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Raggiunti gli anni Trenta e mantenuta soprattutto l’attenzione su Giorgio, dobbiamo volgerci di nuovo verso l’immediato dopoguerra per considerare più distesamente l’evoluzione del rapporto di Savinio col primo nume animato e sceso dallo zoccolo del suo repertorio fantastico-quotidiano. Non è solo la prosa del ’17, col portato successivo che abbiamo scorso, a suggerire un rapporto speciale dell’artista con Ariosto. Anzi, come vedremo è proprio la congerie di indizi avvolta da un generale sospetto silenzio sul Furioso a incuriosire esaminando la sua opera, che da un punto di vista lettera- rio affonda le radici in un autoimposto tirocinio linguistico rinascimentale, mentre per quanto ri- guarda l’estetica deve molto a un originale concetto di ironia maturato negli anni del ritorno all’or- dine. È ormai noto che, conscio dei propri limiti con l’Italiano scritto – dopo l’infanzia e l’adolescen- za trascorse tra Grecia, Germania e Francia – Savinio ha scelto, nella prima maturità, di costruire un glossario personale e di impreziosire così la propria prosa a partire dalle pagine di Luigi Pulci e Pie- tro Aretino56; più avanti si dedicherà a Campanella, di cui commenterà La città del sole in un’edizione

53 — Cfr. J. De Sanna, Il cavaliere errante (crasi del tempo), in V. Sgarbi (a c. di), Giorgio de Chirico dalla Metafisica alla “Meta-

fisica”, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 25-43: 36-38.

54 — Oltre che al libro di Merjian summenzionato, rimando qui, per lo statuto degli oggetti metafisici, a A. Merjian,

Untimely Objects: Giorgio de Chirico's 'The Evil Genius of a King' (1914) between the Antediluvian and the Posthuman, in “Res. Anthropology and Aesthetics”, 57-58, 2010, pp. 186-208.

55 — Traggo l’informazione dal saggio succitato: «il cimento ingaggiato da de Chirico è la conquista della verità in arte. Nel 1952 un suo progetto per una rivista è intitolato “Valori Veri” o “Astolfo”». Ivi, p. 36.

56 — Cfr. P. Italia, «Leggevamo e studiavamo molto»: Alberto e Giorgio de Chirico alla Braidense, in Origine e sviluppi dell'arte

metafisica. Milano e Firenze 1909-1911 e 1919-1922, Atti del convegno di studi, Milano, Palazzo Greppi, 28-29 ottobre 2010, pp. 11-25.

recentemente ristampata57. Di studi specifici su Ariosto non abbiamo però notizia, sebbene si sappia

che le letture italiane proposte dal padre ai due fratelli de Chirico comprendono l’opera del poeta accanto a quelle di Dante, Tasso e Foscolo58; bisogna arrivare all’edizione postuma di Nuova Enciclo-

pedia per leggere una testimonianza della dimestichezza dell’autore con il Furioso, tradita da una considerazione addirittura filologica:

Lina Presotto, la mia formosa e alacre domestica che pochi giorni sono lasciò il mio servizio per esordire nel varietà, parlando con me o con mia moglie o con i miei figli usava il verbo aspettare, ma al telefono usava il verbo attendere. [...] Nella terza edizione del Furioso, Ariosto cambia tutti gli attendere in altrettanti aspettare. Resta a vedere se è meglio prendere esempio dal nostro Lodovico o

da Lina Presotto, la mia domestica alacre e formosa, passata or non è molto ai fasti del varietà.59

Curiosamente, Savinio adopera Ariosto come autorità per confermare l’opportunità di un Italiano non mediocre ma «della mediocrità», utile a «dare forma [...] a una letteratura vasta, viva, completa» e libera dalla falsità di un registro aulico desueto d’ignorante pedanteria: senza abiurare agli espres- sivi lemmi della prima modernità cavati dal Morgante e dai Ragionamenti aretiniani, l’autore condan- na ironicamente gli ipercorrettismi di quella che Calvino definirà «antilingua», ricorrendo finemente alla variantistica ariostesca. Sul versante dell’ironia, l’artista costruisce invece, dopo la pubblicazione di Hermaphrodito, un discorso teorico che avrà molte eco nella sua produzione successiva e che sem- bra nutrito essenzialmente dalle letture tedesche più volte rivendicate e riconosciute: Nietzsche, Schopenhauer e Weininger. Uno dei primi suoi scritti usciti su “Valori Plastici” si conclude con un breve paragrafo dedicato interamente all’argomento. L’ironia, a partire da una citazione da Eraclito («in un frammento riportato da Temistio, dice, per la Natura, ch’essa ama nascondersi»)60, è intesa

come il miglior medium possibile per rivelare quel che il genio comprende della realtà, «gli aspetti terribilmente chiari che egli percepisce», senza ridursi a una sorta di impudicizia o di falso naturali- smo. Il distacco ironico dalla natura, inteso come anti-positivismo spiritualista, è considerato da Sa- vinio naturalmente italiano o greco – tendente all’originarietà dunque – e improbabile in luoghi come la Francia («a che valsero» si domanda «le lezioni di Giordano Bruno per le università di Tolo- sa, di Parigi?»)61, mentre in Germania lo si vede «spandersi [...] fino a che tocca la sua fase estrema

(Nietzsche) nella formula: metafisica»62. L’evoluzione dell’arte moderna sino al «nuovo classicismo»

di de Chirico e Carrà è accostata a quella della statuaria antica, che perviene alla perfezione quando i suoi soggetti cominciano a sorridere:

E – per offrire un parallelo solo –: nella storia della statuaria greca, si possono stabilire con esattezza cronologica le successioni del graduale sciogliersi della tristezza, così cupamente affermata in tutto il periodo arcaico (fase chiusa), per arrivare gradatamente allo spianamento di quella tristez- za: dallo xoanon, monomorfo ed ermetico, al primo distacco delle membra dal corpo, al progressivo movimento, e, nei riguardi dell’espressione, alla prima statua che sorride, preludendo al classicismo –

che penetra cioè nel pieno adempimento del suo moto organico e spirituale.63

Non occorre forse sottolineare come una simile progressiva vittoria delle statue sulla loro stessa stasi

57 — T. Campanella, La città del sole, con una prefazione e commento di A. Savinio [1944], Milano, Adelphi, 2010. 58 — Lo si apprende da una lettera a destinatario sconosciuto, inviata da Parigi il 14 luglio 1928 e oggi conservata presso Archivio Antonio Vastno. Il documento è citato in diverse biografie e in parte trascritto in P. Baldacci - G. Roos (a c. di),

Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, cit., p. 265.

59 — A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 55.

60 — A. Savinio, «Anadioménon». Principî di valutazione dell’arte contemporanea [1919], in Id., La nascita di Venere. Scritti

sull’arte, a c. di G. Montesano - V. Trione, Milano, Adelphi, 2007, pp. 45-63: 62 61 — Ivi, p. 55.

sia perfettamente completata proprio dall’Ariosto della piazza ferrarese, che supera qualsiasi appa- renza di movimento muovendosi per davvero nell’invenzione saviniana. Ancora più interessante per il nostro discorso è confrontare il passaggio con i primi avvicinamenti all’arte visuale che l’autore tenta tra 1925 e 1926. Nell’edizione Adelphi in cui sono raccolte le sue dichiarazioni di estetica64, allo

scritto di cui stiamo parlando è giustamente affiancata una riproduzione di La Naissance de Vénus (fig. 20), uno dei primi disegni che produsse: in esso la divinità «anadioménon» del titolo dell’articolo è rappresentata proprio dallo «xoanon» ironico, che sorride emergendo dalle acque. Negli stessi mesi e con lo stesso titolo però l’artista aveva concepito anche un’altra composizione, costituita dal collage di un disegno con una fotografia, in cui all’episodio mitico si sovrappone un’iconografia ariostesca (fig. 21). Sullo sfondo di rovine greche in bianco e nero, in cui dominano rottami di colonne spezza- te che fanno pensare a quelli dello zoccolo del «poeta di marmo» e ai molti analoghi nelle pitture dechirichiane dopo Ferrara, si staglia una copia dell’Angelica di Böcklin privata dei connotati del viso e di parte della mano sinistra. È certo significativo che proprio la principessa del Catai, attraver- so l’iconizzazione del maestro tedesco, possa sostituire il kuros sorridente emergendo non più dalle acque ma dalle rovine della classicità attica. Il disegno sembra sciogliere il più ermetico gemello: al mare del mito, fecondato da Urano, corrisponde l’originaria culla dello spirito greco – come abbia- mo visto destinato a risvegliarsi in Italia nell’arte metafisica – mentre all’ironia «primitiva» della sta- tua risponde quella ariostesca visivamente imitata da Böcklin. Angelica, come la statua che prelude il classicismo, è figura della nuova arte. Sebbene il procedimento abbia luogo piuttosto presto nel laboratorio dell’artista, anche per un’associazione esplicita dell’ironia ad Ariosto dobbiamo aspettare qualche anno e attraversare i più oscuri ragionamenti di area rondista di Prime chiose sull’ironia, in cui i riferimenti evidenti rimangono quelli ai filosofi65. Solo nel 1934 infatti, in uno scritto che sembra

riprendere e aggiornare le considerazioni dechirichiane su metafisica e scienze occulte, Savinio tor- na sul tema per ribadire come l’ironia sia l’unico farmaco per la fantasia, da esercitare sempre con italiana intelligenza66.

L’uomo intelligente, e particolarmente l’italiano, possiede una preziosissima facoltà che lo mette in guardia contro le seduzioni della fantasia astronomica. Questa facoltà è l’ironia. Se Ludovi- co Ariosto ha potuto senza danno montare in groppa agli ippogrifi e mandare in giro i suoi paladini per gli spazi interplanetari, è perché messer Ludovico non si è mai lasciato sfuggir di mano questo

utilissimo filo d’Arianna: l’ironia. Il tipo contrario di Ariosto, si chiama Flammarion.67

Difficilmente l’artista, negli anni della “Ronda”, avrebbe potuto ricorrere ad Ariosto tanto chiara- mente: non solo per non contaminare il proprio originale profilo culturale di nietzschiano della prima ora e rinnovatore dello spirito ellenistico – in parallelo con il fratello, per cui vale un discorso analogo – ma anche per evitare di confondersi con i compagni di strada dall’ariostismo più esibito e squisitamente letterario. Per Baldini e Bacchelli, come vedremo, il Furioso era soprattutto un model-

64 — Peraltro evidentemente intitolata dall’editore proprio sulla base di questo scritto. A. Savinio, La nascita di Venere, cit.

65 — A. Savinio, Prime chiose sull’ironia, in “La Ronda”, VII, 1920, pp. 473-482. Lo scritto, come il precedente, guarda evi-

dentemente a Nietzsche nella costruzione di una sorta di mito fondativo e primitivo della nascita dell’ironia. Un più insi- stito riferimento alle donne e a come difficilmente possano raggiungere lo stato mentale dell’uomo ironico fa invece pensare a Weininger, notoriamente tra le letture più influenti dei fratelli de Chirico.

66 — Torneremo sul tema dell’intelligenza come fondamento di un fantastico italiano novecentesco classico, ironico e ariostesco da contrapporre all’onirismo e alla irrazionalità del surreale francese. Intanto segnalo un contributo che ha poco a che vedere con la fortuna di Ariosto in un simile filone, ma affronta – a partire soprattutto dalla funzione Papini – la questione della fantasia ‘alta’ e del concetto di intelligenza che vi è sotteso: S. Lazzarin, Una magia «troppo irrimediabil-

mente intelligente»: Papini, Bontempelli e il fantastico novecentesco, in «Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>.

lo di costruzione e di stile quasi passatista, e diverse anime del ritorno all’ordine lavorarono su Ario- sto in biblioteca, come editori e commentatori. L’idea di un poeta-personaggio da incontrare per le vie della città è distante persino dal rapporto di Bontempelli col «poeta avventuroso», il cui nome peraltro, se fosse stato speso riflettendo sull’ironia negli anni Dieci, avrebbe evocato immediatamen- te Pirandello e il suo saggio sull’umorismo. Le interruzioni del silenzio negli anni Trenta e Quaranta – corrispondenti, come mostrerò a breve, a opere pittoriche d’ispirazione ariostesca ben più chiare e pubbliche del pur significativo disegno citato – si spiegano forse con la maggiore autonomia di Savi- nio, che diventa intellettuale ormai riconosciuto e non riconducibile a nessun gruppo. Tuttavia è certo che le ottave rinascimentali hanno avuto un peso importante anche nella fase iniziale e più sperimentale dell’attività dell’autore, che d’altronde chiamerà i suoi figli Angelica e Ruggero e pro- prio all’Angelica di Ariosto, già a metà degli anni Venti icona della nuova arte, intitolerà uno dei suoi primi romanzi.

Angelica o la notte di maggio è anch’esso in realtà concepito e quasi completato tra 1924 e 1925, sebbene veda la luce solo nel 1927 per i tipi di Giuseppe Morreale. Tratta della storia di una bellissi- ma ballerina e del suo goffo pretendente, il barone von Rothspeer, un nobile banchiere ebreo tede- sco che riesce a sposarla. Il barone è ossessionato dalla donna – forse, per necessità, una sgualdrina, almeno a quanto risulta dai colloqui tra i genitori – e la sottrae alla famiglia greca dei Metzopulos dopo rocambolesche pene d’amore condivise col segretario Brephus; non riesce tuttavia a possederla perché Angelica è malata di una strana forma di narcolessia che la trasforma in una sorta di statua vivente. È stato già osservato come la protagonista, seduttrice naturale e destinata a tormentare l’animo degli uomini, sia in effetti facilmente avvicinabile al personaggio ariostesco: il barone che se ne innamora perde completamente di vista i propri obiettivi e le proprie responsabilità per lanciarsi in un totalizzante tentativo di farla sua e di coglierne la verginità, convinto che l’abbia conservata intatta. Von Rothspeer, nella disperazione di non poter cogliere tale fiore della ragazza finalmente sua sposa, arriva anche a un grottesco disvelamento dell’assurdità della propria inchiesta amorosa, in fondo riducibile alla banale lotta per un corpo biologicamente imbarazzante e impermanente:

Il sonno. Un sonno chiuso, più tremendo, più lontano di quello che somiglia alla morte. E lag- giù, nel fondo del suo sonno, il lume di una felicità... Sì, si, la calma, la tranquillità, l’estasi di una felicità che non mi appartiene, che mi resterà ignota, enigmatica... sempre [...] E questo è l’oggetto di cui mi si contende il possesso! Questo schifoso groviglio di carni e di pelo! Questa carogna che di

qui a poco andrà in putrefazione, comincerà a puzzare!68

Si potrebbe pensare, di fronte alla reiterata situazione di frustrata impotenza del barone che non rie- sce ad approfittare della giovane addormentata, all’episodio ariostesco di Angelica con l’eremita, ed è interessante che negli stessi anni de Chirico copiasse da Rubens la medesima scena tratta dall’otta- vo canto del Furioso69. Più che per una ripresa di soggetti e situazioni tuttavia – e al di là personaggio

femminile, su cui torneremo – il romanzo si ispira al poema per la tecnica narrativa, spesso interes- sata da una forma moderna di entrelacement. Gli undici capitoli sono divisi in numerosi paragrafi numerati, a volte non più lunghi di qualche riga, e il montaggio di episodi contemporanei nella fabu- la è organizzato avvicendando le diverse linee narrative dislocate in contesti lontani: la casa dei Mitzopulos, l’ufficio, il palazzo del barone, una nave e così via. L’impressione di un intreccio ondi- vago à la Ariosto è acuita in alcuni punti da vere e proprie interruzioni di fili narrativi che devono

68 — A. Savinio, Angelica o la notte di maggio [1927], in Id., Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 353-437: 411.

attendere diversi paragrafi per tornare a svolgersi70. Si tratta soprattutto di vicende separate ma non

molto distanti nello spazio, miscelate da Savinio a ritmo sincopato. Nel secondo capitolo71, ad esem-

pio, la narrazione parte dalla cabina di von Rothspeer per poi fermarsi con una domanda dell’autore che sposta il racconto sul sonno di Angelica: «E Angelica Mitzopulos? Dorme la fatale fanciulla [...]». Il passaggio al «capezzale» della ragazza addormentata dura però poco, e subito la voce narrante vorrebbe tornare alle vicende del barone invocando addirittura la musa: «Clio, amica mia, qui non mi pare conveniente esercitare il nostro mestiere di Icaromenippi. Torniamo, credi a me, nella cabi- na di von...». Ma il romanzo, rivaleggiando con la rapidità dei ‘cambio scena’ di Ariosto, non dà nemmeno il tempo al proprio stesso scrittore di ricondurlo sulle tracce del barone e il paragrafo fini- sce a metà del nome, lasciando che il successivo torni subito, effettivamente, sul personaggio, tro- vandolo già arrivato a casa. Anche la nuova sezione viene interrotta improvvisamente a metà di una frase: «“Rasentavo il cancello e non vedevo il giardino. Ora soltanto m’inoltro tra i....”» e quella suc- cessiva, ambientata nella stessa villa ma fuori dalla camera di Rothspeer, si allaccia addirittura a un punto preciso della battuta spezzata: «Sulla parola “giardino”, Alessandro Sturnara preme la peretta di gomma». Negli anni Quaranta, preparando una riedizione che poi non ebbe esito, Savinio dirà – pur non riferendosi direttamente alla tecnica narrativa – che Angelica è un libro «ispirato dal cinema- tografo» aggiungendo in particolare, per ciò che ci interessa: «cinematografico nel taglio delle scene e dirò meglio nella sceneggiatura [...] nel suo mostrare più che spiegare, nel suo lasciare che tra sce- na e scena i necessari raccordi il lettore – lo spettatore – se li componga da sé»72. Chiaramente l’au-

tore si riferisce soprattutto ai dialoghi scritti come in un copione e alle improvvise scene oniriche o apparentemente incongrue che si frappongono tra i moduli del romanzo, tuttavia, in una simile tar- da ricostruzione, ha forse un ruolo l’idea di Ariosto «antenato del cine»73 che Anton Giulio Bragaglia

– sodale dei fratelli de Chirico – aveva precedentemente avanzato. Il regista futurista infatti, il cui lavoro cinematografico era certamente il più vicino all’esperienza di Savinio negli anni Venti, dichia- rava di ispirarsi al ritmo delle ottave e già nel 1933 considerava, in un vero e proprio studio pronun- ciato pubblicamente74, l’intreccio del Furioso come modello per il montaggio.

Un ultima considerazione sull’Angelica saviniana può aiutare a capire l’uso di Ariosto che en- trambi i Dioscuri della metafisica faranno, in pittura, dopo le numerose citazioni implicite e fantasie di avvicinamento che abbiamo visto attraversare carsiche la loro meditazione artistica dal soggiorno Ferrarese al tardo dopoguerra. Il personaggio principale, la bella fanciulla che dorme, risponde al nome di Angelica ed evoca la sdegnosa e bellissima fuggitiva ariostesca, ma in una recita nelle prime pagine del romanzo interpreta Psiche, e sarà chiamata Psiche più volte. Un angelo, forse Eros, le fa visita nel sonno, e non si capisce se la sua figura china sulla fanciulla esista solo nella fantasia ossessi- va e gelosa di Rothspeer – che comunque, alla fine, gli spara ed è convinto di averlo ucciso – o se davvero si tratti del dio dell’amore, di un uomo trasfigurato dalla follia del barone o di ambo le cose.

70 — Alcuni di essi si chiudono nel corso del romanzo, altri restano aperti e dei personaggi si perdono le tracce. Quasi echeggiando rimproveri simili mossi all’Ariosto per la sua troppo vasta e disordinata materia, l’autore nel finale arriva a porre una serie di domande sui protagonisti e sulle vicende loro e di chi li accompagnava nella storia: alcuni nomi, da Costa Cofinàs a Emanuele Salto, dal signor Désiré alla Parasceve, non comparivano da diversi capitoli e nessuna risposta giunge a informare chi legge sulla loro sorte (Cfr. A. Savinio, Angelica o la notte di maggio, in Id., Hermaphrodito e altri ro-

manzi, cit., p. 434).

71 — I passi citati come esempio, tutti molto ravvicinati, sono tratti da ivi, pp. 363-365.

72 — Prefazione inedita alla progettata edizione 1944 del romanzo, conservata in un dattiloscritto presso il Gabinetto G. P. Vieusseux e trascritta in Note ai testi. La casa ispirata, in A. Savinio, Hermaphrodito e altri romanzi, cit., pp. 933-935: 934. 73 — La formula di Bragaglia è citata in M. Verdone, Anton Giulio Bragaglia, Roma, Edizioni di Bianco e Nero, 1965, p. 4.

Del resto, nel sesto capitolo, Mercurio in persona si affaccia, per conto di «potenze maggiori»75, alla

finestra di un ufficio durante una riunione di banchieri, intervenendo sulla realtà come l’arcangelo Michele del Furioso o gli Dei dell’epica, e il piano del mito si mescola volentieri con quello della real- tà diegetica. Nell’ultima pagina del libro è l’autore stesso a intervenire sulla questione, mettendosi in scena come personaggio ‘io’ nel catalogo di battute da copione e risolvendo ambiguamente il dub- bio: sebbene resti vero quanto raccontato, Angelica era anche davvero Psiche e il suo amante cele- ste, solo ferito da «quello scemo di Rothspeer»76, si ricongiungerà con lei. Nello scritto del ’44 già

citato, poi, il romanzo è definito semplicemente «leggera parafrasi della favola di Psiche»77. La pro-

tagonista della vicenda saviniana è dunque al contempo una ballerina di primo Novecento, una figu- ra di Psiche e una figura dell’Angelica ariostesca: al mito greco divulgato da Apuleio e oggetto di importanti riprese rinascimentali si sovrappone quello della principessa del Catai, a sua volta velato dalla storia della sgualdrina sposata a un ricco banchiere che non riesce a farla sua. Le tre linee non sono perfettamente parallele ma si seguono in diversi punti, ed è interessante che l’autore associ le due fanciulle letterarie visto che, in effetti, entrambe scontano la loro vanità trovandosi ad amare un uomo indegno. Per la giovane greca la redenzione è possibile, mentre la donna ariostesca rimane