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9. I presupposti della risoluzione 1 L’inadempimento

9.1.2 L’ambito oggettivo

Partendo dall’ambito oggettivo, volendo in certo qual modo individuare le ipotesi in cui l’inadempimento può portare alla risoluzione, potremmo indicare tre diverse situazioni rilevanti a tal fine: l’adempimento inesatto, l’adempimento ritardato e l’inadempimento definitivo.

Tralasciando la terza ipotesi che non pone problemi di sorta, la prima fattispecie ricorre qualora la prestazione, anche se in tutto o in parte effettuata, non possieda “i requisiti

soggettivi e oggettivi, che sono idonei a farla coincidere con l’oggetto dell’obbligazione ed a soddisfare l’interesse del creditore” 50.

48

Cfr. Cassazione, 16 luglio 2001, n. 96379; Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 97. 49

Per una disamina delle teorie sviluppatesi nel tempo si veda BASINI, op. cit., p. 132 ss.. In tal senso si sono espresse sia la giurisprudenza: Cassazione, 16 luglio 2001, n. 9637; Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 97 in Danno e Responsabilità, 1997, p. 727; Cassazione, 7 maggio 1982, n. 2843; che la dottrina: SACCO,

I rimedi sinallagmatici in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 10, Torino, 2002, p. 654;

FRAGALI La dichiarazione anticipata di non voler adempiere in Rivista di Diritto commerciale, 1966, I, p. 243; MURARO, L’inadempimento prima del termine in Rivista di Diritto civile, I, 1975, p. 248.

50

Così GIORGIANNI,In tema di risoluzione del contratto per inadempimento in Contratto e impresa,

Vi è concordia al riguardo nel ritenere che anche l’adempimento inesatto, pur concretandosi in una prestazione, qualora rivesta particolare importanza avuto riguardo all’interesse del creditore, sia rilevante ai fini della risoluzione.

Più problematici invece la definizione e l’esatto inquadramento del ritardo nell’adempimento.

Si discute, al riguardo, se il ritardo (che, ovviamente, per acquistare rilievo deve essere di “non scarsa importanza”) determini in capo al creditore la nascita di un diritto quesito a chiedere la risoluzione ovvero se al debitore debba essere riconosciuta la facoltà di eliminare il presupposto della domanda di risoluzione mediante un adempimento tardivo.

Ovviamente, ciò che qui interessa è il ritardo verificatosi fino al momento preclusivo della proposizione del rimedio risolutorio. Il III comma dell’art. 1453 c.c. è, infatti, per lo meno prima facie, chiaro, nell’identificare la domanda giudiziale come momento finale per l’adempimento tardivo.

Si tratta, in altri termini, di verificare se il ritardo sia di per sé solo sufficiente a giustificare il rifiuto del creditore di ricevere la prestazione e, per tale via, debba essere sempre e necessariamente equiparato all’inadempimento definitivo, ovvero se vi sia spazio per convertire il ritardo in adempimento tardivo, sufficiente, come tale, a soddisfare l’interesse del creditore.

Il discorso in oggetto presuppone che l’adempimento sia ancora giuridicamente possibile e che non fosse previsto nel contratto un termine essenziale, poiché, in tal caso, non vi sono dubbi che il ritardo diventi inevitabilmente inadempimento.

Si potrebbe ipotizzare, argomentando a contrariis dall’art. 1453, ultimo comma c.c., che il ritardo, fino a che non sia proposta domanda di risoluzione, non possa mai essere

equiparato al mancato adempimento51.

La tesi, sebbene fondata dal punto di vista normativo, presenta alcuni inconvenienti, tra i quali, in primis, quello di lasciare il creditore alla mercé del debitore, in grado di convertire la situazione a lui sfavorevole e da lui stesso provocata, in situazione a lui vantaggiosa52.

E’ anche vero però che la parte non inadempiente può sempre bloccare l’iniziativa della controparte chiedendo la risoluzione, per cui l’eventuale ritardo o disinteresse nel proporre l’azione rischierebbe di produrre un danno nella sua sfera patrimoniale.

Per contro la celerità nell’agire premierebbe il creditore, ponendolo al riparo da possibili futuri adempimenti ai quali non sia più interessato.

Le sorti del contratto, in tal modo, verrebbero a dipendere dalla volontà del contraente adempiente, il quale potrebbe bloccare l’adempimento tardivo con la domanda di risoluzione proposta originariamente ovvero in seguito all’esercizio dello ius variandi. Così facendo, tuttavia, si attribuirebbe un ruolo centrale all’arbitrio del creditore, premiando la sua celerità nel domandare la tutela giudiziale del suo diritto.

In realtà, tutta la discussione deriva dal fatto che il legislatore si è limitato a vietare l’adempimento successivo alla domanda di risoluzione, disinteressandosi completamente del problema analogo che può verificarsi prima di quel momento.

Sorge allora il problema del significato che si può attribuire al silenzio del legislatore. Al riguardo si potrebbe ipotizzare una semplice lacuna da colmare con ricorso ai principi generali comunque desumibili in materia contrattuale.

Si potrebbe, al contrario, ritenere che il silenzio normativo risponda ad un disegno ben preciso messo in atto dal legislatore; in particolare, potrebbe ipotizzarsi l’applicazione

51

Così in dottrina DALMARTELLO, voce Risoluzione del contratto, op. cit., p. 135; in giurisprudenza la tesi è prevalente; cfr. ex plurimis, Cassazione, 29 maggio 1997, n. 5235; Cassazione, Sezioni Unite, 9 luglio 1997, n. 6224 in Giustizia Civile, 1998, I, p. 825.

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del noto brocardo ubi lex volui dixit.

In entrambe le ipotesi, a parere di chi scrive, la conseguenza dovrebbe essere la possibilità dell’adempimento tardivo. Più precisamente, nella seconda ipotesi non sembra revocabile in dubbio che il codificatore, se avesse voluto impedire l’adempimento tardivo ante causam, lo avrebbe detto espressamente così come ha fatto per l’adempienza successiva a tale momento.

Qualora invece si ipotizzi una lacuna, potrebbe farsi ricorso al principio della conservazione del rapporto contrattuale o, ancora, al principio del favor debitoris, con la conseguenza di ammettere l’adempimento tardivo, ferma restando, per il creditore, la possibilità di agire per il risarcimento dell’eventuale danno derivante dal ritardo.

La possibilità di adempiere tardivamente anche se, comunque, prima della domanda, potrebbe desumersi anche dal fatto che fino a tale momento ci si trova di fronte ad un rapporto di carattere esclusivamente privatistico; al contrario, a partire dalla proposizione della citazione, il rapporto viene a coinvolgere anche interessi di natura pubblicistica che trascendono le parti del contratto. E proprio l’attivazione del sistema giudiziario verrebbe a limitare la libertà del debitore di adempiere tardivamente.

Quanto detto, preme ribadirlo, presuppone la mancanza nel contratto di un termine essenziale o per dichiarazione espressa delle parti ovvero perché tale carattere deve comunque essergli riconosciuto in considerazione della natura dell’accordo.

Se tale essenzialità non sussiste, il ritardo, in quanto tale, potrà fondare altre pretese da parte del creditore, ma non quella diretta a far dichiarare lo scioglimento del contratto. Si ritiene invece che non rientri fra i presupposti della risoluzione l’esistenza di un danno, ovverosia di una perdita patrimoniale quantificabile in denaro.

Ciò non significa che l’ordinamento sia indifferente alle conseguenze negative che possono derivare dall’inadempimento, ma semplicemente che esso rileva di per se

stesso, mentre il danno rappresenta un di più che nel singolo caso potrebbe anche mancare, ma che comunque nulla toglie e nulla aggiunge alla repressione dell’inadempimento53.

La non essenzialità del danno ai fini del rimedio risolutorio viene giustificata facendo ricorso alla funzione che gli è propria: la risoluzione mira infatti al ripristino dello status

quo ante, vale a dire al ristabilimento della situazione, soprattutto giuridica, esistente

prima del vincolo contrattuale.

Diversamente il risarcimento del danno garantisce al creditore il diverso risultato di ottenere l’equivalente pecuniario dell’utilità da lui persa in conseguenza dell’inadempimento di controparte.

Da quanto detto deriva che i due rimedi hanno carattere autonomo, con l’ovvio corollario che la sorte dell’uno non influisce necessariamente sul destino dell’altro54.

53

L’opinione, che appare generalmente condivisa, viene espressa da LUMINOSO, Della risoluzione per

inadempimento, op. cit., pag. 12; nello stesso senso, SACCO, Il contratto, op. cit., pag. 948. 54

Il carattere autonomo dei due rimedi viene talora riportato anche alla diversa ripartizione dell’onere della prova. Da una parte vi è chi si esprime nel senso di ritenere che il creditore che agisce sia tenuto esclusivamente a provare l’esistenza del titolo negoziale e non anche l’inadempimento di controparte; ciò a prescindere dal fatto di avere agito per la risoluzione, per l’adempimento o per il risarcimento.

In senso conforme si sono espressi, in dottrina: AULETTA, La risoluzione per inadempimento, op. cit.; CARNEVALI, Della risoluzione per inadempimento in Commentario Scialoja Branca, Libro IV, Delle

Obbligazioni, I, 1, art.1453-1454, Bologna, 1990, p. 73; in giurisprudenza: Cassazione, 7 febbraio 1996,

n. 973 in Foro Italiano, 1996, I, 1265; Cassazione, 15 ottobre 1999, n. 11629 in Foro Italiano 2000, I, 1917.

In senso contrario si esprime talaltra dottrina, supportata anche da parte della giurisprudenza, secondo la quale spetta all’attore in risoluzione l’onere di provare solo il fatto costituente l’inadempimento, mentre all’attore che agisce per il risarcimento spetterebbe anche l’onere di provare il danno.

Cfr. Cassazione, 9 gennaio 1997, n. 124; Cassazione, 8 gennaio 2000, n. 123 in Contratti, 2000 con nota di CARNEVALI.

Recentemente sono intervenute sul punto le Sezioni Unite della Cassazione le quali, aderendo sostanzialmente al primo indirizzo, hanno sostenuto che, a prescindere dal fatto che il creditore agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento, egli deve limitarsi a provare la fonte del suo diritto, spettando poi al debitore dimostrare l’avvenuto adempimento ovvero il fatto che rende a lui non imputabile l’inadempimento. A tal riguardo non basta poi che il convenuto provi la semplice difficoltà della prestazione o il fatto ostativo del terzo, richiedendosi la prova dell’impiego della necessaria diligenza nel rimuovere gli ostacoli che impedivano l’esatto adempimento.

L’unica eccezione al principio dianzi esposto si avrebbe, sempre secondo la Cassazione, nell’ipotesi di obbligazione negativa in cui spetterebbe al creditore agente per l’adempimento, per la risoluzione ovvero per il risarcimento, il compito di provare il fatto stesso dell’inadempimento, vale a dire l’onere di provare che il debitore ha tenuto un comportamento commissivo in violazione dell’obbligazione di non facere o di non dare. Cassazione, Sezioni Unite, 30 ottobre 2001, n. 13533 in Corriere Giuridico, 2001, 1565 con nota di MARICONDA. Nello stesso senso, ex plurimis, Cassazione, 19 aprile 2007, n. 9351; Cassazione, 13

giugno 2006, n. 13674; Cassazione, 12 aprile 2006, n. 8615 Cassazione, 25 settembre 2002, n. 13925; Cassazione, 15 novembre 2002, n. 16092; Cassazione, 18 novembre 2002, n. 16211.

Ciò comporta che la domanda di risarcimento possa essere proposta sia congiuntamente sia separatamente da quella di risoluzione e che l’accoglimento o il rigetto dell’una non determini necessariamente l’accoglimento o il rigetto dell’altra55.