva e propria la materia storica:

Il materiale raccolto e trascritto, non starò qui a vantare quanto di più di quel che appare nel libro, me lo lessi e me lo feci mio. Quand’ebbi in me viventi e parlanti col loro linguaggio e colle loro passioni ed idee i personaggi, gli eventi, i sentimenti e i sensi, sì, la fatica fu grande. Era la fatica che nell’opera esalta e distrugge la materia nell’artista e l’artista nella materia, e cha dà a lui la mor- tale felicità d’aver tratto dai suoi giorni e dell’animo suo qualcosa che non si corrompa coi giorni e

col corpo.188

«Castigavo le parole», ricorda Bacchelli, «quanto più la materia era viva, abbondante e distinta nella memoria»189, confessando di aver da un lato tentato di abbandonarsi alla materia stessa e di calarsi

nelle «testimonianze reali», dall’altro di aver preteso di raccontare tutto «quasi nell’atto della sua scoperta».

Non può negare tuttavia — e qui sta l’interesse maggiore del libro nel nostro percorso — che il contrappeso alle «testimonianze reali» sia, come notano in effetti dai recensori più favorevoli, una «arte d’espositore» e un «significato artistico» non neutri in un’opera che, pur volendo difenderne i contenuti storici, resta «fantastica[a] e poetic[a]» per obliqua ammissione190. Il giudizio più eminente

sul libro, quello di Gentile191, è parafrasato a riprova dell’esito felice della «fatica»: «l’autore ha rivis-

suto questa storia del più vivace e ricco Rinascimento in un suo mondo e nel mondo dell’Ariosto»192.

È proprio in questo incontro tra i mondi che si consuma, dal punto di vista della ricezione di Ariosto e della evocazione del suo secolo, il più alto raggiungimento dell’opera, i cui correlati meriti princi- pali sono tuttavia spesso additati dai critici contemporanei come difetti. «Felix culpa!» esclama al con- trario l’autore a proposito, per esempio, dell’evidente sproporzione tra l’obiettivo dichiarato del li- bro (quello di spiegare le reazioni di Alfonso e Ippolito nei confronti di Ferrante e Giulio e di riabili- tare conseguentemente l’egloga che ne è nata) e i suoi reali esiti: «per illuminare la congiura mi son venute dette cose più importanti di esse»193. In effetti i fatti di sangue e di politica spesso si perdono

in un paesaggio ben più ampio, che abbraccia natura e storia della valle del Po con liricità e parteci- pazione non indifferenti che non intralciano, in ogni caso, il rispetto di specifici appuntamenti con la realtà documentaria.

In particolare emergono figure che a fatica, in un normale saggio, potrebbero essere conside- rate utili a «illuminare la congiura». Si prenda ad esempio Biagio Rossetti, il «signore della fantasia architettrice» che governava tecnicamente gli argini e aveva progettato e realizzato il palazzo dei

188 — R. Bacchelli, A proposito della “Congiura di Don Giulio d’Este”, cit., p. 900. 189 — Ibidem.

190 — Bacchelli infatti, nell’auto-recensione, semplicemente evita, come è suo costume, di commentare la dimensione inventiva del lavoro («sono persuaso, e sempre più, che la polemica dell’autore in difesa di opere fantastiche e poetiche sia vana e spesso dannosa»). Tiene però a salvare ogni aspetto del «lavoro dimostrativo» che la Congiura presenta «in pri- mo luogo» (R. Bacchelli, A proposito della “Congiura di Don Giulio d’Este”, cit., p. 893). È interessante che, più avanti, la questione torni in discussione, e che l’autore concluda: «i libri originali nascono col vezzo di comporsi secondo necessità e sagome proprie, e il rischio che corre di non vedercele quando ci sono chi non ce le vede, è per lo meno uguale al ri- schio che corrono, coll’autore, di vedercele anche quando non ci sono quelli che ce le vedono» (p. 899). Accogliendo poco più avanti il giudizio di Gentile — che come vedremo chiarisce esplicitamente di ritenere la Congiura un’opera schiettamente poetica basata sulla storia — Bacchelli ammette insomma le sue intenzioni narrative, evitando però di nascondersi dietro di esse alle critiche intorno all’esattezza e alla onestà degli elementi storici che usa: semplicemente il rigore è necessario poeticamente, la realtà storica è un ingrediente fondamentale dell’invenzione artistica.

191 — G. Gentile, La congiura di don Giulio d’Este, in “Corriere della Sera”, 14 agosto 1931. 192 — R. Bacchelli, A proposito della “Congiura di Don Giulio d’Este”, cit., p. 901.

Diamanti: Bacchelli cerca anche in figure simili, di comprimari relativamente marginali agli occhi della storia politica e letteraria, quella peculiare declinazione del genio rinascimentale che Ariosto incarna — nella sua lettura che tiene insieme Machiavelli e Dosso, il mestiere delle armi e quello della diplomazia — attraverso la sua vita e la sua opera. Così Palazzo Costabili, la dimora di Ludovi- co il Moro, diventa un prodotto del gusto e dell’immaginazione ferrarese equiparabile al Furioso: l’architetto è «prodigo della sua fantasia come l’Ariosto» e il suo palazzo è «degno dell’onda più me- lodiosa ed esatta dell’ottava ariostea»194. E così uno dei personaggi più indagati e approfonditi diven-

ta ad esempio il «minimo principe» Alberto Pio di Carpi, dal cui epistolario Bacchelli ricava un am- pio ritratto a tutto tondo. Anche attraverso l’azione politica del signore e la sua umanità, raccontate non senza romanzesca partecipazione (poi fortemente difesa, come invito a riscoprire una figura «insigne e malamente oscurata», nell’auto-recensione su “La Cultura”)195, sono evocati i tratti del

Rinascimento ariostesco e ferrarese:

Quel tanto d’appassionato e fantastico, e sia pur chimerico, che è della figura di Alberto, è di natura ariostesca [...] voglio dire, che nella politica di Alberto Pio si riscontra e si riscontrerà sempre e sempre più quella temperanza di entusiasmo e di saggezza, di lucido giudizio e di ebbrezza fanta- siosa, che è propria, in poesia, dell’Ariosto, e, nella storia, di quella Ferrara estense e

rinascimentale.196

C’è poi da dire che il personaggio di Alberto muove a sua volta l’attenzione su Aldo Manuzio, che completa il ritratto storico di Ercole — nonché quello di Ariosto, naturalmente — e che l’analisi (in un ampio paragrafo tra gli ultimi della prima sezione)197 della sua formazione intellettuale offre a

Bacchelli l’occasione per raggiungere da un’angolazione insolita il topos storico-culturale dell’educa- zione del principe, del ruolo degli uomini d’ingegno a corte e, in generale, dell’umanesimo come modello culturale calato nella realtà pratica e politica.

Rispetto a simili deragliamenti dall’oggetto principale — e all’indagine, spesso anche psicolo- gica e sentimentale, di figure a prima vista non centrali: da Lucia Brocadelli, la mistica di Narni, al cancelliere Francesco Mazzoni — Palmarocchi ritiene che «l’opera del Bacchelli ha il difetto dei lavo- ri che nascono indirizzati a una meta e poi per istrada si smarriscono per più grati cammini e solo dopo lunghi erramenti ritrovano la primitiva direzione»198. Ebbene, anche qui è proprio l’apparente

«difetto» a mostrare come l’autore abbia in realtà inteso e messo in opera con originalità la lezione del Furioso nell’esperimento della Congiura: l’anomalia del classicismo impuro che Contini ricono- scerà nel Mulino radica, mi sembra, proprio qui, nella commistione di storia e racconto, di «erramen- ti» e «direzioni» — e vedremo a breve in che modo l’autore esercita, nella Congiura, le prerogative digressive e, per così dire, anti-aristoteliche garantite da un simile recupero della struttura ariostesca. Del resto uno dei sintagmi più citati della trilogia del Mulino— l’autodefinizione «storia, o vuoi poema, del Mulino del Po»199 — basta forse da solo a chiarire come il modello che autorizza questo

tentativo di governare narrativamente una selva multiforme di notizie e personaggi sia davvero il poema cavalleresco, l’epica e il romanzo del Furioso. La Congiura non è né un poema né un romanzo

194 — R. Bacchelli, La congiura di Don Giulio d’Este, cit., p. 102.

195 — «Sarei tentato di rispondere che il ritratto della gioventù di Alberto Pio basterebbe a giustificare il mio libro, aspettando chi l’adempirà». R. Bacchelli, A proposito della Congiura di Don Giulio d’Este, cit., p. 899.

196 — R. Bacchelli, La congiura di Don Giulio d’Este, cit., p. 436.

197 — Nell’edizione Treves del ’31, la Congiura era divisa in due libri. Il primo si concludeva appunto con un capitolo dedicato alla formazione intellettuale di Alberto Pio e alla politica di Ercole tra Carpi e Venezia, chiudendo con un’anali- si del savonarolismo di Giovan Francesco Pico della Mirandola. Il capitolo si trova, nell’edizione 1958 che abbiamo preso come riferimento, alle pp. 214-247.

tout court naturalmente, ma la sua novità si basa sulla lezione del poema-romanzo di Ariosto: con- templare con schiettezza la verità e superarla, senza rifiutarla, attraverso un’invenzione creativa non gratuita né davvero straniante:

La conclusione generale di questo studio particolare e particolareggiato vorrebb’essere, secon- do l’autore, che le risultanze d’esso storiche e critiche e biografiche, concorrono a indicare nell’Ario- sto una delle cime del Rinascimento, proprio in quanto il poeta della libera fantasia partecipa pro- fondamente di quello spirito che, accettando la «verità effettuale della cosa», per dirla con Machiavel- li, ossia la realtà del «mondo» con tutte le conseguenze più acri e più difficili, seppe, come appunto l’Ariosto fra gli altri splendidamente, superarla nei creati dello spirito, senza rifiutarla, quella verità e realtà, senza straniarsene cadendo in «barbarie della riflessione», per dirla con Vico, in «solitudine»

filosofica e pratica dei «delicatissimi».200

L’Ariosto di Bacchelli, in quanto personaggio del libro, è al contempo l’uomo pubblico, pratico e geniale che già avevamo incontrato nella Difesa («votato alla quiete, al distacco, all’oblio nella libertà fantastica agognata, indocile verso di essi viveva i fatti: non era uno spirito ozioso d’esteta»)201 e una

fonte da imitare. In quest’ultimo senso è interessante indicare almeno un parallelo. In un confronto col Boiardo, l’autore dipinge il «feudatario e poeta» come abbandonato al «rimpianto» per il passato che canta, mentre Ariosto, «poeta e diplomatico», è talmente disincantato da godere della sua pro- pria favola «quanto più è favola lontana, impossibile», secondo un’intuizione che già nella Difesa lo avvicinava paradossalmente al mondo proprio nell’esercizio del fantasioso distacco. Se Boiardo chiama in causa la realtà del «mondo com’è» per «ricordare quanto sarebbe più bello l’altro», la scrit- tura di Ariosto ha insomma la malinconia, piuttosto, di evocare «il vero e il presente, per rammenta- re che la sua è favola»202. Allo stesso modo, nell’auto-difesa, la «poesia» che anima la Congiura è defi-

nita «triste e stoica e senza illusioni»203 e Bacchelli trova congeniale alle sue intenzioni una definizio-

ne di Piovene — «idillio di una melanconia epigrammatica»204 — che sottolinea la compresenza di

nostalgia e lucido disincanto nella rievocazione storico-romanzesca. Anche a conferma di un simile atteggiamento nei confronti del vero — e della favola che può trasmetterlo —, ragionando intorno al modo in cui l’autore legge e poi racconta il Rinascimento estense, diversi critici successivi sono arrivati a considerare il libro come luogo d’incubazione dello storicismo post-manzoniano della sua produzione maggiore205. Saccenti ha parlato, per il narratore della Congiura, di un «artista della sto-

ria», capace di sviluppare poeticamente elementi che sarebbero inservibili «nel quadro canonico di una determinata ricerca storica “normale» per dar loro un ruolo investendoli «nel suo raggio di vita- le ricreazione»206. Giorgio Bergamo adopera invece l’ambiguo termine «paleorealismo», intendendo

un modus sia di scrittura che di analisi che «rianticipa il passato col grandangolo della visione poeti- ca»207 — lo stesso, dichiaratamente, delle prove successive («ma poi il Mulino del Po non sarà il capo-

lavoro del paleorealismo?»)208. Di certo un simile stile, in cui la realtà dei documenti è rivissuta (o

ricreata) come trama pluricentrica e offerta a chi legge nella sua più articolata complessità, somiglia

200 — Cito dalla prefazione, in R. Bacchelli, La congiura di don Giulio d’Este, cit., pp. 1-13: 13. 201 — Ivi, p. 118.

202 — Ivi, p. 48.

203 — R. Bacchelli, A proposito della Congiura di Don Giulio d’Este, cit., p. 896. 204 — Ivi, p. 900.

205 — Mario Saccenti la definisce «la più estesa e compatta overture del Mulino, quasi un decennio prima del Mulino». M. Saccenti, Preludio ariostesco-estense al «Mulino del Po», in La cultura ferrarese fra le due guerre mondiali. Dalla Scuola Metafisica

a «Ossessione», a c. di W. Moretti, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 155-161: 156. 206 — M. Saccenti, Riccardo Bacchelli, Milano, Mursia, 1973, p. 87.

più all’idea di una poesia «popolare ed accademica»209 — sviluppata da Bacchelli, come abbiamo

visto, proprio a partire dal Furioso — che non a una semplice esposizione sui generis, magari ingenua o arbitraria, della storia. Rigore e libertà sono in generale i fondamenti della poetica bacchelliana (secondo Bigi, il loro equilibrio è alla base del legame che l’autore cerca con Ariosto)210, e la libertà

con cui sono trattati i dati e le figure della Congiura è autorizzata proprio dall’onestà della ricerca su cui si basa la scrittura. Se non si vuol credere infatti che elementi fondamentali quali la mancanza di note, la struttura divagante, l’assenza di gerarchia tra i personaggi, e il continuo intervento dell’au- tore (che riporta i lettori alla realtà corrente211, giudica uomini e fatti, conduce il suo pubblico da un

filone all’altro della storia estense)212 si siano accumulati sulle pagine a causa dell’ingenuità e del-

l’inesperienza di un aspirante saggista, bisogna considerarli invece intenzionali strumenti di un ro- manziere alle prese con la realtà della sua terra d’origine e con la personalità di un poeta di riferi- mento. Come si deduce dall’opposizione tra «scienza della storia» e «arte della storia» proposta da Saccenti213, tali elementi sono evidentemente esiti formali e strutturali di un’intenzione creativa,

poetica, narrativa. Non bisogna infatti dimenticare che la recensione di Gentile, attraverso cui l’au- tore stesso sintetizza la propria esperienza di scrittura nella sua auto-difesa, indica chiaramente che, sebbene dalla Congiura si può addirittura «imparare molta più storia e intendere molte più cose che