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Bacchelli dalla ribellione alla difesa di Ariosto

Ludovico della tranquillità e del sangue

3. Bacchelli dalla ribellione alla difesa di Ariosto

Scorsi i prodromi, meno noti e studiati, delle due passioni ariostesche in questione, possiamo passa- re ai lavori che più esplicitamente tradiscono le aspettative e le prospettive di lettura degli autori di fronte all’opera del poeta cinquecentesco. Per farlo sarà necessario risalire la cronologia con Baldini, il cui impegno critico e letterario durante e dopo la guerra resta fortemente legato all’infatuazione per il Furioso. Per Bacchelli, da cui cominceremo, si deve invece attendere il ‘29, anno in cui lui stesso collocherà, in un ricordo per il centenario ariostesco del 197480, il vero inizio dei suoi scrutini e av-

vincimenti intorno ad Ariosto, al suo tempo e alle sue scritture. C’è tuttavia un episodio testuale più alto che, pur trascurabile nell’economia del percorso che tentiamo di seguire, offre un interessante scorcio della fortuna del poema, più in generale, nell’immaginario della cultura italiana all’inizio del Ventennio.

75 — Gli anni Venti vedono Bacchelli collaborare, tra gli altri, con “L’Ambrosiano”, con “La Fiera Letteraria”, “La Stam- pa”, “L’Illustrazione Italiana” e “La Domenica del Corriere”. Fondata “La Ronda”, conquistate rubriche fisse su “La Let- tura” e “Comoedia”, e raggiunta una discreta fortuna critica, l’autore si avvia in questo periodo alle storiche anticipazio- ni su “Nuova Antologia” dei suoi lavori maggiori.

76 — G. Debenedetti, «Iride» di Bacchelli [1937], in Id., Saggi, a c. e con un’introduzione di A. Berardinelli, Milano, Mon- dadori, 1999, pp. 606-615: 615.

77 — Ivi, p. 607. 78 — Ivi, p. 615.

In quello che, nel 1923, costituisce il suo «preludio al romanzo in piena regola»81 — l’ibrido tra

favola e trattato Lo sa il tonno82 — Bacchelli mette di nuovo in scena il Furioso dopo le ‘idee’ espresse

tra le ‘favole’ nel Lodovico Clò e nell’Amleto. Il brano in questione però stavolta non è una digressione che interrompe il racconto: Ariosto è citato, nella finzione, come lettura popolare tra i pesci che abi- tano il mare in cui è ambientata la dispersiva trama — un doppione del mondo umano in cui rap- presentare satirici paralleli, come quello della guerra tra granchi e aragoste a specchio del conflitto mondiale, o quello del crostaceo ‘capopopolo’ Rigirone che sembra parodizzare il «giustiziere» Lemmonio Boreo di Soffici e, di conseguenza, i vacui agitatori delle organizzazioni operaie. Nel romanzo, al contempo dunque fantastico e pungentemente legato alla storia recente — e certo non estraneo al meccanismo retorico di costruzione di un altrove interno ed esterno alla realtà che nella luna ariostesca ha il suo più influente precedente —, il Furioso compare tra libri d’avventure non ca- suali, fungendo da inconsapevole raccordo tra le letture di cultura e i pomeriggi al cinematografo nel buffo episodio del pescespada, personaggio che mal sopporta i letterati ma non vorrebbe appari- re provinciale:

— Quanto a me, — concluse lo spada a cui premeva di non passare per ignorante, anzi nell’ad- dobbo dei suoi appartamenti da scapolo mostrava un certo gusto dannunziano, — avrei letto anche i

Ragionamenti dell’Aretino, se non mi avesse stancata l’edizione antica che trovai sui banchetti, cogli

esse scritti come gli effe; e poi ho letto Guerin Meschino, l’Orlando di Ariosto, e Saturnino Farandola.

Ora vado al cinematografo. È più comodo, si hanno delle avventure, e stanca meno la vista.

Così proseguirono, e il tonno aveva un’illusione di meno e un’inquietudine in più.83

Lo spada, pur non immune a un certo bovarismo letterario da dopoguerra, ammette contegnoso di frequentare soprattutto la prosa d’evasione: nello stesso dialogo, prima di arrivare ai libri di avventu- re, menziona «Le memorie d’una ragazza di piacere» (riferendosi certamente allo scandaloso Fanny Hill di Cleland, appena arrivato in Italia)84, e dunque non stupisce il riferimento ai Ragionamenti, abban-

donati però per l’intralcio tipografico dell’antiquata esse alta. Sia quello del Guerrin Meschino che quello delle Avventure straordinarissime di Saturnino Farandola sono titoli assai eloquenti per un lettore degli anni Venti: la favola quattrocentesca stava conoscendo una grande fortuna attraverso le edizio- ni Salani e aveva dato il nome (con la erre scempia, come nel brano di Bacchelli) a un celebre setti- manale satirico della scapigliatura milanese85; il romanzo di Robida era stato tradotto già nell’Otto-

cento e la Ambrosio Film, nel 1913, ne aveva ricavato il primo lungometraggio fantascientifico ita- liano, riscuotendo un buon successo internazionale86. Includere «l’Orlando» — con la specificazione

«di Ariosto» volta a evitare confusioni con l’Innamorato (negli stessi anni riscoperto, dopo l’edizione Foffano d’inizio secolo, da un altro squisito prosatore, Alfredo Panzini, che lo rivalutò entusiasta con

81 — G. Debenedetti, Il romanzo de Novecento, cit., p. 421.

82 — Edito a Milano nel 1923, il romanzo sarà incluso nel volume dell’opera omnia dedicato alle prime prove narrative:

Memorie del tempo presente.

83 — R. Bacchelli, Lo sa il tonno [1923], in Id., Memorie del tempo presente, cit., p. 446. <

84 — Il romanzo pornografico Memoirs of a woman of pleasure di John Cleland era stato tradotto da Mario Vinciguerra per la tipografia sociale di Trieste (1918) e poi per la milanese Corbaccio (1920, 1921) con il titolo Memorie di Fanny Hill,

ragazza di piacere. Già nella successiva edizione fiorentina della Casa editrice italiana (1925) il titolo diventerà La sgualdri-

nella.

85 — Fondato da Giovanni Pozza e Carlo Borghi nel 1882, uscì a Milano per Bortolotti fino al 1921.

86 — Cfr. A. Costa, Impossible Voyages and Extraordinary Adventures in Early Science Fiction Cinema, in M. Solomon (a c. di),

Fantastic Voyages of the Cinematic Imagination, Albany, SUNY Press, 2011, pp. 183.200; C. Gianetto, The Giant Ambrosio, or

serissime ambizioni critiche)87 — in un simile ironico novero di letture da divertimento borghese

chiarisce come il classico mantenga, nel primo Novecento, lo statuto di opera per tutti, al contempo illustre e familiare, che ha caratterizzato la sua fortuna sin dalla primissima diffusione88. Ma arrivia-

mo al fatidico ’29 e all’occasione che ha scatenato i successivi intensi lavori ariosteschi di Bacchelli. L’appuntamento storico è quello che abbiamo già incontrato diverse volte, il convegno ferrarese del- l’Ottava d’oro, e di nuovo non mi soffermerò a lungo sul suo significato e sul suo impianto, per ri- mandare un’analisi più diffusa al prossimo capitolo.

È proprio Baldini, organizzatore dell’evento, a invitare il sodale a intervenire alle celebrazioni per l’imminente centenario del ’33, e Bacchelli sceglie significativamente di instaurare un dialogo con lui nel preparare la propria conferenza. Quella di Baldini, tenutasi, tra le prime, a palazzo Mas- sari il 21 maggio del 1928, era consistita in un’incantevole Difesa di Angelica fortemente influenzata dalle idee di Croce («non c’è donna più donna»89 vi si dice della principessa, con eco evidente della

«donna che simboleggia la donna»90 nel saggio su Ariosto del filosofo) ma abbastanza brillante e in-

ventiva da anticipare di oltre trent’anni l’accattivante intuizione dell’incipit dell’Orlando di Calvino nella sintesi, in una cavalcata da un libro all’altro, del destino della fanciulla: «Entra nel poema fug- gendo, esce dal poema sparendo»91. Tutto giocato all’interno delle ottave, in una antologia parafra-

stica di episodi tanto acuta e onnisciente quanto mangereccia (Orlando è «il solo innamorato plato- nico che ci sia nel poema e che forse appunto per questo finisce col dare senza rimedio in bestia»92;

«La moglie del pastore è la sola donna [...] che Angelica abbia incontrato non vestita da guerriera e con la quale le sia stato possibile intendersi da donna, per le piccole cose di cui anche in un poema cavalleresco si capisce che possa avere bisogno una donna»)93, il testo baldiniano è un gioco lettera-

rio interlocutorio, una lettura-dialogo che si interpola al poema come ingrossandolo di marginalia («povera Angelica, mai un momento di tranquillità»;94 «tutti bravi, tutti perfetti in questo canto!»;95

«duelli sopra duelli, non sanno far altro questi maledetti! E tutta quest’ira di Dio, nel solo primo can- to»)96. Non a caso, introducendo l’edizione Mondadori di tutti gli interventi, l’autore trarrà l’epigrafe

dalla celebre ottava-manifesto incentrata sul paragone col suonatore («Ricercando ora il grave, ora

87 — A partire dall’articolo A. Panzini, La sventura di un capolavoro, in “Il Marzocco”, 9 febbraio 2013, pp. 1-2. Restano ancora note la sua antologia boiardesca (Le più belle pagine di Matteo Maria Boiardo, Milano, Treves, 1924) e la sua mono- grafia mondadoriana, recentemente ristampata, La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso [1933], Roma, Robin, 2009.

88 — In un recente riepilogo intorno alla particolare canonizzazione del poema, Lina Bolzoni ha parlato di «un libro da regalare ai principi (a cominciare da Isabella d’Este), ma anche un libro da vendere», ricordando due episodi che dimo- strano come da sempre il Furioso abbia dimostrato «una straordinaria capacità di parlare a ceti alti e a ceti popolari, di imprimersi nella memoria anche di analfabeti»: un passo dalle Difese del Furioso di Giuseppe Malatesta in cui briganti, operai e villanelle leggono e cantano le ottave; e una pagina del Journal di Montaigne in cui contadini e pastorelle recita- no a memoria i versi ariosteschi. Cito dall’introduzione di L. Bolzoni - C. A. Girotto, Donne cavalieri incanti follia. Viaggio

attraverso le immagini dell’Orlando furioso, Pisa, Maria Pacini Fazzi, 2013, pp. 7-13: 7, 12. Sulla questione resta centrale D. Javitch, Proclaiming a Classic. The Canonization of the “Orlando Furioso”, Princeton, Princeton University Press, 1991. 89 — A. Baldini, La difesa di Angelica, in L’ottava d’oro, cit., pp. 259-287: 262.

90 — Cito dal capitolo IV, dedicato alla Materia per l’armonia. Il concetto di armonia, di un Furioso che coagula i suoi di-

sparati materiali in un sorridente accordo, è davvero centrale nelle posizioni espresse nel convegno, e l’abbrivo dato da Baldini in questo senso mi pare fondamentale. Come vedremo è proprio Bacchelli uno dei pochi convegnisti a proporre un’immagine originale del poeta. B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, cit., p. 33.

91 — A. Baldini, La difesa di Angelica, cit., p. 265. 92 — Ivi, p. 270.

93 — Ivi, p. 281. 94 — Ibidem.

l’acuto», Of, VIII, 29)97, e ricondurrà la genesi del progetto a un suo sogno per nulla sussiegoso, in cui

un’allegoria premonitrice del convegno mette in scena più che esplicitamente i piaceri della lettura. Se infatti il co-organizzatore, Enrico Vanni, fantasticava piuttosto di «una specie di liberissima acca- demia di letture da tenersi al chiuso e all’aperto, con accompagnamenti di musiche e canti del secol d’oro», Baldini sembra avere in mente l’osteria di cui persino in sella all’ippogrifo non si può fare a meno, e racconta appunto di «un sogno nel quale m’era come parso di trovarmi con lui [Vanni] e con altri vecchi amici in una trattoria di Ferrara chiamata All’Ottava d’oro piena di lumi e di bandie- re dove si commentava molto liberamente il più scabroso canto dell’Ariosto»98. Così, mostrando al

contempo cultura e coinvolgimento, nella conferenza su Angelica — sulla scia dell’idea crociana di muliebrità e certo senza dimenticare l’impressione di «dramma amoroso» confidatagli dal grande critico nel ’1299 — la donna è difesa a dispetto della «cattiveria» con cui è trattata dal suo autore, che

solo di poco sembra più indulgente di Boiardo nei suoi confronti: si sottolineano le virtù e le sventu- re della vergine e poi dell’amante di Medoro, le qualità che la rendono tanto incredibilmente deside- rabile e i brutti tiri che la trama le gioca. Chiaramente una simile operazione non implica solo un abbandonato e compiaciuto disimpegno, ma anche l’idea che l’opera in esame sia percorribile dav- vero come un atlante in cui chi legge sceglie l’orientamento della bussola e la lista di coordinate da incontrare. Ariosto ne esce proprio come un maestro d’orchestra, il demiurgo di un mondo abitabile in cui specchiarsi, sereno e distaccato sul suo trono in Parnaso (o tra i lumi e le bandiere di una trat- toria ferrarese). Ben diverso il poeta — ma prima di tutto l’uomo — ritratto nell’austero, accanito resoconto di Bacchelli pronunciato un anno dopo, che si contrappone alle libertà ermeneutiche di La difesa di Angelica sin dal titolo, di certo volutamente speculare: Una difesa di messer Ludovico.

È bene premettere, come già visto attraversando le prime opere narrative, che Bacchelli arriva a Ferrara da lettore, per così dire, poco entusiasta di Ariosto. Il primo paragrafo di un articolo su quello che chiamerà il «poeta della poesia» — comparso, molto più tardi, in “Nuova Antologia”100

inquadra tale mancanza di entusiasmo in uno spezzone di mitologia personale quasi agli antipodi rispetto alle rimembranze della gioventù ariostesca di Baldini. «Imparai l’Ariosto», ricorda Bacchelli, «che sapevo soltanto compitare le lettere dell’alfabeto, dalle letture serali di mio padre»101. Le fanta-

sticherie infantili sono collegate con eleganza a una ‘ingenuità poetica’ attribuita all’ironia ariostesca: abbandono faticosamente conseguito per raggiungere obliquamente non il «commento razionalisti- co e intellettivo», ma l’apice «riflessivo e realistico» dell’invenzione. Si tratta, mi sembra, della stessa commistione tra «favole e idee» ricercata esplicitamente sin dal Lodovico Clò. Ovviamente però la fa- voleggiata intuizione precoce in tenera età (e certo riecheggiano qui, ancora, i pensieri leopardiani, in cui la maturità del lettore moderno ostacola la ricezione di Ariosto, antico e dunque bambino ri-

97 — L’immagine è poi ripresa, nella premessa, attraverso un commento del Padula che sembra prefigurare il solito concetto crociano dell’armonia («strinse in un fascio un flauto, una tromba, una zampogna e mill’altri strumenti musica- li, e diede a un tempo fiato a tutti: ed io ch’aspettavo una babilonia rimasi sorpreso da una sinfonia», V. Padula, Prose

giornalistiche precedute da una farsetta e da un dramma, Napoli, Androisio, 1878, p. 285). «Il lettore» dice Baldini dopo aver citato il passo qui trascritto, «faccia dunque conto che qui si stiano accordando gl’istrumenti di cui parla il Padula, prima

che il Maestro salga sul podio» (A. Baldini, Premessa, in L’ottava d’oro, cit., p. XVII). A specchio della polifonia del poema,

quella degli interventi, come vedremo più avanti tornando sul convegno, è essenzialmente dovuta alla commistione tra alto e basso, tra conferenze di filologi o scrittori e veri e propri show di umoristi e attori.

98 — Entrambe le citazioni sono dalla premessa baldiniana a L’ottava d’oro, cit., pp. XIII-XVII: XV.

99 — Cfr. R. Cremante, Archivi del nuovo, cit., p. 70n.

100 — R. Bacchelli, Arte e genio dell’Ariosto, poeta della poesia (I),in “Nuova Antologia”, CDLXVII, 1865, 1956, pp. 15-32; Id.,

Arte e genio dell’Ariosto, poeta della poesia (II), in “Nuova Antologia”, CDLXVII, 1866, 1956, pp. 157-182; Id., Arte e genio del-

l’Ariosto, poeta della poesia (fine), in “Nuova Antologia”, CDLXVII, 1867, 1956, pp. 303-320.

spetto alla Storia, ma anche il «mondo fanciullesco dell’immaginazione» descritto da De Sanctis)102

non può che essere rifiutata negli anni dell’adolescenza: la «ribellione» è dunque il primo sentimento cosciente ricordato nei confronti del classico, che pure in origine aveva suscitato l’infantile rispec- chiamento nella «realtà della fantasia».

Se mi sia lecito di prevalermi del ricordo affettivo, dirò che debbo a quelle letture paterne di aver sentito pienamente, ossia ingenuamente, quella realtà della fantasia ariostesca; e anche di es- sermi disposto assai per tempo criticamente di fronte a quell’abbandono, proprio perché mio padre, ariostista intransigente e più che galileiano, professava di esserlo tanto, che mentre aveva letto di seguito sette volte il Furioso, non era mai riuscito a legger così la Gerusalemme Liberata, nemmeno una volta. Da che, ben presto, venne da parte mia ribellione. E certo nell’apprezzare il Tasso, poeta se altri mai lo fu, avevo ragione. Avevo torto, come sempre nei confronti, di accedere a far confronto con l’Ariosto, del quale mi avvenne, non in conseguenza del raffronto ma proprio nel travaglio di scoprirlo e di riscoprirlo e d’intenderlo prima di rendermi conto della sua complessa e contradditto-

ria poesia, di smarrirne più d’una volta il senso e la cognizione, e insomma di non capirlo più.103

Al netto della rielaborazione autobiografica da autore navigato, in questa pagina appare chiaro quanto già traspariva dai testi degli anni Dieci: il Furioso ha avuto un peso nella formazione di Bac- chelli, ma un rapporto lucido e attivamente cercato con Ariosto non si instaura del tutto fino alla Difesa, per la quale pure — a voler dar fede alla sua ricostruzione — l’autore si preparerà senza grandi aspettative iniziali, tornando a sfogliare non il poema ma le opere minori (nella «vecchia e benemerita edizione fiorentina del Polidori») in cerca di un argomento non banale104. Davvero non

si può dire banale l’idea nata da un simile ‘ripasso’: è in questo momento infatti che Bacchelli si sof- ferma sull’egloga di Tirsi e Melibeo per cercare di capirne le ragioni, avviando così un’inchiesta ai limiti dell’ossessivo che lo porterà negli archivi, nelle biblioteche e sulle pagine di un’ampia — e quasi mai citata105 — bibliografia storico-critica negli anni successivi, alla ricerca della realtà effettua-

le (è l’autore stesso a citare Machiavelli)106 a proposito del poeta raccontato, Messer Ludovico. In-

torno al quale, come si nota da principio nella difesa, «consenso generale e perenne ha stabilito ch’e- gli fu un galantuomo»107. Come mai dunque — si domanda di seguito il conferenziere — per i critici

moderni, con consenso altrettanto generale, l’egloga da lui scritta «per quei fatti antichi di sangue e di furore politico e fraterno» (la congiura del 1506 contro Alfonso e Ippolito) è «vile» e «ci vuole l’ammirazione che abbiamo dell’Ariosto per scusarla, e si può scusare tutt’al più»108? L’interrogativo,

più che lecito, suscita la ricerca e sostiene il racconto della Difesa — e senza dubbio di ‘racconto’ si tratta, come specifica Bacchelli stesso e come si sottolineerà più avanti109.

102 — Cfr. F. De Sanctis, L’Orlando furioso, in Id. Storia della letteratura italiana, cit., p. 454-455.

103 — R. Bacchelli, Arte e Genio dell’Ariosto. Poeta della poesia [1956], in Id., La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti

ariosteschi, cit., p. 548.

104 — Cfr. la prefazione dell’autore in R. Bacchelli, La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti ariosteschi, cit., pp. 9-13. La citazione tra parentesi è a p. 9.

105 — La mancanza di note è l’obiezione che gli muoveranno storici e studiosi come Palmarocchi recensendo La congiu-

ra, come vedremo, ed è un indizio di come l’autore intendeva dovessero essere fruiti suoi lavori simili.

106 — In un significativo passo conclusivo dell’edizione complessiva degli scritti ariosteschi (aggiunto in fondo alla citata prefazione) in cui si indica l’intenzione finale degli studi romanzeschi sulla congiura, sull’egloga e su Furioso e Satire: mostrare come Ariosto sia «una delle cime del Rinascimento» proprio perché, massimo poeta della fantasia, non rifiuta «“la verità effettuale della cosa” [...] ossia la realtà del “mondo”». Ivi, p. 13.

107 — R. Bacchelli, Una difesa di Messer Ludovico, in Id., La congiura di Don Giulio d’Este e altri scritti ariosteschi, cit., pp. 653- 688: 655. Nel volume che raccoglie gli interventi ferraresi, la lettura di Bacchelli è alle pp. 741-776. Di qui in avanti, in ogni caso, si userà l’edizione citata.

108 — Ibidem.

L’operazione narrativa messa in atto a partire da tali premesse non mostra tanto il realismo di Bacchelli scrittore quanto il realismo — se così si può dire — di Bacchelli lettore, la sua capacità di leggere storia e letteratura come officiando una necromanzia capace di portarlo davvero al cospetto dei protagonisti per condividere il loro pathos. Gli uditori della conferenza e coloro che, a loro volta, leggono il suo scritto, sono invitati esplicitamente a partecipare all’incantesimo: citando passi dalle Satire si incalza: «supponetelo alquanto più impazientito di quando scrisse: dal giogo / del Cardinal da Este oppresso fui [...]»; «supponetelo un poco più stanco di questo: io sprono e sferzo, / mutando bestie e guide, e corro in fretta [...]»; «fatelo non molto più libero di quando esclama: La pazzia non avrei de le ranocchie [...]»110 e così via. I carteggi relativi all’inquietante vicenda di Giulio e Ferrante poi sono

citati non come prove di una tesi, ma più che altro come evocazioni, echi certi di una realtà dimenti- cata e da recuperare: di nuovo si coinvolgono i lettori con inviti («sentite quel che ai 3 d’ottobre del ’97 scriveva il Cardinale alla celebre sorella di Mantova»; «leggiamo, ai 7 di novembre, Don Ferrante al Gonzaga medesimo»)111, ma solo quando le lettere non interrompono il racconto come battute di

un dialogo vivo («Insomma, gli si stravolse il cervello. “Non è barbéro de piaza” — rispose Isabella il 6