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Le ragioni giustificatrici della reversibilità

Cominciando ad addentrarci nel tema specifico del presente studio, è giunto il momento di analizzare le cause giustificatrici e i limiti di quanto disposto dal 2° comma dell’art. 1453 c.c. in relazione al mutamento della domanda giudiziale proposta.

Lo scopo, come già preannunciato, è di vagliarne la solidità e la fondatezza.

L’analisi non può che partire dalla prima parte della norma de qua, afferente la reversibilità della richiesta di adempimento.

I motivi che hanno guidato il legislatore in tale scelta coincidono sostanzialmente con le ragioni che già sotto il vigore del Codice del 1865 avevano indotto dottrina e giurisprudenza, nel silenzio della legge, a riconoscere il carattere reversibile della scelta nell’ipotesi in cui il creditore avesse inizialmente agito per ottenere l’adempimento del contratto.

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Si è affermato che la scelta rimarrebbe reversibile fintantoché l’adempimento non sia stato integralmente attuato; la semplice offerta reale della prestazione, se non accettata, non è di per sé sufficiente, qualora non comprenda anche il risarcimento del danno da ritardo e le spese processuali (Cassazione, 7 luglio 1987, n. 5902, Arch. civ., 1988, p. 45).

In primis, va sicuramente citata l’esigenza di tutela del creditore di fronte alla

persistente inadempienza del debitore convenuto per l’adempimento.

Infatti, il perdurante comportamento omissivo del debitore non fa altro che peggiorare la sua posizione, sino a giustificare la perdita di interesse ad ottenere l’adempimento da parte del creditore.

Tale perdita di interesse, dal canto suo, induce a ritenere che l’unica via percorribile nella tutela creditoris sia il passaggio dall’adempimento alla risoluzione.

La perdita dell’interesse all’adempimento può essere collegata a tutta una serie di eventi contingenti quali, a titolo meramente esemplificativo, la perdita della capacità di adempiere, personale od economica, del debitore o i cambiamenti tecnologici relativi ai beni ad alto contenuto innovativo, tali da renderli inutilizzabili o, comunque, da diminuirne il valore; il tutto unito poi alla durata dei giudizi, oramai al di fuori dei limiti della ragionevolezza.

Va da sé che, nel perdurare dell’inadempimento, nessun affidamento meritevole di tutela sussiste in capo al debitore, con la conseguenza che l’unico soggetto da tutelare risulta essere il creditore.

Sotto tale profilo la risoluzione diventa una sorta di extrema ratio a difesa delle ragioni del creditore e si pone perfettamente in linea con il pensiero di quanti riconoscono nella risoluzione un fondamento di sanzione.

Ciò, tuttavia, non può ritenersi sufficiente per aderire alle teorie sul carattere “sanzionatorio” del rimedio, posto che la suddetta mutatio libelli si spiega, come vedremo, anche alla luce delle altre teorie sul fondamento della risoluzione.

Così, non vi sono dubbi che anche la teoria che individua il fondamento della risoluzione nel venir meno della giustificazione causale del rapporto contrattuale, appare coerente con il carattere reversibile della scelta in oggetto.

Nessun ostacolo infatti, né sostanziale né processuale, impedisce al creditore, di fronte ad un rapporto ancora esistente ancorché claudicante, di cambiare idea e di passare dalla richiesta di adempimento a quella di scioglimento del vincolo.

In verità, a parere di chi scrive, il passaggio dalla prima alla seconda domanda appare del tutto svincolato da qualsiasi legame con il fondamento che si voglia riconoscere all’istituto. Vero è che, persistendo l’inadempimento, il rimedio de quo risulta lo strumento più adeguato di fronte ad un rapporto gravemente ed irrimediabilmente compromesso.

Né, ci sia consentito, sembrano esservi motivi per vincolare la parte adempiente alla scelta originaria - fatta in un momento in cui il perdurare del rapporto appariva ancora vantaggioso - impedendole, di fronte alla presa di coscienza della irrimediabilità dell’inadempimento, di cambiare idea chiedendo lo scioglimento del rapporto.

Non vi ostano sicuramente esigenze di tutela della controparte, posto che la medesima, persistendo nel suo inadempimento, non mostra certo di fare affidamento sulla continuazione del rapporto84. Anzi, proprio il suo colposo o doloso inadempimento impedisce di considerarla meritevole di qualsiasi tutela sia sostanziale che giudiziale. Né sembrano essere di ostacolo principi di natura processuale.

Così, ad ulteriore giustificazione della facoltà di passaggio, si è sostenuto che la scelta di chiedere l’esecuzione forzata del contratto, se presuppone la rinuncia implicita del creditore agli effetti risolutori dell’inadempimento precedente, non può, per contro, comportare la rinuncia a far valere tali effetti per l’inadempienza che continua a protrarsi successivamente alla proposizione della domanda85.

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Così anche SMIROLDO, op. cit., p. 311 ss. 85

Così, testualmente, il Tribunale di Ravenna, 8 novembre 1994, secondo il quale “la domanda giudiziale

di inadempimento, anche se vale come rinuncia agli effetti risolventi dell’inadempimento pregresso, non può valere come rinuncia a quelli dell’inadempimento futuro”.

Né, si è giustamente osservato86, sembra esistere un principio di irretrattabilità della scelta compiuta, tale da vincolare l’attore alla propria scelta.

Se così fosse si sortirebbe l’effetto di paralizzare la tutela del creditore, indissolubilmente legato ad una scelta non più adeguata alle sue esigenze di tutela, finendo con il pregiudicare proprio colui che invece si voleva tutelare.

Nessun ostacolo alla citata reversibilità arriva dal principio di eguale tutela delle parti nel processo, posto che, come già ampiamente chiarito, nessuna tutela merita il debitore convenuto che persiste nel suo comportamento inadempiente.

Analogamente nessuna incompatibilità esiste con il principio di economia dei giudizi, di cui, anzi, la norma de qua rappresenta proprio una modalità di espressione, posto che consente di evitare un nuovo processo, con tutti i conseguenti risvolti positivi in termini di risparmio di tempo e di spese.

Tutto ciò con la logica conseguenza che il detto principio di tutela delle ragioni creditorie deve essere ritenuto libero di manifestarsi nei modi che nel singolo caso risultano più adeguati, ivi compreso il passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione.