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Ferrara folle, falotica e fascista

3. L’eterno Rinascimento

Se prima del fascismo, complice la visionarietà dei pittori e scrittori metafisici — ma anche, come abbiamo visto, di cittadini e visitatori vociani e vicini al futurismo —, l’immagine più sintetica e suggestiva della riscoperta modernità di Ariosto era stata quella della sua statua che scende dallo zoccolo, aleggia sui tetti, o fa un salto al caffè per ambientarsi nella Ferrara trasfigurata del primo Novecento, l’intenzione esplicita e pubblica, da parte dell’amministrazione balbiana, di tornare al Rinascimento estense tra anni Venti e primi anni Trenta è simbolicamente riassunta in un articolo del podestà pubblicato alla vigilia dell’inizio delle manifestazioni ariostesche: Le statue devono tornare sui basamenti. Naturalmente non si tratta di una risposta diretta ad Agnoletti o a Savinio: le statue che si rivogliono esposte, sui loro piedistalli disertati, sono quelle quattrocentesche di Nicolò e Bor- so distrutte dai giacobini nel 1796; la loro ricostruzione è intesa come «un atto di gratitudine ideale» da parte della città «verso quegli Estensi che la fecero grande nella storia e nell’arte, è rivendicazione italiana da un’inconsulta violenza straniera»170. D’altronde l’iniziativa è davvero emblematica: il Ri-

nascimento di Ferrara è sottratto agli entusiasmi individuali e sublimi di artisti e poeti per essere col- locato in alto e in pubblico, nella sua simbologia più immediata e riconoscibile, tradotto in immagi- ni intese come «modo facile e magnifico di educazione al popolo»171. È buffo pensare che De Pisis —

peraltro amico del ‘Sacripante’ podestà, e celebrato nella mostra dell’arte moderna dell’Emilia Ro- magna durante il quinquennio ariostesco — aveva tuonato contro l’assenza di «monumentomania» nella città dalle cento meraviglie appena sette anni prima172.

L’ammaestramento del popolo, «facile e magnifico», che già traspare bene nelle intenzioni e nei risultati dell’Ottava d’oro, è un processo proteiforme e pervasivo negli anni del centenario. Dal punto di vista della storia culturale, Ariosto diventa un catalizzatore formidabile nelle mani del fasci- smo ferrarese, che non esita ad abusare della sua figura, della sua opera e perfino della sua sfuggente immagine umana fino a una sovraesposizione sfibrante e senza precedenti. La città, bisogna ricor- darlo, era stata un nucleo precoce ed estremo dello squadrismo nel corso della cosiddetta ‘rivoluzio- ne’: dalla violenza erano nati non solo il potere e l’immediata fortuna di Balbo e della sua dirigenza, ma anche la relativa autonomia da Roma, coltivata negli anni dal quadriumviro e suggellata da una sorta di vigile laissez faire del duce — il quale significativamente, ad esempio, non è presente a nes- suna delle manifestazioni del 1933, inviando suoi rappresentanti anche quando il Re in persona e l’assemblea plenaria dell’Accademia d’Italia fanno visita alle mostre e alle commemorazioni. Quella del centenario è probabilmente la massima espressione della peculiare politica culturale ferrarese, che adopera scientemente Ariosto per aderire in modo anomalo e in parte indipendente alla genera-

169 — Ivi, p. 624.

170 — R. Ravenna, Le statue devono tornare sui basamenti, in “Corriere padano”, 25 febbario 1927, p. 4.

171 — Ibidem. Su questa formula insiste Ilaria Pavan, ricostruendo le strategiche intenzioni della politica culturale fasci- sta a Ferrara in questo periodo. Cfr. I. Pavan, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, cit., pp. 79-80. Il lavoro di Pavan, concentrato su una figura di primissimo piano nell’organizzazione del nuovo Rinascimento ferrarese, tornerà spesso utile in questo paragrafo.

le sacralizzazione con cui il regime unge, nel corso del ventennio, l’italianità e i suoi valori artistici e letterari. Se infatti la Roma imperiale coi suoi poeti, i suoi marmi, i suoi simboli costituisce ovunque l’egemone capitale mitico da saccheggiare — con i vari recuperi dei classici, le riformulazioni delle estetiche, e le appropriazioni di autori e personalità antiche da parte di città magari in realtà solo marginalmente o per nulla legate ad essi173 —, Ferrara punta tutto sul Rinascimento Estense e su un

autore che, pur nato altrove, è definito ossessivamente ferrarese, figlio di Ferrara, massimo poeta di Ferrara174. A far trionfare Ariosto come simbolo centrale del generale progetto retorico sono diversi

fattori, tra cui ovviamente la conveniente collocazione cronologica del centenario. Il mito del volo, così congeniale al gerarca che occupa il centro della rete di relazioni e interessi da cui le manifesta- zioni dipendono, non è un elemento accessorio rispetto alla spendibilità del Furioso in un’occasione simile: è verosimile — come ricostruisce il “Corriere padano” in una delle ampie paginate redazio- nali senza firma dedicate alla promozione e all’autoscopia del comitato organizzativo delle celebra- zioni — che Baldini, sinceramente innamorato del suo «Ludovico della tranquillità», avesse davvero per primo ipotizzato, come sincero omaggio al poeta e come divertimento culturale, una versione meno solenne e più cordiale delle lecturae Dantis (da convertire in «letture ariostesche», come infatti reciterà il sottotitolo dell’Ottava d’oro) già diffuse a Roma, Firenze e Ravenna, e che l’idea di propor- re una simile idea a Ferrara fosse basata sul fatto che avrebbe incontrato gli interessi autocelebrativi di chi la governava. Nella famosa lettera del 17 marzo 1928 ad Enrico Vanni, da cui sarebbe nato il progetto del convegno, scrive infatti: «Balbo, se non altro per amor del volante Ippogrifo, lui che ormai vive più in cielo che in terra dovrebbe prendere interesse e amore alla cosa»175. Il “Padano”, a

distanza di cinque anni, si attribuisce il sostanziale fomento al sogno baldiniano («aveva trovato in tutta la famiglia del nostro giornale i consensi più entusiasti»)176 e registra la data della prima riunio-

ne, presieduta da Balbo stesso, del Comitato Ariostesco: 5 maggio 1928. Non bisogna dimenticare che il giornale era una diretta emanazione del ministro, il quale lo aveva fondato, da segretario del fascio di Ferrara, all’indomani della marcia su Roma. D’altro canto il fidato amico che ne assunse la direzione, Nello Quilici, fece della redazione un vero crocevia di personalità anche eterodosse (un giovanissimo Bassani, ad esempio, esordisce sul quotidiano negli anni Trenta e vi scrive fino alla promulgazione delle leggi razziali)177, e anche altri eminenti personaggi della cerchia balbiana, tra

cui in prima linea il podestà Ravenna, infusero immediatamente un grande sforzo economico e or- ganizzativo nel germe dell’idea, destinata infatti a trascendere ampiamente i confini del revival lette- rario.

Un altro elemento che a mio avviso ha favorito il convergere su Ariosto dell’ampio e comples- so lavoro di sacralizzazione ed autoesaltazione culturale della città e della sua classe dirigente è la storica popolarità del Furioso, sulla cui fortuna multiforme e non solo erudita si ritorna continua- mente nella strategia comunicativa degli eventi. Per avere successo, la manifestazione doveva com- porre dignità intellettuale e risonanza nazionale, richiamare giornalisti e personalità della politica e

173 — Sulla questione, e sul concetto si sacralizzazione nella politica culturale del regime, cfr. E. Gentile, Il culto del litto-

rio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 177-232.

174 — Praticamente in tutti gli articoli sul centenario citati in queste pagine dal “Corriere padano” del 1933 sono ripetu- te simili formule, anche quando sono segnalate le visite organizzate ai luoghi ariosteschi di Reggio Emilia (cfr., per esempio, la prima pagina non firmata del 7 maggio 1933, dal titolo Il Principe e la Principessa di Piemonte inaugurano oggi a

Ferrara le feste centenarie di Ludovico Ariosto in una luce di apoteosi)

175 — La lettera è citata in S.N., L’ottava d’oro, in “Corriere padano”, 7 maggio 1933, p. 2. 176 — Ibidem.

177 — Anche Antonioni, Caretti, Attilio Bertolucci, Giuseppe Dessì scrissero sul “Corriere padano”, e il direttore della terza pagina, Ravegnani, era un cattolico democratico. Una scorsa alle annate del periodico mostra bene la pluralità dei nomi coinvolti, ribaditi in ricostruzioni come A. Roveri, Tutta la verità su Quilici, Balbo e le leggi razziali, Ferrara, Este,

dell’accademia ma anche — e soprattutto — folle di spettatori acclamanti: nessun poeta italiano po- teva offrire alla politica della «educazione al popolo» un maggiore equilibrio tra importanza e godi- bilità, trame avvincenti e poesia squisita, favore dei principali orientamenti estetici del tempo e comprovato amore della gente comune sin dal Cinquecento. Sul tema dell’affetto degli italiani per il Furioso la pubblicistica martella di conseguenza i borghesi di Ferrara, e si tenta di lanciare una vera e propria moda culturale recepita da vari media fascisti anche fuori dalla città. Giuseppina Fumagalli, unica donna a far parte del comitato organizzatore, scrive ad esempio — anche per controbilanciare, sulla stessa pagina del giornale, un ampio pezzo ben meno accattivante dedicato agli Annali delle edi- zioni Ariostee — un articolo lungo e informato dal titolo Il Furioso sulle vie e per le piazze d’Italia, che parte dalle «citate e ricitate parole di Bernardo Tasso e di Michele Montaigne» per arrivare, attraver- so una carrellata diacronica di testimonianze sulla diffusione del poema tra «villani e donzelle», al folklore novecentesco: «Ancor oggi (sebben certo le nuove generazioni sian tratte fatalmente a di- menticare) non è solo nei nomi dei monti, nelle leggende che rieccheggia la fama d’Orlando paladi- no, ma fin nei titoli dei cartelloni del famoso teatro dei pupi, fin in canti popolari restano alcuni ri- cordi intieramente ariosteschi»178. Sempre sul “Padano”, ma alla fine del ’33, Quilici ribadisce le in-

tenzioni dell’amministrazione cittadina parlando di paladini che possono tornare famosi come «i campioni della boxe», perché tali sono stati anche tra i più umili nell’Italia di un tempo179. Sul model-

lo storico e mitico degli illetterati che sanno le ottave a memoria poi, l’estensore di un contributo non firmato arriva a supporre — con in mente le migrazioni moderne che hanno portato tanti brac- cianti italiani oltre l’oceano — che «forse nella lontana America, tra le montagne della California o nelle sterminate solitudini del Nevada e del Ohio, tra i “covi” sinistri che servono di giaciglio ai mi- natori del Texas, o presso i detriti di un continente» vi siano ancora colonie di ascendenze contadine «che improvvisano a sera qualche “veglia” secondo l’uso di casa, declamando il gran duello di Ro- domonte»180. E sul neonato settimanale fascista “Quadrivio”, direttamente da Roma, De Mattei fa

eco ai molti articoli dedicati alla chiusura del centenario ribattendo sullo stesso punto attraverso l’improbabile ma suggestiva storia di una moderna ‘tenzone’ tra poeti trasteverini che porta il fanta- sma di «messer Ludovico» fino in piazza Anicia per assistere al rinnovamento della propria popolari- tà:

Di sera, all’aria aperta, su un palcoscenico improvvisato, una serie di poeti estemporanei si fece innanzi in abito di giornata; e tutti cantarono, a modo loro, con cadenze di antichissimo gusto ro- mano certe ottave del Furioso, aristocratiche e popolari insieme, che non m’usciranno di memoria. Larghi e sonori, gli endecasillabi correvano e poi svoltavano d’improvviso, come stradoni di campa- gna su cui i poeti dialettali scivolavano familiarmente; e il nome di Angelica non svegliava echi diver- si da quello di Nannina romanesca; e i sorrisi delle donne ariostee erano pari ai sorrisi delle Velletra- nelle. Trastevere in queste tenzoni ci si ritrova: (il bisticcio tra i trasteverini e i montinciani è storico, come quello fra i Paladini e i Mori), cosicché nessuna meraviglia a veder divenuti locali e normali, in piazza Anicia, i fatti di Medoro e Bradamante di Sacripante e Alcina; seppure i poeti, (fra cui un ra- gazzo facinoroso, sparito all’ultimo senza ritirare il premio, ma deliberato a tornar lì l’anno prossi- mo con maggior impeto) non hanno qua e là corretto le favole di messer Ludovico. L’ombra del quale era certissimamente presente [...] in questo spicchio di terra papalina, che certo messer Ludo- vico ha visitato allorché se ne venne nell’Urbe e scese a quell’Albergo del Montone, in piazza della

Rotonda che è uno dei ventricoli di Roma.181

Al carattere binario, ‘aristocratico e popolare’ delle ottave, il comitato ariostesco si ispira in modo persino didascalico, strutturando la rete dei maggiori eventi in città secondo uno schema chiaramen-

178 — G. Fumagalli, Il Furioso sulle vie e per le piazze d’Italia, in “Corriere Padano”, 7 maggio 1933, p. 5. 179 — N. Quilici, Bilancio di un centenario, cit., p. 2.

te bipartito in cui convogliare rispettivamente l’attenzione dei letterati e dei lavoratori, del bovari- smo intellettuale e della spiccia sete di spettacolo: da un lato appuntamenti di alto profilo e proposte di effettivo rilievo artistico-letterario, dall’altro manifestazioni al limite del folklore o comunque tese a suscitare soprattutto la curiosità dei semplici e a coinvolgerli nel quadro generale182.

Il primo livello di bipartizione in questo senso è legato proprio all’Ottava d’oro, ai cui incontri pubblici nei luoghi più suggestivi della città si contrappone, dedicata in primo luogo agli intenditori e agli studiosi, la grandiosa ed effettivamente raffinata mostra della pittura del Rinascimento ferra- rese che sarà alla base del lavoro di Longhi. Secondo Guido Angelo Facchini, estensore in quegli anni di una Storia di Ferrara per l’Istituto fascista di Cultura che sarà donata al Re nel corso della sua visita alle manifestazioni ariostesche, il convegno quinquennale era stato davvero un’occasione di diver- tente ammaestramento delle folle, quasi un festival culturale come siamo abituati a pensarli oggi: «mai forse iniziative analoghe trovarono tanto entusiastico, spontaneo consenso di popolo. Fra i soci dell’Ottava d’Oro si contarono il grande signore e il modesto impiegato, la dama e la studentessa»183.

Al netto della propaganda, come abbiamo visto, il profilo degli invitati e la forma degli interventi andavano realmente in una simile direzione.

La mostra di pittura al contrario, che rappresenta di certo l’esito più assolutamente alto e si- gnificativo della politica culturale del gruppo di Balbo, costituisce uno sfoggio di risorse economiche e mediatiche, nonché un evento dotato di tutti i crismi di completezza e rigore necessari a dimostra- re una credibilità culturale nel cuore del vario e rutilante revival cinquecentesco. Oltre a dotare il palazzo dei Diamanti di una nuova illuminazione elettrica, e ad ottenere addirittura un accordo con le ferrovie per far viaggiare a costo ridotto i visitatori184 (fig. 7), il comitato compra spazi sui giorna-

li, stampa volantini e si impegna per raggiungere la stampa internazionale, spendendo per la pro- mozione della mostra la più larga fetta dei fondi stanziati per il centenario185. Alla fine, quando

l’esposizione è aperta e i principi di Piemonte l’hanno visitata accolti da una prolusione di Ugo Ojet- ti186, sulla prima pagina del “Padano” il comitato rivendica l’inaugurazione come «una battaglia vin-

ta», lodando il curatore Nino Barbantini («promotore geniale, instancabile, perspicace e industre del-

182 — Troviamo una sintetica rassegna, accanto a quelle di maggior impegno istituzionale, delle attività più singolari sul “Padano”: «Per la folla, oltre alle mille edizioni della Mostra bibliografica, agli Annali Ariosteschi, alle immagini del Poe- ta raccolte nella casa dell’Ariosto, alle letture dell’Ottava d’Oro, alle grandi commemorazioni dell’Ojetti e del Bertoni a cui ha cresciuto prestigio la presenza del Re e del Principe Ereditario, sono stati riservati innumerevoli capitoli di un pro- gramma che non lasciava si può dire vuota una sola settimana: grande stagione musicale, gare sportive di ippica, di scherma, di boxe, e di foot-ball: arrivo e sosta del Giro ciclistico d’Italia; congressi di antiquari e della Dante Alighieri; riunione dei poligrafici e degli stenografi; gare di società corali; gite popolari ai luoghi ariosteschi di Reggio Emilia; e al centro del semestre, in agosto, il pellegrinaggio collettivo della gente ferrarese a Roma, per accogliere la schiera degli aeronauti trasvolatori di oceani». N. Quilici, Bilancio di un centenario, cit., p. 2.

183 — G. A. Facchini, La storia di Ferrara, Ferrara, Istituto Fascista di Cultura, 1933, p. 302.

184 — La riduzione al 50% dei prezzi dei biglietti è poi sbandierata nel manifesto delle celebrazioni, riprodotto tra le immagini in coda al capitolo (fig. 7).

185 — Per la pubblicità delle varie iniziative del 1933 il comitato aveva stimato una spesa complessiva di 230,000 lire, di cui oltre 180,000 dedicate unicamente alla promozione della mostra sulla pittura del Rinascimento ferrarese. cfr. S. Ono- fri - C. Tracchi (a c. di), L’indimenticabile mostra del ’33, Ferrara, TLA, 2000, pp. 270-272.

186 — Sulla prima pagina dell’edizione del giorno del “Padano” c’è una breve cronaca dell’evento: «Questa mattina alle ore 10.40, al Palazzo dei Diamanti, Ugo Ojetti, accademico d’Italia, pronuncia l’orazione che segna l’inizio del iv Cente- nario Ariostesco. La solenne circostanza richiedeva la presenza di una personalità di spiccatissimo valore e di notissima fama quale l’Ojetti. Ferrara da tempo attente il privilegio che l’Accademia d’Italia le accorda oggi, e con la più viva sod- disfazione porge il saluto al critico insigne, allo scrittore prediletto, al giornalista brillante. Gloria e trionfo del magnifico quattrocento oggi rifulgono sotto il tocco esperto di un maestro dell’arte nostra: dalla suasiva parola di Ugo Ojetti, dalla geniale ispirazione scaturirà la comunione tra l’oratore d’eccezione e l’uditorio eccezionale. “Leonello verde vestito, parla di Cesare al Guarino” ed oggi a noi è dato conversare con il letterato che giunge ad additarci l’immortale senso dell’arte. Scorgiamo l’eminente figura dell’Ojetti e vogliamo esprimere la nostra viva simpatia all’ospite illustre, profon- do curatore di ogni forma d’arte e scrittore tra i più celebri dell’Italia contemporanea». s.n., L’odierna solenne inaugurazio-

l’adunata di capolavori») e in particolare sottolineando lo sforzo di radunare le opere custodite da musei stranieri: «la sala del De Roberti» ad esempio, costituendo l’esito di numerosi prestiti interna- zionali, è paragonata a «una piccola Società delle Nazioni», e si dichiara enfaticamente che «tutto il mondo ha contribuito al successo dell’iniziativa del Comitato Ariostesco»187.

La stessa logica di spartizione dei pubblici presiede alla concezione degli altri due principali snodi cittadini delle manifestazioni: la mostra bibliografica a Palazzo del Paradiso e quella cosiddetta iconografica alla casa dell’Ariosto. Così come il convivio pubblico dell’Ottava d’oro viene impreziosi- to coinvolgendo veri e propri accademici accanto a uomini di teatro, cinema, umorismo e sport (mentre di contro la mostra al palazzo dei Diamanti viene sostanzialmente spiegata e rispiegata in formule semplici e suggestive sulle pagine del giornale ad uso dei meno colti)188, allo stesso modo

l’esposizione di edizioni, copie manoscritte, stampe e autografi legati alla lunga e variegata fortuna editoriale del Furioso viene concepita come evento ‘alto’, per gli studiosi, ma al contempo proposta a un pubblico più ampio attraverso dettagliate informazioni e didattici inviti al piacere culturale.

V’immaginate il viso del gran pubblico anche di quello cosiddetto intellettuale quando sente parlare di Mostra Bibliografica Ariostea? Si arriccia il naso, si corrugano le ciglia e si abbozza un sorriso ironico sulle labbra.

Una mostra di libri?

Ed ecco che molti immaginano una teoria pressoché uniforme, senza vita e senza significato, di libri, spolverati e puliti di fresco, ma che lasciano sentire anche da lontano l’odor di chiuso e di stantio che si sono accumulati nella secolare prigionia delle bacheche; e immaginano su questi libri vagare con occhio avido e con sorriso compiacente qualche tipo di professore, calvo con gli occhiali cerchiati d’oro e colla pelle fatta pergamena come le carte ingiallite di cui si bea, il quale a ogni vol-

ger d’occhi dà in escandescenze ammirative.189

Il paradossale anti-intellettualismo, infarcito abbondantemente di anti-accademismo, è un elemento sostanziale della retorica legata a simili eventi culturali: come vedremo ancora in molti aspetti, il centenario si pretende spontaneo, facile, «fiero» come lo auspica D’Annunzio nei suoi messaggi a Balbo, e l’atteggiamento paternalistico dell’amministrazione cittadina trasforma Ariosto in un mito del tutto accessibile, anche rispetto al recupero più filologico della sua opera e del suo effettivo im- patto sulla cultura nazionale ed europea. Così, in linea con la riscoperta internazionale del libro ita- liano — che dal 1926 stava avendo un’importante fortuna espositiva e presso i collezionisti190 — e

anche in omaggio al convenuto Ojetti (promotore e protagonista della nuova bibliofilia)191, la mo-

stra bibliografica segue un criterio rigoroso e aggiornato, ma viene felicemente presentata soprat-

187 — s.n., Una battaglia vinta, in “Corriere padano”, 9 maggio 1933, p. 1.

188 — All’indomani dell’inaugurazione esce un lunghissimo articolo che illustra passo per passo tutte le sale della mo- stra, sottolineando continuamente quanto l’evento sia destinato a una «risonanza mondiale» e come la scuola pittorica ferrarese abbia «un’importanza assai più vasta di quella che i mediocri sono soliti ad attribuire ad essa». s.n., Attraverso le