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Ai sensi dell’art. 1453, II comma, seconda parte c.c., “non può più chiedersi

l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione”.

Ciò significa che la proposizione della domanda di risoluzione produce l’effetto di precludere al creditore la possibilità di chiedere l’adempimento.

Si afferma, tradizionalmente – ed in ciò sembra esservi il consenso sia della dottrina che della giurisprudenza - che la norma è posta preminentemente a tutela dell’interesse del soggetto nei cui confronti si agisce in risoluzione128.

La stessa giurisprudenza di legittimità ha sancito che “la norma di cui al 2° comma, art.

1453 c.c., che pone il divieto di chiedere l’adempimento del contratto quando è già stata domandata la risoluzione”, è posta “nell’interesse della parte inadempiente”129. Ciò in quanto la reversibilità condurrebbe ad un eccessivo aggravamento della posizione del debitore, il quale dovrebbe tenersi pronto ad adempiere per un tempo indefinito. Al contrario, per effetto del carattere irreversibile della scelta effettuata dal creditore, il contraente inadempiente, considerando decaduto l’interesse dell’altro contraente all’adempimento, non si terrà più pronto ad adempiere e potrà, pertanto, offrire aliunde la prestazione non eseguita, preparandosi, al tempo stesso, a sopportare il risarcimento del danno, organizzando le proprie forze ed attività in tale direzione.

Alla giustificazione di cui sopra si è aggiunto che il contraente non inadempiente

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Sul fatto che l’irreversibilità sia posta a tutela dell’interesse del debitore concorda la dottrina. Così, ad esempio, SACCO, Il contratto, cit., p. 650; DALMARTELLO, op. cit., p. 140; da ultimo DELLACASA,

Inattuazione e risoluzione, cit., p. 225.

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potrebbe approfittare della possibile reversibilità della scelta effettuata e speculare sulle fluttuazioni del mercato successive alla domanda di risoluzione; si pensi, ad esempio, ad un improvviso ed inaspettato aumento di valore della merce acquistata e non ricevuta130, ciò che potrebbe far rinascere l’interesse del creditore al contratto, allettato dalla possibilità di rivendita del bene e, quindi, di maggior guadagno.

Per tale via si verificherebbe un nuovo interesse, non tanto alla prestazione in sé considerata, quanto piuttosto alla possibilità di lucrare sulla medesima.

Il divieto in parola pare ulteriormente rafforzato dal III comma dell’art. 1453 c.c. che impedisce al contraente inadempiente di eseguire la propria prestazione successivamente alla domanda di risoluzione. Detto comma, è stato giustamente osservato131, opera in due direzioni opposte: se da un lato fonda la legittimità del rifiuto dell’attore di ricevere la prestazione perché “il creditore, manifestando la volontà di

sciogliersi dal rapporto, intende con ciò essere legittimato a procurarsi altrove, ove necessario, la prestazione inutilmente attesa”132, dall’altro dimostra come il contraente infedele sia libero, dopo quel momento, di utilizzare altrimenti la prestazione dovuta e la propria capacità economica.

Il principio del favor debitoris, a sua volta, sembra trovare la propria ratio nell’esigenza di certezza delle posizioni giuridiche; l’impossibilità di cambiare il proprio modo di agire, infatti, sicuramente garantisce maggiore sicurezza in quanto le parti restano “ancorate” al momento iniziale del procedimento a prescindere da qualsiasi accadimento posteriore.

Il medesimo principio pare potersi ricondurre, in ultima analisi, anche al principio dell’affidamento, inteso come convinzione in capo al debitore della carenza d’interesse del creditore alla continuazione del rapporto contrattuale e, quindi, come convinzione

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In tal senso CARNEVALI Della risoluzione per inadempimento, op. cit., p. 81.

131

SICCHIERO, op. cit., 261. 132

della libera disponibilità della propria prestazione133.

Convinzione originata dalla scelta del contraente non inadempiente di chiedere lo scioglimento del vincolo contrattuale con la perdita definitiva della prestazione non eseguita.

Se così fosse, se cioè si partisse dal presupposto che alla base del divieto vi è la tutela dell’interesse del debitore allo scioglimento del vincolo contrattuale, allora, di fronte al mutamento della domanda da parte del creditore, al debitore non spetterebbe che sollevare la relativa eccezione, senza onere di provare il motivo che vi sta alla base134. Sennonché, se l’irreversibilità viene fatta dipendere esclusivamente dall’affidamento del debitore nella risoluzione del contratto, si rischia di giungere ad un impasse nell’ipotesi in cui detto affidamento di fatto manchi.

Si pensi, ad esempio, al caso in cui il debitore neghi il proprio inadempimento o chieda, comunque, l’adempimento della controprestazione, dimostrando, per ciò stesso, di avere ancora interesse alla continuazione del rapporto. Se così è, l’irreversibilità rischia di rimanere priva di fondamento, o, meglio, finisce con l’essere giustificata solo in

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Con il ricorso al principio dell’affidamento viene perlopiù giustificata anche la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione.

Ed infatti, nessun affidamento del convenuto merita di essere tutelato qualora egli, fin dal momento della proposizione della domanda, sia a conoscenza del fatto che l’attore ha conservato l’intenzione di ottenere, ancorché in via subordinata, l’esecuzione del contratto.

Affinché ciò accada le due domande devono essere proposte contestualmente, vale a dire nello stesso atto, di modo tale che si tratti di due domande distinte, ancorché coeve dal punto di vista cronologico; diversamente ritornerebbe ad avere vigore il principio della irreversibilità di cui all’art. 1453, 2° comma c.c. come si ritiene accadere nell’ipotesi in cui la domanda di adempimento venga proposta esplicitamente solo al momento della precisazione delle conclusioni.

L’ammissibilità viene giustificata anche con l’interesse dell’attore a proporre le due domande in via gradata nell’ipotesi in cui il Giudice, non ritenendo l’inadempimento sufficientemente grave ai sensi dell’art. 1455 c.c., rigetti la domanda di risoluzione. Fra le tante, in tal senso, Cassazione, 9 dicembre 1988, n. 6672; Cassazione, 26 agosto 1986, n. 5235; Cassazione, 11 maggio 1996, n. 4444 in La Nuova

Giurisprudenza Civile Commentata, I, 1997, p. 742 ss. con nota di CUBEDDU, Divieto di domanda di

adempimento e interesse del creditore. La prima sentenza ad esprimersi affermativamente sulla questione

fu Cassazione, 22 ottobre 1955, n. 3429 in Giurisprudenza Italiana, 1956, I, 1, p. 481 con nota di AULETTA Domanda di risoluzione e domanda di adempimento (in via principale e in via subordinata e

questioni sull’importanza dell’inadempimento).

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presenza di un affidamento135.

In altri termini, partendo da tale assunto, si può giungere ad affermare che la regola posta dall’art. 1453, II comma, II parte c.c. non risulta sempre dotata di una propria

ratio sostanziale, ovvero si può inferire che la preclusione, in quanto fondata

sull’affidamento, opera solo in sua presenza.

Per tale via si apre, quindi, il primo varco verso il riconoscimento di una possibile portata limitata del divieto.

A detta soluzione è giunta, presumibilmente in maniera inconsapevole, sin da un’epoca oramai lontana, una parte della giurisprudenza, la quale ha ritenuto che fosse onere del convenuto provare il proprio interesse ad avvalersi dell’eccezione di preclusione in conformità delle ragioni che hanno ispirato la formulazione della norma136.

In altri termini, già in epoca risalente si era giunti ad affermare che la preclusione, in quanto posta nell’interesse del debitore, opera solo quando esso sussiste e a condizione che il debitore ne provi l’esistenza137.

Ne deriva che l’impossibilità di mutare la richiesta di risoluzione in richiesta di adempimento rischierebbe di pregiudicare chi invece si pretendeva di tutelare anche se dalla norma non traspare assolutamente l’onere del debitore di provare l’interesse ad avvalersi dell’eccezione.

In aderenza a quanto sopra e nel tentativo di dare al divieto una giustificazione più ampia e comprensiva, si è aggiunto che esso troverebbe la propria ragion d’essere nel principio della buona fede intesa in senso oggettivo.

Così, secondo una recente Cassazione “alla luce del principio di buona fede oggettiva,

il comportamento del contraente che chieda incondizionatamente la risoluzione è

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In senso critico rispetto al principio dell’affidamento si pone CONSOLO, Il processo nella risoluzione

del contratto per inadempimento, in Rivista di diritto civile, I, 1995, p. 316.

136

Così già Corte d’Appello di Torino, 17 febbraio 1947 in Foro Padano, 1947, col. 304. 137

In senso contrario all’onere del debitore di provare il proprio interesse alla risoluzione MIRABELLI, I

valutato dalla legge come manifestazione di carenza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva”138.

Ciò a significare che l’irreversibilità altro non sarebbe se non la codificazione del dovere di correttezza che deve guidare le parti, creditore e debitore, nel loro rapporto contrattuale, a partire dalle trattative fino a ricomprendere l’esecuzione del contratto139. Ancora una volta, quindi, alla base della norma si delineano quei principi di carattere sostanziale che governano la materia contrattuale e che, in quanto tali, contribuiscono a giustificare la natura sostanziale della disposizione normativa contenuta al II comma dell’art. 1453 c.c.

Ne consegue, come meglio si vedrà, che la stessa connotazione sostanziale che si è attribuita alla prima parte del comma II della norma e, quindi, allo ius variandi, si potrà riconoscere anche alla sua seconda parte.

Ne consegue che la provata struttura sostanziale gioca un ruolo primario anche nell’individuazione degli eventuali limiti all’operatività del divieto.