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Le singole fattispecie di non operatività dell’effetto preclusivo dopo il processo

La prima ipotesi in cui si ritiene che l’effetto preclusivo non operi, è il rigetto nel merito della domanda di risoluzione. Nel caso in cui, ad esempio, il giudice, pur constatando l’inadempimento, lo abbia considerato non grave, è facile pensare che la successiva azione di manutenzione possa essere esercitata, posto che in siffatta ipotesi è venuto a mancare uno dei presupposti su cui si fondava l’originaria domanda di risoluzione.

In tale direzione si può ritenere che successivamente al rigetto sia possibile non solo l’azione di adempimento, ma anche una nuova richiesta di risoluzione, qualora l’inadempimento, inizialmente non grave, sia divenuto importante nelle more del nuovo giudizio171.

Lo stesso può dirsi nel caso in cui l’inadempimento sia stato giudicato non imputabile, essendo anche in tale ipotesi venuto a mancare uno dei presupposti su cui poggiava la domanda di risoluzione.

Ad ammettere il successivo esercizio della domanda di adempimento si può giungere anche attraverso la considerazione che il creditore, una volta ritenuto dal giudice inesistente il suo diritto di chiedere la risoluzione per la mancanza dei requisiti richiesti

confronti” Si vedano anche, nello stesso senso, Cassazione, 18 gennaio 1984, n. 417; Cassazione, 23

novembre 1979, n. 6134. 170

Cfr. Cassazione, 25 novembre 1983, n. 7078; Cassazione, 24 maggio 1976, n. 1874 in Giurisprudenza

Italiana Rep. 1976 voce Obbligazioni e contratti n. 243.

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Il problema, solitamente analizzato con esclusivo riferimento all’art. 1453 c.c., in verità può porsi anche nelle ipotesi di risoluzione di diritto, qualora il giudice sia chiamato ad accertare la sussistenza dei requisiti per lo scioglimento del contratto. Ciò vale innanzitutto con riferimento alla diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c. in cui il giudice deve comunque valutare l’importanza dell’inadempimento, ma anche con riguardo alle fattispecie di cui agli artt. 1456 e 1457 c.c. In tutti i casi suddetti nulla impedisce che il controllo giudiziario si concluda con l’accertamento della mancanza dei requisiti per la risoluzione con conseguente piena reviviscenza del vincolo contrattuale. Si pone la questione anche GIORGIANNI, In

per legge, non può rimanere vincolato ad una scelta che in verità non gli competeva. In tal caso il debitore successivamente convenuto per l’adempimento non verrebbe lasciato all’assoluta mercé del creditore, potendo contrastare la richiesta avversaria ed evitare così una sentenza di condanna, provando la sopravvenuta impossibilità della prestazione medio tempore verificatasi, causata, eventualmente, dalle lungaggini delle vicende processuali172.

A ciò si aggiunga che il rigetto della domanda di risoluzione rende per ciò stesso inadempiente il creditore che non abbia ancora eseguito la propria prestazione, il quale, pertanto, agendo per l’adempimento, si espone al rischio di una domanda riconvenzionale di risoluzione173.

Nel caso in cui la domanda venga rigettata in rito, ad esempio perché il giudice si è dichiarato incompetente, senza, pertanto, occuparsi del merito della causa, il possibile esercizio dell’azione di adempimento appare più controverso.

Al riguardo si è evidenziato che in siffatta ipotesi permane un’incertezza assoluta circa la sussistenza dei requisiti per lo scioglimento del contratto; si è sottolineato, inoltre, come detta incertezza dipenda dal comportamento poco accorto ed attento del creditore agente. Date tali premesse qualche autore174 ha ritenuto di non poter addossare al debitore le conseguenze del comportamento negligente del creditore, con la conseguenza di ritenere non esperibile una successiva azione di adempimento.

Ci sembra questa, ci sia consentito, una valutazione che, se anche permeata di una propria sostanziale giustizia e di un certo buon senso, pretende di ricavare troppo dal comportamento del creditore, il quale, per di più, potrebbe aver subito la scelta errata

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Così anche DELLACASA, Inattuazione e risoluzione, cit., p. 237. 173

Secondo la Suprema Corte qualora ciò accadesse e il creditore, offrendo a distanza di tempo la prestazione di cui è a sua volta debitore, esigesse anche la controprestazione, potrebbe vedersi eccepire a ragione anche in sede stragiudiziale la gravità del ritardo con cui l’offerta è stata effettuata. Così Cassazione, Sez. Unite, 6 giugno 1997, n. 5086.

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del proprio legale.

Vero è, piuttosto, che, in presenza di un rigetto nel rito, la situazione rimane del tutto immutata (salvo il caso, ovviamente, di un sopravvenuto adempimento), ragion per cui, oltre a poter esercitare nuovamente l’azione di risoluzione, si ritiene che nulla vieti al creditore di proporre la domanda di adempimento.

Ad analoga conclusione si può giungere in caso di rinunzia agli atti del giudizio o, in generale, in caso di sua estinzione.

In caso di rinuncia tale risultato appare ulteriormente giustificato dal fatto che essa richiede, ex art. 306, I comma c.p.c., l’accettazione delle “parti costituite che

potrebbero aver interesse alla prosecuzione”.

Va da sé che il convenuto, reso edotto della rinuncia della controparte, può accettarla o meno, ma se l’accetta e acconsente a che il giudizio si estingua, potrà facilmente intuire l’interesse dell’attore alla permanenza in vita del vincolo contrattuale con tutte le conseguenze che possono derivarvi, ivi compresa la domanda volta ad ottenerne l’adempimento.

Né può condividersi l’opinione175 secondo la quale, in caso di estinzione del processo, permarrebbe l’effetto della dichiarazione implicita contenuta nella domanda di risoluzione, posto che alla domanda in quanto tale non possono riconoscersi effetti che vanno oltre il processo cui ha dato vita e che è successivamente terminato.

Ciò anche se, come chiarito dall’art. 310, I comma c.p.c., l’estinzione del processo non estingue l’azione, in quanto rimane impregiudicato il diritto sostanziale dedotto in giudizio.

Ne consegue che ciò che resta in vita dopo l’estinzione del giudizio non è la domanda, bensì il diritto che in quel giudizio non ha potuto trovare risposta per essersi concluso senza alcun pronunciamento.

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La giurisprudenza, sempre partendo dal presupposto del venir meno dell’interesse del creditore allo scioglimento del contratto, si è spinta oltre, ritenendo che ciò possa verificarsi non solo in presenza di una circostanza oggettiva, quale potrebbe essere il rigetto nel merito o in rito della domanda, ma anche in presenza di un fatto soggettivo quale la rinuncia implicita alla domanda di risoluzione176.

In verità, più che nelle ipotesi di ricorrenza delle circostanze oggettive anzidette, il venir meno dell’interesse del contraente fedele alla risoluzione si vede proprio in presenza di fatti strettamente soggettivi quali l’abbandono nel corso del giudizio della domanda già formulata.