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Il cosiddetto “ius variandi” nel codice del

Lo studio dello ius variandi così come disciplinato dal legislatore del 1942 presuppone un breve excursus storico sulle sue origini e sul suo sviluppo, che va ad integrare quanto già esposto nel capitolo I.

Come già visto, l’istituto della risoluzione era disciplinato in modo profondamente diverso nel codice del 186578. L’influenza esercitata dalla codificazione d’oltralpe aveva fatto sì che il rimedio operasse come una sorta di “condizione risolutiva tacita”, implicitamente data per presupposta nei contratti bilaterali; con la particolarità che essa non operava alla stregua della condizione di efficacia disciplinata dagli artt. 1353 ss. del

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L’art. 1165 del codice così recitava: “La condizione risolutiva è sempre sottintesa nei contratti

bilaterali, pel caso in cui una delle parti non soddisfaccia alla sua obbligazione.

In questo caso il contratto non è sciolto di diritto. La parte verso cui non fu eseguita l’obbligazione, ha la scelta o di costringere l’altra all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi.

La risoluzione del contratto deve domandarsi giudizialmente, e può essere concessa al convenuto una dilazione secondo le circostanze.”

codice attuale, ma richiedeva l’intervento dell’autorità giudiziaria, appositamente chiamata a pronunciarsi dalla parte non inadempiente.

Come già preannunciato nel primo capitolo, nessun riferimento normativo espresso alla reversibilità o meno della scelta era contenuto nel codice del 1865; l’art. 1165 si limitava, infatti, a prevedere a favore del creditore la scelta tra la manutenzione e lo scioglimento del vincolo contrattuale, senza nulla aggiungere.

Va da sé che, di fronte a tale dizione normativa, la maggioranza degli autori ritenesse di poter intravedere nella norma la massima libertà d’azione per il contraente fedele, con la conseguenza di considerare i due mezzi di tutela reciprocamente sostituibili79.

In senso contrario alla maggior parte degli interpreti si schierava chi invece riteneva che la scelta di agire in risoluzione comportasse per l’attore l’impossibilità di mutare la domanda80.

Ciò veniva giustificato prevalentemente con esigenze di tutela del debitore, il quale, una volta presentata la domanda di risoluzione da parte del creditore, doveva considerarsi “assolto” dall’obbligo di adempiere il contratto e, conseguentemente, libero di offrire

aliunde la prestazione dedotta nell’accordo.

Senza contare poi il fatto che, a fronte del disinteresse del creditore, il debitore poteva già essersi spogliato del bene, venendo, in tal modo, a trovarsi nella situazione di doverlo recuperare nuovamente, magari a condizioni ben più onerose.

Trattasi, come si vedrà in prosieguo, di una motivazione che successivamente verrà spesso utilizzata anche sotto il vigore del codice civile del 1942 per giustificare l’irreversibilità della scelta effettuata.

Diversamente, in caso di domanda di adempimento si riteneva pacificamente che al contraente fedele fosse concesso di mutare la propria richiesta.

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Così, ex multis, FERRARA Senior, Teoria dei contratti, Napoli, 1940, p. 340. 80

Tra le spiegazioni fornite al riguardo, particolarmente diffusa era quella secondo la quale l’inizio del processo avrebbe aggravato l’inadempimento del convenuto, rafforzando, se non addirittura fondando, il presupposto essenziale per la domanda di risoluzione.

Tale ratio sottendeva l’esigenza di tutela del creditore, il quale, a fronte dell’aggravarsi dell’inadempimento, necessitava di strumenti di difesa ancora maggiori e più efficaci. Tale via non esitò a condurre all’affermazione per cui, oltre alla domanda di adempimento, nemmeno la pronuncia di una sentenza di condanna all’adempimento e l’inizio dell’esecuzione forzata potevano bloccare la successiva richiesta di risoluzione81.

Infatti, solo successivamente al concreto soddisfacimento del creditore, ottenuto per una ovvero per l’altra via, l’esigenza di tutela poteva considerarsi definitivamente soddisfatta.

Va da sé che solo a seguito del concreto soddisfacimento raggiunto dal creditore per effetto dell’esecuzione forzosa o in seguito all’esecuzione spontanea conseguente a sentenza di condanna, si riteneva che lo ius variandi venisse definitivamente meno. Non pare revocabile in dubbio il fatto che grande influenza sul carattere reversibile o irreversibile della scelta tra le due azioni, avesse, anche sotto il vigore del codice del 1865, l’adesione all’una ovvero all’altra delle teorie sviluppatesi in merito al fondamento dell’istituto della risoluzione.

In particolare, i sostenitori della tesi che attribuiva alla risoluzione un fondamento sanzionatorio a carico del contraente inadempiente affermavano il carattere sempre reversibile della scelta, a prescindere dal tipo di giudizio inizialmente instaurato.

Non parevano, pertanto, esservi limiti al passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione, posto che il perdurare di una situazione di inadempienza non

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poteva assolutamente limitare il potere del creditore di tutelare al meglio la propria posizione; anzi, proprio il carattere sanzionatorio della risoluzione giustificava il passaggio dalla richiesta di adempimento alla domanda di risoluzione.

Qualche dubbio, al contrario, sarebbe potuto sorgere in merito alla compatibilità fra la teoria della “sanzione” ed il passaggio opposto.

Se, infatti, a fronte del persistere dell’inadempimento, la risoluzione veniva configurata come la giusta sanzione a carico dell’infedele, in base a quale ragione si sarebbe dovuto giustificare il passaggio dalla domanda di risoluzione a quella di adempimento.

Cionondimeno, tra i sostenitori della “teoria coercitiva”, vi è stato chi ha giustificato il passaggio da risoluzione ad adempimento forzato in base alla loro identica natura di mezzi satisfattivi, concessi dalla legge al creditore per tutelare al meglio il suo credito. Ciò nel senso di ritenere che la facoltà di scelta fosse sempre possibile fintantoché la tutela del creditore non fosse di fatto raggiunta con la prestazione forzata (esecuzione specifica o esecuzione per equivalente) o con la sentenza di risoluzione.

In caso contrario, si aggiungeva, si sarebbe infatti privato il creditore del mezzo che, in un determinato momento, più era in grado di soddisfare il suo interesse82.

A diversa soluzione potevano intuibilmente condurre le teorie soggettive basate sul fondamento condizionale della risoluzione.

Non pare revocabile in dubbio, infatti, che il verificarsi dell’inadempimento inteso quale avvenimento risolutorio sia del rapporto che del contratto che ne sta alla base, potesse facilmente condurre all’assoluta irrevocabilità della scelta compiuta.

Sennonché, i sostenitori della suddetta teoria, pur rapportando l’inadempimento nell’alveo della condizione, non ne traevano tutte le necessarie conseguenze.

L’accostamento all’elemento condizionale, quale avvenimento che spazza via con efficacia ex tunc tutto quanto fino a quel momento verificatosi, avrebbe dovuto

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giocoforza condurre ad ammettere la sola possibilità di un’azione di “accertamento risolutivo”, nel senso cioè di riconoscere alla sentenza di risoluzione carattere meramente dichiarativo, esclusa la stessa facoltà di agire per l’adempimento.

Tuttavia, come si è già detto nel corso del Capitolo I, le teorie condizionali non potevano non tener conto del dato normativo, il quale, ai fini della risoluzione, richiedeva la necessaria mediazione dell’intervento del giudice.

Per tale via, anche chi aderiva alle teorie condizionali riusciva ad ammettere il carattere “bidirezionale” del passaggio, nel senso cioè di ammettere il passaggio a prescindere dalla domanda proposta per prima.

Sennonché, in tal modo, i sostenitori della teoria de qua non si rendevano conto che la soluzione cui giungevano era in netto contrasto con l’assunto da cui erano partiti.

Il che equivale a dire che la reversibilità del passaggio portava necessariamente a smentire il fondamento condizionale dell’istituto risolutorio.

Problematica poteva sembrare anche la compatibilità fra la teoria che individuava il fondamento della risoluzione nella mancanza di causa e il riconoscimento della possibilità di passare dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione e viceversa. In verità, sebbene l’argomento venisse utilizzato proprio per smentire l’attendibilità della teoria della causa, non sembravano, a parere di chi scrive, esservi soverchi problemi di compatibilità.

Ciò, tuttavia, sul presupposto di considerare correttamente il difetto di causa che sta alla base del rimedio risolutorio; esso, infatti, non andava (e non va, dato che il problema, come vedremo più ampiamente in prosieguo, si ripropone anche nel sistema attuale) identificato con il difetto genetico che determina, in quanto tale, la nullità del contratto.

Come si è già visto nel corso del Capitolo I, il difetto derivante dall’inadempimento ha carattere funzionale, incide, cioè, sul rapporto, lasciando impregiudicata la causa genetica dell’accordo e, quindi, facendo salva la validità dello stesso.

L’inadempimento ex uno latere, inoltre, e il difetto di scambio che ne deriva, devono essere necessariamente verificati ad opera dell’autorità giudiziaria di modo tale che solo con la pronuncia del giudice il contratto potrà considerarsi sciolto.

Va da sé che fino al momento della sentenza di risoluzione l’accordo deve considerarsi ancora in essere, con tutte le conseguenze che ne derivano in relazione alla possibilità di passare da una domanda all’altra.