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I rapporti tra domanda giudiziale di risoluzione e richiesta sostanziale di adempimento nel corso del processo

Quid iuris invece nell’ipotesi in cui durante la pendenza del giudizio intrapreso dal

creditore per ottenere la declaratoria di risoluzione, l’attore decida di inoltrare al debitore una diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c.?

Il creditore, esasperato dalle lungaggini del procedimento o avendo avuto sentore di un’eventuale disponibilità del debitore all’adempimento - considerato anche il divieto di cui al comma 3 dell’art. 1453 c.c. - potrebbe decidere di tentare di ottenere stragiudizialmente l’esecuzione del contratto, comunicando al debitore la possibilità di adempiere e la propria disponibilità ad accettare l’adempimento nel termine indicato nella diffida.

I quesiti che la fattispecie pone sono in realtà due: in primo luogo ci si chiede se sia ancora possibile per il creditore, dopo aver manifestato il proprio disinteresse alla prestazione ed avere, per ciò stesso, ingenerato un certo affidamento nel debitore, cambiare idea nel corso del processo e pretendere l’adempimento, sia pure in via

sostanziale, con l’invio di una diffida ad adempiere in un congruo termine.

In secondo luogo ci si chiede se in caso di perdurare dell’inadempimento, il creditore possa sostituire alla domanda di risoluzione giudiziale quella di risoluzione stragiudiziale.

Gli aspetti da considerare sono invero molteplici ed a favore dell’una o dell’altra soluzione intervengono argomentazioni di carattere diverso, ora di tipo sostanziale, ora di tipo processuale.

Si ritiene che nella trattazione dell’argomento non si possa prescindere dal punto da cui la presente analisi ha avuto inizio, vale a dire dal divieto di ius variandi di cui al comma II, 2^ parte dell’art. 1453 c.c. che, come sopra visto, impedisce al creditore di sostituire la domanda di adempimento a quella di risoluzione nel corso del medesimo processo. Ciò detto, occorre prendere le mosse dalla considerazione che prima facie nulla sembra impedire al creditore di rinunciare alla domanda di risoluzione durante il giudizio. Si tratterebbe di una rinuncia unilaterale ad un effetto che, dato il carattere costitutivo della sentenza di risoluzione, non si è ancora prodotto.

La rinuncia avrebbe invero natura meramente abdicativa e non sortirebbe alcun effetto nella sfera giuridica della controparte; proprio tale carattere, secondo il costante orientamento della giurisprudenza sia di legittimità che di merito, giustificherebbe la non necessità dell’accettazione dell’altro contendente194.

Da tale punto di vista non sembrano esservi dubbi all’ammissibilità di una mera rinunzia alla domanda di risoluzione al pari di qualsiasi altra domanda, a condizione, tuttavia, che la rinuncia non nasconda un “meccanismo surrettizio di sostituzione vietata

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Così secondo Cassazione, 10 settembre 2004, n. 18255, secondo la quale “la rinuncia all’azione,

diversamente dalla rinuncia agli atti del giudizio, non richiede l’accettazione della controparte, estingue l’azione, determina la cessazione della materia del contendere e, avendo l’efficacia di un rigetto, nel merito, della domanda, comporta che le spese del processo devono essere poste a carico del rinunciante”; nello stesso senso, Tribunale Milano, 19 febbraio 2008, n. 2075 in Giustizia a Milano,

2008, 2, p. 15 (massima); Tribunale Torino, 9 marzo 2006 in Guida al diritto, 2006, 30, p. 62; Cassazione, 4 febbraio 2002, n. 1439.

della domanda di adempimento a quella di risoluzione”195.

La questione infatti si complica se l’obiettivo del creditore non è la rinuncia alla risoluzione sic et simpliciter, ma l’ottenimento della prestazione oggetto del contratto, poiché in tal caso la sua intenzione viene a scontrarsi con altri contrapposti interessi di cui occorre tener conto.

Si dia il caso che il contraente non inadempiente, dopo aver rinunciato all’azione, comunichi alla controparte la propria intenzione di esigere la prestazione, diffidandolo ad adempiere in un congruo termine.

L’ammissibilità della richiesta sostanziale di adempimento deve essere allora vagliata alla luce del divieto di ius variandi di cui alla seconda parte del comma 2 dell’art. 1453 c.c.

Come si è visto, il divieto de quo opera fintantoché il giudizio originariamente instaurato rimane pendente e ciò vale non solo nell’ipotesi in cui la richiesta di adempimento venga introdotta utilizzando strumenti di tipo processuale, vale a dire sostituendo la domanda di risoluzione contenuta nell’atto di citazione con la domanda di adempimento, ma anche qualora la richiesta di adempimento venga presentata al di fuori del processo pur in corso tra le parti, utilizzando quegli strumenti di tipo sostanziale che l’ordinamento mette a disposizione del creditore.

Ciò che conta al fine del venir meno dell’operatività del divieto è che il giudizio termini, lasciando impregiudicata l’esistenza del vincolo contrattuale e, conseguentemente, tutti gli effetti che da esso promanano, ivi compresa la possibilità di esigere l’esecuzione

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Il virgolettato è di SICCHIERO, Indisponibilità dell’effetto risolutivo stragiudiziale del contratto in commento alla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 14 gennaio 2009, n. 553 in Giurisprudenza

italiana, V, 2009, p. 1119, nel quale l’autore si occupa, tra l’altro, della differenza tra la rinuncia alla

domanda di risoluzione e la rinuncia alla diffida ad adempiere, la quale consisterebbe, fondamentalmente nel fatto che nel primo caso si rinunzierebbe ad un effetto non ancora prodottosi, mentre nel secondo si rinuncerebbe ad una situazione che ha già prodotto i propri effetti nella sfera giuridica della controparte. Proprio per questo motivo secondo l’autore la diffida ad adempiere non sarebbe più rinunciabile una volta giunta al destinatario. Nel senso invece della rinunziabilità degli effetti della diffida ad adempiere, ancorché già prodottisi, si veda, da ultimo, Cassazione, 8 novembre 2007, n. 23315.

dell’accordo.

Così non sembrano esservi dubbi che, una volta rinunciato alla domanda di risoluzione e, quindi, cessata la materia del contendere come afferma la Suprema Corte, il contratto riprenda tutto il suo originario vigore, ivi compresa la possibilità di richiedere l’adempimento.

Analogamente a quanto accade qualora il processo termini con una sentenza di rigetto nel merito o nel rito della domanda o, comunque, si interrompa a seguito della rinunzia agli atti del giudizio196.

Ne consegue che la diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. potrà considerarsi ammissibile a condizione che il creditore che intende avvalersene abbia già rinunziato a far valere l’azione nell’ambito del giudizio precedentemente instaurato.

E’ pur vero che la suddetta rinuncia, contrariamente alla rinuncia agli atti del giudizio, non richiede forme solenni, potendo essere anche tacita, né richiede l’accettazione della controparte, ma è anche vero che essa, in quanto rinuncia al diritto sostanziale sottostante, determina l’estinzione del processo e la conseguente cessazione della materia del contendere, precludendo ogni successiva tutela giurisdizionale dell’inadempimento pregresso.

Solo il nuovo inadempimento eventualmente posto in essere dal debitore diffidato consentirà allora al creditore di intraprendere un nuovo giudizio avente ad oggetto l’accertamento dei fatti sopravvenuti.

Diversa è l’ipotesi in cui il creditore si limiti, nel corso del giudizio e senza rinunciare, espressamente o implicitamente, alla domanda di risoluzione, ad inoltrare al debitore una diffida ad adempiere.

A meno di non considerare la stessa diffida ad adempiere alla stregua di una rinuncia tacita all’azione di risoluzione già intrapresa, la stessa dovrà considerarsi inammissibile

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alla luce, in primis, del divieto di ius variandi posto che, come si è più volte detto, ad esso, così come all’intero art. 1453, comma 2 c.c. non può attribuirsi un significato meramente processuale.

Né d’altronde tale carattere sembra potersi far derivare dal solo fatto che alla diffida ad adempiere sia riconosciuto “l’effetto di rimettere in termini il debitore fino alla data

assegnata con la diffida medesima”197.

Ne deriva che la richiesta di adempimento contenuta nella diffida ad adempiere, scontrandosi con il divieto in oggetto, dovrà considerarsi, in quanto tale, priva di qualsiasi effetto giuridicamente rilevante; allo stesso modo l’eventuale rifiuto del debitore di adempiere che ad essa consegua non potrà porsi a fondamento di un nuovo inadempimento, né potrà contribuire ad aggravare quello pregresso.

L’ammissibilità di un’eventuale diffida ad adempiere effettuata senza previa interruzione del giudizio pendente dovrebbe forse negarsi anche alla luce del 3° comma dell’art. 1453 c.c. che impedisce al debitore di adempiere spontaneamente nel corso del processo anche se, a rigore, non di vero adempimento spontaneo dovrebbe parlarsi. Vi è poi un ulteriore argomento che potrebbe far propendere per l’inammissibilità di un’eventuale diffida inoltrata nel corso del processo.

A ben vedere essa potrebbe essere utilizzata dal creditore come strumento per sostituire durante il giudizio, pur senza rinunciare ad esso, all’originaria domanda di risoluzione giudiziale, la più circostanziata domanda volta al mero accertamento dell’intervenuta risoluzione di diritto del contratto conseguente all’inadempimento del debitore successivo alla ricezione della diffida.

In altri termini la diffida ad adempiere potrebbe aprire la strada ad una vera e propria

mutatio libelli, quale viene considerato, prevalentemente, il passaggio dalla risoluzione

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giudiziale a quella stragiudiziale198.

Correttamente si osserva al riguardo che la modifica della domanda non dipende dal carattere costitutivo della prima e meramente dichiarativo della seconda, quanto piuttosto dal fatto che l’accertamento dell’intervenuta risoluzione di diritto del contratto presuppone da parte del giudice la valutazione di fatti ulteriori (la comunicazione della diffida ad adempiere, il contenuto della stessa ecc.) che non erano stati oggetto di accertamento nell’ambito della risoluzione giudiziale199.

Anche in tal caso sarà pertanto onere del creditore agente, per evitare di incorrere in preclusioni, domandare, subordinatamente alla risoluzione ex art. 1453 c.c., anche la risoluzione ex artt. 1454, 1456 o 1457 c.c.