• Non ci sono risultati.

Ludovico della tranquillità e del sangue

2. Mori predicatori, favole e idee

Il percorso parallelo si apre, come i precedenti, prima della grande guerra, negli anni in cui Baldini e Bacchelli si formano come letterati l’uno a Roma e l’altro a Bologna. Solo il primo, meritandosi poi per questo il soprannome rondista di ‘Baccelliere’25, terminerà gli studi in Lettere, mentre il secondo

passerà presto a dedicarsi del tutto alla scrittura giornalistica e creativa. Nello stesso periodo in cui sta sviluppandosi il germe della metafisica a Ferrara e Bontempelli promuove le Odi che includono il suo acerbo programma26, i due studenti si affacciano giovanissimi sulla scena editoriale italiana con

due prose che, già dal titolo, lasciano intuire l’impronta ariostesca delle rispettive formazioni, che pure sono state differenti ed entrambe affollate di altri classici amati e imitati: Primo sermone di Ferraù sul vivere solitario e Il filo meraviglioso di Lodovico Clò. Testi giovanili, decisamente anomali rispetto a quelli anche solo minimamente più maturi, i due esordi permettono però di mettere in campo i primi elementi dei due peculiari ‘classicismi modernisti’ destinati a intrecciarsi e divaricarsi fino agli esiti più celebri dei decenni successivi.

Per quanto riguarda Baldini non ci sono dubbi: il peso del Furioso è già evidente, e anzi richie- de una discreta acribia per essere completamente misurato nei dintorni dell’esordio creativo. Il Primo sermone di Ferraù avvia infatti, nel 1911, uno dei «due momenti più esplicitamente ed intensamente ariosteschi» dell’attività letteraria dell’autore, individuati da Renzo Cremante nei pressi delle due guerre mondiali27. In realtà la predilezione per il poeta di Orlando ha lasciato tracce letterarie persi-

no più antiche, che risalgono a una vera e propria preistoria creativa rimasta nell’ombra fino alla scomparsa dello scrittore. Il ‘romanista’ Ceccarius, suo compagno di scuola, ha infatti per decenni conservato le precoci prove poetiche liceali del diciottenne Antonio, pubblicandole solo nel 1963 — accompagnate da una commossa memoria degli anni del Visconti — nel numero di “Nuova Antolo-

25 — Naturalmente in ironico riferimento al Faust, citato anche in epigrafe in uno dei primi volumi baldiniani (Umori di

gioventù) che seguirono la fondazione della “Ronda”.

26 — La lirica di Bontempelli peraltro è subito notata da Baldini, che ricorda di avere, tra i suoi primissimi scritti, «stam- pato sulla carta d'una rivista bibliografica romana certe recensioni e articoletti critici, in uno dei quali ricordo che an- nunciavo la nascita d'un grande poeta, che era poi Massimo Bontempelli». A. Baldini, Umori di gioventù, Firenze, Vallec-

chi, 1920, p. 17. La recensione, non firmata, compare effettivamente in “La Cultura Contemporanea”, II, 11-12, 1910, pp.

196-198. In essa peraltro Baldini si dice colpito proprio dalle liriche che erano uscite nel 1907 su “Nuova Antologia”: «una più vasta significazione del nome di Poeta (Al Tasso p. 25) giunge alla glorificazione della vita attiva e della scienza (Al-

l’Ariosto p. 31)» (p. 196); «Tra le [odi] più significative quelle per l’Ariosto, per il Tasso e l’Ode agli spiriti fraterni» (p. 197). 27 — Si tratta di «quello del precoce apprendistato e dei primi passi critici e letterari (1912-1915)» e di «quello degli anni maturi e della vena elzeviristica più copiosa e felice, in particolare dal 1928 al 1933: le stagioni, altrimenti, di Maestro Pa-

stoso e di Umori di gioventù da una parte, de La dolce calamita e di Amici allo spiedo dall’altra». R. Cremante, Archivi del nuo-

vo, cit., p. 59. La collocazione del primo terminus nel 1912 e non nel 1911 è dovuta con ogni probabilità alla scelta di con-

gia” pubblicato in suo onore dopo la morte28. Ebbene, tra strambotti amorosi e scherzi goliardici in

versi manoscritti su fogli volanti e bigliettini, il ragazzo consacrava, il 20 maggio del 1907, un ironico ‘quasi-sonetto’ all’Ariosto, chiedendogli di condividere la dedica con l’amico che ne ha poi conserva- to l’autografo per cinquant’anni: «A Ludovico Ariosto / a Pipì Ceccarelli / consacro; / ma fate bene le parti / e non vi litigate / se no / non vi dedico più niente. / Amatemi e / perdonatemi»29. Il testo

vero e proprio sembra prendere spunto dalla sete di avventure di Rinaldo nel bosco di Calidonia (il titolo recita: Leggendo il IV Canto del «Furioso») e vede il giovane poeta cavalcare un asino per salvare una tale «Cencia refrattaria» come una sorta di don Chisciotte della campagna romana.

In campagna una sera solitaria, Ludovico, dove più spassose

sono le vie tra l’alte quercie ombrose, sopra un asino andavo con gran aria; quando entro me una straordinaria brama sentii di compiere gran cose: di liberar da insidie mostruose lei, sempre lei, la Cencia refrattaria. E a furia, per l’obliqua via, al galoppo spinsi il destriero giù, all’impazzata sin là dove la via in due si stacca; Ahi che forse ero giunto tardo troppo

ché sentii la sua voce soffocata...30

Il perduto documento di Baldini non è certo significativo come la poesia di Bontempelli che abbia- mo recuperato nel capitolo precedente — sempre del 1907, sempre rivolta a «Ludovico» e anch’essa apparsa, sebbene cinquant’anni prima, su “Nuova Antologia” — ma del resto tra i due autori corre, all’anagrafe, oltre un decennio. Ben più interessante il Sermone di Ferraù, su cui torniamo senz’altro, che riempirà «settanta cartelle»31 assai meno scherzose solo cinque anni più tardi.

Il testo è costituito da un’accorata prosa confessionale — avvicinabile, per stile e tema, agli introversi frammenti che di lì a poco avrebbero sostanziato il nuovo corso purista della “Voce” — e la neonata rivista “Lirica” di Onofri lo accoglie nel 191232, iniziando una breve e strana collaborazio-

ne con l’autore33. Ancora poco più che adolescente e immerso nelle letture erudite di un laureando

28 — Composto da vari contributi, questo Omaggio ad Antonio Baldini è contenuto in “Nuova Antologia”, CDLXXXVII,

1945, gennaio-aprile 1963, pp. 25-109. La premessa è di Giovanni Spadolini. Gli scritti, divisi in sei sezioni (L’amico, Lo

scrittore, L’uomo, Il romano, Il tempo della gioventù, e Gli anni della maturità), sono firmati da numerosi letterati e scrittori tra cui Soffici, Palazzeschi, De Michelis, Raimondi e lo stesso Bacchelli. Il ricordo di Ceccarius è alle pp. 87-92, nella sezione

Il tempo della gioventù. 29 — Ivi, p. 88.

30 — Ibidem. Al verso 11 c’è una variante: «con scivoloni con la groppa stracca», la quale a sua volta presenta la variante «giù scivolando con la groppa stracca».

31 — A. Baldini, Umori di gioventù, cit., p. 18.

32 — A. Baldini, Il primo sermone di Ferraù sul vivere solitario, in “Lirica”, I, 3, pp. 91-108. In questa versione il sermone ha

un diverso, oscuro cappello (p. 91, mai più ripreso), in cui Ferraù sembra essere un amico di Antonio scappato dalla città. 33 — Il lirismo assoluto di Onofri, non immune da influenze crepuscolari e futuriste, non poteva essere, a quest’altezza, del tutto congeniale a un Baldini ancora legato a un classicismo accademico ed ancora estraneo al modernismo papinia- no che lo avrebbe incuriosito solo qualche anno dopo. Le perplessità rispetto alla collaborazione con “Lirica”, che nasce da una inaspettata amicizia col direttore («non ho con [Onofri] nessun punto di contatto e di comunione possibile: e pur comunichiamo tanto e così spesso!»), sono espresse dall’autore stesso in una lettera a Cecchi del 3 ottobre 1913: «Non so proprio cosa dirti per la tua collaborazione in Lirica. Anche a questo fatto io non porto nessuna convinzione: il che è debole e forse disonesto. Io ho mandato ormai da tempo alcune cose che probabilmente se non avessi saputo dove sa-

con la maturità classica — l’idea di un elogio al «vivere solitario», con ogni evidenza, è cosciente- mente petrarchesca34 — chi scrive affida le proprie insicurezze intellettuali e sentimentali alla voce di

un alter ego che, sapendolo sconsolato, comincia ad ammaestrarlo pronunciando il «sermone» di cui è composto il testo. Ferraù, oratore dall’appassionata retorica ciceroniana, sarebbe facilmente ricon- ducibile a una lettura leopardiana del Seneca morale — o magari delle disputationes, appunto — e il modello della predicazione è ovviamente mutuato dal De otio religioso. D’altronde, perché chiamare in causa un interlocutore che pronunci il sermone senza nemmeno trasformare il trattato in un dia- logo? Chiaramente il personaggio ha un valore simbolico, e non possiamo che cercarne la chiave nell’unico tratto riconoscibile: il nome. Il testo non offre altro: nessuna descrizione, non una spiega- zione del perché Ferraù chiami «fratello» l’autore e intenda risolvere le sue afflizioni; lo stesso Baldi- ni inquadra l’oratore nella sua funzione letteraria, denunciando ulteriormente i modelli classici del proprio debutto letterario:

Al «Sermone» andava innanzi una specie di breve presentazione di Ferraù, amico bizzarro e immaginario che si fingeva essersi allontanato un giorno dall'umano consorzio per farsi «vagabondo propagandista della vita selvaggia», e che poi, ritrovato una sera di luna in mezzo alla campagna da

me che andavo lamentando certa puntura del cuore, così aveva parlato.35

Scegliere Ferraù come doppio opposto a un sé mondano e dipendente dagli altri, come campione di una filosofia di vita contraria alla propria e forse preferibile significa trarre dal Furioso il doppelgänger più a portata di mano per confrontarsi con un’alterità possibile, nella forma più introspettiva e al contempo pubblica che la scrittura offra. Certo, i modelli di Petrarca e Leopardi, così esibiti, sono anche i più spendibili negli anni delle primissime reazioni conservatrici al manifesto di Marinetti — e nel ’12, oltre a consumarsi il divorzio tra lacerbiani e vociani, manca solo un anno alla riscoperta del- la cosiddetta “scuola romana” avviata dalla crestomazia di Domenico Gnoli36 — ma più tardi, già

nella prima riedizione, Baldini ammette retrospettivamente influenze più in linea con il nostro di- scorso:

La fantasia ancora s’appoggiava volentieri alle vecchie figurazioni cavalleresche ed ai più usati clichés romantici. Il bagaglio linguistico che portavo con me era ancora quello scolastico. Mi sentivo

il cuore pieno, pieno, pieno, e di che? di lagrime e di parole senza motivo.37

Che il romanticismo cavalleresco da cui germina l’enigmatico Ferraù predicante sia radicato in una lettura partecipata e addirittura ossessiva proprio delle ottave di Ariosto ce lo conferma il fatto che il primo articolo accademico di Baldini38, apparso lo stesso anno del Sermone, sia appunto una lunghis-

34 — Immaginando una sorta di commissione di lettori cui confessarsi — su suggestione, questa volta, tassesca — è l’au- tore stesso ad ammettere, al cospetto di «Japhet» («uomo di pochissime parole, che assolutamente non vuol credere alla mia originalità di scrittore»), di aver letto ai tempi «il “de ocio religiosorum” del Petrarca» e di averlo «anche tradotto». A. Baldini, Umori di gioventù, cit., pp. 15, 18. Stupisce comunque che, forse per eccesso di sottigliezza, Baldini non citi il De

vita solitaria. 35 — Ivi, p. 19

36 — D. Gnoli (a c. di), I poeti della scuola romana, Roma-Bari, Laterza, 1913. L’antologia, finemente introdotta dal poeta, presentava i dimenticati autori che parteciparono, alla fine dell’Ottocento, a una petrarchesca arcadia romana impernia- ta sul modello del classicismo di Leopardi.

37 — A. Baldini, Umori di gioventù, cit., p. 17.

38 — Ovviamente non considerando l’intensa attività pubblicistica e di redazione nelle riviste romane già tra liceo e università. Ho già citato la recensione a Bontempelli su “La Cultura Contemporanea”, ma per il periodico Baldini ha

sima Nota a un giudizio sull’Orlando Furioso39. Lo scritto creativo e quello critico sono redatti quasi

parallelamente, e del secondo (in cui si valuta, con strumenti essenzialmente crociani, un saggio di Azzolina)40 è particolarmente interessante quanto scrive l’autore stesso in una lettera a Cecchi a

proposito del periodo di studi che l’ha generato:

[...] mi sono [...] riletto per l’ennesima volta il Furioso che per me è divenuto un’idea fissa, una cotta amorosa, uno spasimo morboso che un giorno o l’altro mi precluderà la comprensione d’ogni altra opera di poesia: è un mondo al quale più ci s’avvicina e più si schiara e s’anima e sboccia mera- viglie nuove ad ogni sillaba, che più s’analizza e più si sintetizza in una unità di così alacre e giovane poesia di fronte allo spirito nostro che ogni altro mondo poetico di fronte a quello e

sconquassato...41

C’è di più. In una nota autografa inedita manoscritta sulla sua copia personale di un estratto di Ario- sto, Shakespeare e Corneille42, Baldini racconta di un incontro con Croce avvenuto proprio alla fine del

1912, nel corso del quale il filosofo gli avrebbe confidato un’ipotesi di lettura complessiva psicologi- ca e sentimentale del poema:

Il 25 novembre del 1912 parlandomi d’A[riosto] Croce mi disse: “A rileggerlo tutto d’un fiato, il Furioso mi ha fatto l’impressione che dentro vi fosse un contenuto celato ma non dissimulato, di dramma amoroso, un cruccio amoroso che tratto tratto scoppia o trapela. Nella prima ispirazione di quel furore d’Orlando è lecito supporre moti reali di sdegno contro una donna amata o un violento dolore dell’A[riosto] per ragioni amorose. Se nel Fu[rioso] un tema dominante c’è, è certo quello dell’amore; e i temi supplementari di quel dominante sono rassegnazione esaltazione tenerezza

amarezza d’amore”43

Di sicuro un «cruccio amoroso» ben «celato ma non dissimulato» è alla base dell’invenzione del Ser- mone: come confessa l’autore in Umori di gioventù, quelli dell’esordio «eran tempi», per lui, in cui ba- stava sentir «echeggiare una voce di donna dietro una porta chiusa per ridur[lo] una fontana di la- grime». In alternativa alla sua tendenza all’«attaccamento cieco» 44, Ferraù gli offre la soluzione di un

distacco assoluto da qualsiasi legame e di un’immersione nella quiete naturale della campagna e del bosco. Non sarà forse troppo ardito gettare un ponte tra questo sfogo giovanile frenato dalla propo- sta «antisociale»45 di un simbolico nemico/amico e la vicenda del solitario Mambrino Mambrone, rac-

contata da Baldini nel più maturo racconto eponimo46. Alla eco onomastica tra i due mori arioste-

schi legati dal mitico elmo, infatti, si aggiunge un forte parallelo tematico tra le due prose che li rie- vocano: entrambi i personaggi, nelle versioni baldiniane, sono emblemi del distacco dagli altri e del- la misantropia, tentazioni che in realtà l’autore ha presto scartato. Ne è prova il rifiuto, nel ’20, delle

39 — A. Baldini, Nota a un giudizio sull’Orlando Furioso, in “La Cultura”, XXXI, 17, 18, 19, 20, 1912, pp. 531-537, 563-571,

594-605, 628-635. Il saggio/recensione è in parte consultabile nell’antologia postuma di scritti baldiniani raccolti in L. Ariosto, Orlando furioso, con una scelta di pagine sull'Ariosto di A. Baldini, a c. di G. Baldini, Bologna, Zanichelli, 1964, vol. I, pp. VII-XVI.

40 — L. Azzolina, Il mondo cavalleresco in Boiardo, Ariosto, Berni, Palermo, Reber, 1912. Per un’analisi della Nota che mette in luce le influenze accademiche e filosofiche, vd. R. Cremante, Archivi del nuovo, cit., pp. 68-74.

41 — Lettera di Baldini a Cecchi del 15 marzo 1912. A- Baldini - E. Cecchi, Carteggio 1911-1959, cit., pp. 6-8: 6.

42 — B. Croce, Ludovico Ariosto, Roma-Bari, Laterza, 1926, estratto da Id., Ariosto, Shakespeare e Corneille, Roma-Bari, Laterza, 1920.

43 — L’autografo è, a pagina 5, nella copia di Baldini dell’estratto citato nella nota precedente. Il volumetto è conservato presso il Fondo Baldini della biblioteca comunale Baldini di Sant’Arcangelo (RN). Cremante trascrive la nota, con una minima differenza di grafia, in R. Cremante, Archivi del nuovo, cit., p. 70n.

44 — A. Baldini, Umori di gioventù, cit., p. 17. 45 — Ibidem.

idee espresse nel Sermone — «cose da manicomio»47 — e si potrebbe anche citare l’ironico autoritrat-

to del ’21 per i Narratori contemporanei di Titta Rosa48, in cui Baldini scherza sulla propria ormai nota

tendenza all’aggregazione, all’amicizia49 e al sodalizio intellettuale. Mentre però, all’altezza di Fer-

raù, la possibilità dell’eremitaggio contemplativo sembrava plausibile e seriamente considerabile, con Mambrino lo scrittore si dà alla parodia dei suoi stessi spasimi giovanili, apostrofando immedia- tamente con umorismo i lettori nell’incipit: «niente è più facile che anche voi un giorno abbiate riso bonariamente alle sue spalle. Ma vi garantisco che c’era poco da ridere»50. La misantropia di Mam-

brino («nutr[iva] in cuore il più atroce disprezzo per i propri simili»)51, è infatti accompagnata da una

segreta mania di grandezza: solo, e all’apparenza timidissimo, il protagonista del racconto passa il suo tempo a immaginare monumenti di sé stesso nelle piazze, vie intitolate e a lui e persino ponti monumentali in suo onore, finché non arriva a fantasticare che l’intera città cambi nome in Mam- brinia. All’acme della tragicomica vicenda, l’autore chiude il resoconto delle insospettabili megalo- manie insistendo sul tema onomastico: al cimitero, sulla misera tomba in cui finiscono le spoglie del vanaglorioso asociale, «per crudel sorte i marmisti hanno storpiato nome e cognome in un modo ridicolo: Manubrino Manubrone»52. Segnalando con i nomi ariosteschi la relazione tra i due scritti,

Baldini sembra davvero mettere alla berlina gli adolescenziali propositi di seriosa grandezza compia- cendosi con ironia della leggerezza sviluppata immediatamente dopo. Del resto, ripubblicando il Primo sermone di Ferraù, aveva già dichiarato superata e ingenua la prova iniziale senza riuscire a met- terla del tutto da parte, concludendo che, se non altro, si trattava di un tentativo sincero:

Eppure, se c'è qualcuno che vuol asserire che c'è stato un tempo che anch’io abbia fatto il ciar- latano, eccomi magari pronto a testimoniare: ma quella volta no, giuro che quella volta no. Perché le parole allora bastavano veramente alla mia passione, erano veramente la mia sola e sfortunata

passione.53

Il codice onomastico ci permette ora, se la mia ipotesi è valida, di seguire l’ulteriore sviluppo dell’au- tocritica d’autore, raggiungendo peraltro una pagina — quella di Mambrino Mambrone — tra le più rapide e felici del Baldini «squisito prosatore» incluso da Contini nel novero dei magici. Per corrobo- rare la ricostruzione si possono individuare altri usi analoghi dei nomi del Furioso, vero libro-totem, come abbiamo visto, già negli anni della formazione. Poco più tardi del Sermone, ad esempio, nella prima uscita sulla “Voce” papiniana, Baldini drammatizzerà di nuovo i propri rovelli umani ed esteti- ci in una breve prosa quasi nietzscheana poi definita, in uno dei pochi saggi retrospettivi che ne par- lano, «una scenetta, una pitturetta di limpida tenerezza»54. Un condottiero fa penitenza in «Paganìa»,

assistito da un bambino indigeno che una sera, all’improvviso, esplode in una danza di corse e ca-

47 — A. Baldini, Umori di gioventù, cit., p. 18.

48 — Nell’antologia, la nota biografica di Baldini — quasi certamente attribuibile all’autore stesso o comunque concor- data con lui — si conclude: «è stato uno dei fondatori della “Ronda”. Ma stancatosi presto di stare in compagnia, riparò in Alta Slesia, commissario dei carboni per conto dell’Italia. Non manda corrispondenze ai giornali» G. Titta Rosa (a c.

di), Narratori contemporanei, Monza, Il Primato Editoriale, vol. I, p. 35. L’ironia è evidente: Baldini andò sì in Alta Slesia

dal 1920 al 1922, ma non certo per sfuggire gli altri amministrando carboni. La sua carica era quella di «segretario parti- colare del generale A. De Marinis, comandante della Commissione interalleata di governo e plebiscito dell'Alta Slesia» (A. Boccelli, voce “Antonio Baldini”, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. 5, 1963, pp. 474-478: 475. 49 — Vale la pena di ricordare che uno dei libri più famosi e commentati di Baldini è proprio una raccolta di ritratti e considerazioni affettuose e pungenti su amici e colleghi. Cfr. A. Baldini, Amici allo spiedo, Firenze, Vallecchi, 1932. 50 — A. Baldini, Mambrino Mambrone, in Id., Michelaccio, cit., p. 197.

51 — Ibidem. 52 — Ivi, p. 207.

priole. Lo sfogo del piccolo Alì sembra risolvere la contrizione del protagonista, che prima dell’alba riparte per Parigi. Il cavaliere impegnato in devozioni nelle terre orientali altri non è che «il conte Orlando»55, e se ne può interpretare il simbolico contegno interrogando ancora i «pianerottoli mobi-

li»56 costituiti dai corsivi che spezzano la serie di prose giovanili nella riedizione in Umori di gioventù.

Nell’antologia del 1920 infatti l’autore spiega La penitenza di Orlando — questo il titolo del racconti- no — come un rifiuto degli stessi amari dubbi e sentimenti che aveva sublimato nel discorso di Fer- raù, guardando con indulgenza alla solennità laconica della successiva rivelazione narrativizzata:

Qui dentro c'è raccolta una favoletta in prosa intitolata «La penitenza d'Orlando» dove l'Autore evidentemente espresse la gran voglia che aveva di lasciarsi andare a far le capriole, magari sotto gli occhi dei Martiri. Lasciamo andare. Sarebbe vituperio e malafede se l'Autore ora contraffacesse que- sto suo atto prefatorio di contrizione con un tendenzioso atto di discolpa. Ognuno ha da fare la sua