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La domanda di adempimento subordinata a quella di risoluzione

Vero è che la norma, proprio per la sua genericità, a seconda dell’interesse che si individui alla sua base e che si ritenga, per l’effetto, dalla medesima tutelato, si presta ad interpretazioni diverse se non addirittura contrastanti.

Si impone allora, all’evidenza, la ricerca di una soluzione che concilii, per quanto possibile, le diverse visioni del divieto.

Una prima ipotesi di conciliazione delle opposte esigenze è ravvisabile qualora la domanda di adempimento venga proposta nel medesimo processo, ma in via subordinata al rigetto di quella di risoluzione157.

Sebbene a tale affermazione si possa facilmente obiettare che essa forza il dato normativo, in verità la forzatura non è più pesante di quella cui giungono inevitabilmente le altre teorie.

Anzi, a ben vedere, probabilmente non vi è neppure alcuna forzatura del dato normativo, posto che il divieto riguarda l’ipotesi in cui l’attore proponga in primis l’azione di risoluzione e decida poi, in un secondo momento, di mutare la domanda così come introdotta, manifestando, per ciò stesso, di aver cambiato i propri interessi ed esigenze.

Diversamente, nell’ipotesi prospettata entrambe le domande sussistono e coesistono, sebbene alternativamente, fin dall’inizio del giudizio.

Vi è di più. La soluzione de qua appare perfettamente in linea anche con la ratio della disposizione quale formulata nella Relazione al Codice: così agendo, infatti, l’attore

157

L’opinione, in passato contrastata, appare ora ammessa dalla prevalente giurisprudenza e dottrina. In giurisprudenza: Cassazione, 19 gennaio 2005, n. 1077; Cassazione, 28 gennaio 2000, n. 962; Cassazione, 4 dicembre 1999, n. 13563; 29 aprile 1998, n. 4361; Cassazione, 9 febbraio 1995, n. 1457. In dottrina, dopo le prime contestazioni da parte di MOSCO, op. cit., p. 241, si vedano, tra gli altri: CONSOLO, op. cit.,

p. 322; GIORGIANNI, In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, cit.; DELLACASA,

dimostra ab initio di avere ancora interesse al contratto per il caso in cui il giudice dovesse concludere per la non risoluzione del medesimo158.

L’opinione ha trovato l’avallo della stessa giurisprudenza di legittimità la quale ha recentemente affermato che “Il principio dell'inammissibilità della domanda di

adempimento proposta successivamente a quella di risoluzione (art. 1453 c.c.) deve ritenersi applicabile alla duplice condizione: 1) che la domanda di risoluzione sia stata proposta senza riserve, in quanto, alla luce del principio di buona fede oggettiva, il comportamento del contraente che chieda incondizionatamente la risoluzione è valutato dalla legge come manifestazione di carenza di interesse al conseguimento della prestazione tardiva - sicché l'esercizio dello "ius variandi" deve, per converso, ritenersi consentito quando la domanda di risoluzione e quella di adempimento siano proposte nello stesso giudizio in via subordinata; 2) che esista un interesse attuale dell'istante alla declaratoria di risoluzione del rapporto negoziale - di talché, quando tale interesse venga meno per essere stata la domanda di risoluzione rigettata o dichiarata inammissibile, la preclusione "de qua" non opera, essendo venuta meno la ragione del divieto di cui al ricordato art. 1453 c.c.” 159.

Tralasciando per ora la condizione sub 2 di cui ci si occuperà in prosieguo, non paiono esservi dubbi sul fatto che la proposizione della domanda di adempimento subordinatamente a quella di risoluzione evidenzi ab initio il perdurare dell’interesse del creditore nel contratto, impedendo, per ciò stesso, il formarsi di qualsiasi affidamento in capo al debitore convenuto, il quale potrà, pertanto, apprestare fin da subito i mezzi necessari per l’esecuzione della prestazione160.

158

L’osservazione è di SICCHIERO, op. cit., p. 278. 159

Cassazione, 19 gennaio 2005, n. 1077. 160

O meglio, forse, i mezzi necessari per completare l’esecuzione, non per l’adempimento integrale, posto che, come si è correttamente osservato, in tal caso si sarebbe di fronte ad un inadempimento totale e, quindi, grave (salvo il caso, ovviamente, in cui la contestazione riguardi l’imputabilità dell’inadempimento o l’effettivo adempimento o, ancorala gravità del ritardo). Così SICCHIERO, op. cit., p. 279.

Che l’esigenza di ricercare una soluzione “di mezzo” sia reale, balza agli occhi se solo si considera la gravità della conseguenza cui si perverrebbe nel caso in cui il giudice respingesse la domanda di risoluzione, ritenendo non grave il ritardo, senza che, ciononostante, il ritardatario decidesse spontaneamente di adempiere.

Al creditore sarebbe, per ciò stesso, preclusa ogni iniziativa, con la conseguenza di trovarsi “prigioniero” di un contratto che, seppure ancora esistente, sarebbe vincolante solo nei suoi confronti, trovandosi la controparte nella assoluta libertà di decidere se adempiere o meno.

Siffatto corollario giustifica l’atteggiamento talora assunto dalla giurisprudenza, la quale, nonostante il divieto espresso di adempimento spontaneo contenuto nell’art. 1453, terzo comma c.c., ritiene che la gravità dell’inadempimento debba essere valutata nella sua globalità temporale, vale a dire anche per il tempo successivo alla proposizione della domanda giudiziale161.

Trattasi di un orientamento improntato ad esigenze di equità in cui la valutazione del persistere dell’inadempimento successivo alla domanda di risoluzione, nonostante la prestazione non sia giuridicamente più eseguibile, è considerata necessaria proprio al fine di consentire un giudizio sulla gravità dell’inadempimento che comprenda anche il ritardo successivo ed evitare, per l’effetto, una pronuncia di rigetto della risoluzione che mal si concilierebbe con l’impossibilità di agire per ottenere l’esecuzione del contratto. Lo stesso effetto si otterrebbe, evitando la palese violazione del terzo comma dell’art. 1453 c.c., anche mediante la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata sul ritardo successivo a quello oggetto della richiesta respinta, da proporsi, tuttavia, in

161

Così Cassazione, 8 marzo 1988, n. 2346 secondo la quale “l’indagine sull’importanza

dell’inadempimento, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., deve essere unitaria, in relazione a tutto il comportamento del debitore, desumibile dalla durata della mora e dal suo probabile protrarsi in corso di causa”. In senso contrario, tuttavia, Cassazione, 15 giugno 1989, n. 2879.

un nuovo processo, con conseguente spreco di economie e risorse162.

Per superare detta empasse ecco allora riproporsi la tesi dinnanzi formulata, la quale consente, da un lato, di “salvare” il dettato dell’ultima parte del secondo comma dell’art. 1453 c.c. - in quanto il divieto di ius variandi può essere letto nel senso di impedire che la domanda di risoluzione si trasformi in quella di adempimento, ma non che queste siano contestuali sebbene subordinate - dall’altro, di rispettare il divieto contenuto nell’ultimo comma della stessa norma.

Nessuna obiezione sembra potersi muovere alla tesi de qua per il fatto che l’interesse del contraente infedele alla propria liberazione verrebbe in tal modo compromesso, posto che tale risultato è dovuto in parte al suo inadempimento ed in parte alle sue contestazioni sulla scarsa gravità dell’inadempimento medesimo163.

L’unico limite che pur la soluzione in rassegna incontra, è il fatto di basarsi pur sempre sull’accortezza del creditore di agire fin da subito, oltre che per la risoluzione, anche per ottenere l’adempimento del contratto.

Con la conseguenza che il contraente non inadempiente subirà tutte le conseguenze derivanti dal suo comportamento poco accorto.

Qualora ciò dovesse accadere gli resterà pur sempre la possibilità di agire per l’adempimento in un giudizio successivo posto che, secondo l’opinione dominante, il divieto di ius variandi opera fintantoché si rimane nell’ambito del medesimo giudizio.