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6. I limiti al mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione

6.1. Segue: i limiti interni al processo

Per quanto concerne la prima delle questioni sollevate, vale a dire la reversibilità della scelta all’interno dello stesso processo, si è sostenuto che il mutamento potrebbe avvenire solo nel giudizio di primo grado e, all’interno di esso, solo fino al momento della precisazione delle conclusioni95.

All’individuazione di tale ultimo termine nel processo di primo grado si è giunti, come già rilevato, partendo dall’equazione per cui, se l’art. 1453, II comma c.c. è norma processuale speciale, significa che essa è in grado, come tale, di vincere le preclusioni poste dall’art. 183, VI comma c.p.c. per la modifica della domanda.

Altre volte si è sostenuto che il passaggio potrebbe avvenire – pur rimanendo nell’ambito dello stesso processo - anche in grado d’appello, in deroga al divieto di domande nuove di cui all’art. 345 c.p.c.96.

Anche in tale ipotesi, la deroga appare la fin troppo semplice conseguenza del riconosciuto carattere processuale della norma di cui all’art. 1453, II comma c.c.

95

Così Cassazione, 27 marzo 1996, n. 2715; in tema di appalto analogamente cfr. Cassazione, 22 febbraio 1999, n. 1475 secondo la quale “In tema di appalto non è applicabile il principio stabilito per la vendita

dal comma 2 dell'art. 1492 c.c. dell'irrevocabilità della scelta operata mediante domanda giudiziale, tra la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo, con la conseguenza che la domanda di risoluzione del contratto di appalto può proporsi nell'udienza di precisazione delle conclusioni dopo che con l'atto di citazione sia stata chiesta la riduzione del prezzo e che quest'ultima può essere nuovamente introdotta nel giudizio di appello in sostituzione di quella di risoluzione, in quanto fondata sulla stessa "causa petendi" e su un più limitato "petitum". Pertanto, non incorre in vizio di ultrapetizione il giudice che, qualora ritenga di non poter accogliere la domanda di risoluzione del contratto perché i vizi dell'opera non sono tali da renderla inidonea alla sua destinazione, disponga soltanto la riduzione del prezzo pattuito, adeguandolo all'opera compiuta”.

96

Tra le tante Cassazione 24 maggio 2005, n. 10927; Cassazione, 5 maggio 1998, n. 4521; Cassazione, 28 gennaio 1987, n. 791; in dottrina, tra i primi a sostenerlo, MOSCO, op. cit., p. 247 ss.

Ed infatti, posto che il capoverso dell’art. 1453 c.c. non pone limiti all’esercizio del diritto di mutare la domanda, esso dovrà giocoforza ammettersi fino alla sua “consumazione” e, dunque, in ogni fase e grado del giudizio.

Molto si è discusso sul fatto se il mutamento possa poi avvenire nel giudizio di rinvio97. Al riguardo, appare preferibile, come è stato sostenuto, distinguere a seconda dei casi ed ammettere il mutamento della domanda giudiziale se il rinvio avviene perché la sentenza ha omesso misure sananti o integrative (si pensi, ad esempio, al mancato ordine di integrazione del contraddittorio o di rinnovazione di atto nullo); in tal caso il processo deve svolgersi come se si discutesse per la prima volta nella fase di rito, con tutti i conseguenti poteri, ivi compresa la facoltà di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione98.

La soluzione affermativa si giustifica alla luce dell’esigenza di garanzia e di giustizia che il processo deve offrire ai contendenti (di cui il giudizio di rinvio è peraltro espressione fondamentale), esigenza che non può assolutamente considerarsi realizzata in una fase di merito svoltasi in modo incompleto e lacunoso.

Il mutamento della domanda non si ritiene invece ammissibile in cassazione, posto che il giudizio di legittimità si propone di confermare o cassare la sentenza d’appello, discutendosi solo del corretto esercizio della giurisdizione nei gradi di merito.

L’ampio spazio cronologico99 che si è via via riconosciuto al mutamento della domanda all’interno dello stesso processo, oltre ad essere l’immediata conseguenza del carattere processualistico costantemente attribuito all’art. 1453, II comma c.c., è anche il logico corollario dei principi che si sono visti costituire il fondamento della scelta reversibile.

97

In senso negativo, tra le altre, Cassazione, 16 febbraio 1972, n. 421; in senso affermativo Cassazione, 27 novembre 1996, n. 10506; Cassazione, 10 aprile 1986, n. 2503; Cassazione, 23 aprile 1981, n. 2414. 98

In senso conforme RICCI, Sulla sostituzione della domanda di adempimento con la domanda di

risoluzione nel giudizio civile di rinvio in Giurisprudenza italiana, I, 1, 1974, p. 259 ss., il quale peraltro,

partendo dalla possibile casistica dei giudizi di rinvio, ne fa derivare la possibilità o meno del mutamento di domanda.

99

E non poteva essere altrimenti, poiché una reversibilità più limitata avrebbe determinato il sacrificio sia di principi considerati il cardine del sistema processuale italiano che di valori posti alla base del sistema civilistico.

Nell’interpretazione del capoverso dell’art. 1453 c.c. la giurisprudenza generalmente distingue tra le facoltà concesse all’attore e quelle spettanti al convenuto.

Se, infatti, per il primo lo ius variandi opererebbe nei termini sopra riportati, per il secondo sussisterebbe una preclusione, nel senso di ritenere che la domanda di risoluzione dovrebbe, comunque, essere spiegata “tempestivamente”100.

La ratio di tale interpretazione non è, a dire il vero, particolarmente chiara.

Apparentemente essa potrebbe trovare un appiglio nel dettato letterale del capoverso dell’art. 1453 c.c., poiché il riferimento al giudizio “promosso” potrebbe far pensare si tratti di una facoltà del solo attore.

In verità la norma si limita a dire che “la risoluzione può essere domandata”, senza precisare in alcun modo il soggetto cui è attribuito lo ius variandi.

Si ipotizzi, al riguardo, il caso che il venditore convenga in giudizio l’acquirente per ottenere il pagamento del prezzo ed il convenuto, da parte sua, chieda, in via riconvenzionale, la condanna alla consegna del bene venduto e si avveda poi che il bene risulta trasferito a terzi ovvero affetto da vizi tali da renderlo del tutto inidoneo all’uso cui è destinato.

Non si comprende per quale motivo all’attore dovrebbe essere concesso di cambiare idea in ogni istante, anche oltre i termini di cui all’art. 183 VI comma c.p.c., e che al convenuto sia, invece, precluso chiedere successivamente la risoluzione.

100

In tal senso, da ultima, Cassazione 24 maggio 2005, n. 10927 secondo la quale “…tale facoltà (n.d.r.

lo ius variandi) è attribuita solamente alla parte che abbia chiesto l’adempimento e non anche a quella che in giudizio ad essa si opponga, la quale è pertanto tenuta a spiegare tempestivamente eventuale domanda di risoluzione” . Nello stesso senso Cassazione 15 ottobre 1992, n. 11279.

Trattasi di una scelta del tutto disancorata da principi sia di ordine sostanziale che processuale.

Dal primo punto di vista la teoria pare del tutto contraria ad esigenze di equità, posto che non tiene nel minimo conto la posizione del debitore convenuto.

Se è vero che lo ius variandi è posto nell’interesse e a tutela della posizione del contraente fedele, è altrettanto vero che il convenuto non può essere per ciò stesso privato di ogni strumento di difesa.

Senza contare poi che detta soluzione cozza contro l’esigenza di parità di trattamento delle parti nel processo e contro il principio di economia processuale.

L’impossibilità per il convenuto di modificare la propria domanda secondo quanto previsto all’art. 1453, II comma c.p.c., infatti, imporrebbe al medesimo - nell’ipotesi in cui il primo giudizio terminasse con la condanna all’adempimento - di affrontare un nuovo processo per far accertare che la cosa è già stata trasferita a terzi o che è gravemente viziata.

Stante quanto sopra, a parere di chi scrive, appare più equo e maggiormente rispondente ai predetti principi, ritenere che lo ius variandi non sia prerogativa del solo contraente fedele, ma possa essere esercitato, in presenza di determinati requisiti, da entrambe le parti in causa101.

Ciò, ovviamente, presuppone che il convenuto abbia chiesto in via riconvenzionale l’adempimento dell’attore e non si sia limitato a chiedere il rigetto della domanda attorea, nel qual caso la domanda di risoluzione sarebbe sì una domanda riconvenzionale nuova, non collegata ad una precedente domanda di adempimento102. Vero è forse che il convenuto che chieda in via riconvenzionale l’altrui adempimento assumendo una condotta processuale attiva e non si limiti ad un comportamento

101

Nel senso del testo SICCHIERO, op. cit., p. 310 ss. 102

meramente difensivo si trasforma, perlomeno da un punto di vista sostanziale, in un “attore in riconvenzionale” con conseguente pacifica applicazione dello ius variandi di cui all’art. 1453 c.c.