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L'ANALISI: GLI EDIFICI CASTRENSI E LA MAGLIA CASTELLANA 1 I METODI : UN QUADRO TEORICO

Dopo aver tratteggiato, in prima battuta, i caratteri salienti dell'assetto precastrense della Franciacorta e, in secondo luogo, le nozioni di base sui suoi edifici fortificati noti, il nostro percorso giunge al momento propriamente analitico e, se vogliamo, più “sperimentale”. Superata la “fase dell'inventario”, possiamo ora dispiegare nuovi strumenti per tentare di sintetizzare una nuova qualità di informazioni sull'incastellamento e le dinamiche del popolamento medievale franciacortino. Tuttavia, proprio in virtù della sperimentalità insita in alcune delle nostre proposte analitiche, reputiamo sia necessario fornire al lettore, in qualità di premessa, il quadro teorico all'interno del quale si muoverà questo terzo stadio dell'elaborato. Questa cornice metodologica, se potesse risultare superflua per i cultori della disciplina, tuttavia rappresenterà anche un necessario momento di riflessione, in quanto, delineando metodi e teorie, sarà facile comprendere i limiti della nostra ricerca: questi, piuttosto che essere banalmente citati per scampare eventuali critiche, vengono esposti invece per suggerire eventuali linee future di approfondimento e per fornire stimoli alla discussione.

3.1.1 L'archeologia del paesaggio e la geografia storica

L'archeologia del paesaggio – o landscape archaeology – è quella branca della disciplina archeologica che non si limita allo studio di un singolo sito, ma che spazia al paesaggio nel suo complesso, considerato quindi come il prodotto dell'ambiente naturale e dell'azione dell'uomo in una prospettiva storica: tuttavia, così concepita, l'archeologia del paesaggio è un'acquisizione abbastanza recente all'interno del panorama italiano.

In verità, i primi passi della topografia archeologica furono fatti già nel corso della seconda metà dell'Ottocento, nell'ambito dell'archeologia di stampo positivista. Si

trattava, però, soltanto di una semplice descrizione archeologica dei luoghi, finalizzata all'approntamento di quelle che oggi vengono definite come “carte archeologiche del noto”, ovvero mappature del territorio che riportano anche la localizzazione di siti e rinvenimenti. Si tratta di una tipologia di materiali che hanno tuttora largo corso e che rappresentano degli strumenti di lavoro comunque fondamentali soprattutto in un ambito di tutela, data la rapida visualizzazione, che esse offrono, dell'ubicazione delle evenienze archeologiche all'interno di un'area. Nonostante ciò, il limite principale di questi materiali risiede nella casualità della ricerca che vi è sottesa: i contesti che le carte archeologiche del noto visualizzano, infatti, altro non sono che un insieme di dati quasi sempre reperiti in assenza di una strategia d'indagine, la quale avrebbe invece potuto condurre all'approntamento di una cartografia maggiormente sistematica nella sua elaborazione.

Senza spendere troppe parole sugli antecedenti363, il momento di svolta per

l'Italia è apportato dalle decisive esperienze maturate da John Bryan Ward-Perkins in seno alla British School at Rome nel corso del Secondo Dopoguerra, ma paradigmatico rimane soprattutto il caso di studio offerto dal progetto del “South Etruria Survey”, esempio ancora oggi felice sia per la sistematicità sottesa ad esso sia per la pronta ed esaustiva pubblicazione dei risultati. L'équipe impegnata nel progetto, i cui scopi e strategie furono compendiati in un articolo del 1955, percorse sistematicamente in ricognizione per circa un ventennio i territori circostanti la città di Veio localizzando, censendo e interpretando non solo i monumenti e le strutture più macroscopiche, ma anche tutte quelle concentrazioni di materiali visibili sulla superficie del terreno che potevano essere ricondotte alla presenza di depositi archeologici nel sottosuolo. Lo strumento principe impiegato da Ward Perkins e dalla sua squadra fu, appunto, la ricognizione di tipo archeologico, spesso chiamata con il vocabolo inglese 'survey' anche in Italia, che prevede che una linea di ricercatori, posti a distanze regolari, percorrano parallelamente una direttiva, osservando e documentando le concentrazione di materiali in cui si imbattono364.

363 CAMBI – TERRENATO 1994, pp. 15-33.

La sistematicità e, allo stesso tempo, la semplicità di tale procedura fecero di fatto la fortuna del South Etruria Survey, così come di ogni ricerca di superficie impostata secondo queste modalità: come sarà facile notare, la cartografia così prodotta, proprio perché non limitata alle emergenze archeologiche già note o a carattere monumentale, è un risultato concettualmente molto diverso da quello di una carta archeologica del noto. Dal momento che essa visualizza pure le sole tracce superficiali di potenziali contesti, ancora invisibili all'occhio, la mappatura prodotta dal survey assume un aspetto nuovo, più precisamente predittivo: è proprio in questo che risiede allora il carattere innovativo della cosiddette “carte del potenziale – o del rischio, a seconda delle prospettive – archeologico”. Lo sforzo di questa nuova cartografia, secondo modalità concordi all'archeologia dei paesaggi generalmente intesa, è appunto quello di valutare i singoli depositi in una prospettiva areale, che procede dai siti per attingere una più profonda comprensione dell'intero contesto.

Per fare questo, l'archeologia del paesaggio si è nel frattempo arricchita di nuovi strumenti, che implementano le comprovate potenzialità del survey. Tra queste, val la pena di ricordare l'aerofotointerpretazione, ovvero l'interpretazione delle fotografie aeree, che, insieme ad altre tecniche tutte accomunate dalla caratteristica comune di essere una documentazione rilevata e studiata a distanza (e non a diretto contatto con l'oggetto di studio), rientra nella più generale categoria del remote sensing. Infatti, le fotografie aree, complici le numerose condizioni di ripresa (imputabili di volta in volta a diversi gradi di luminosità, umidità, siccità e di crescita vegetazionale), possono rappresentare un indicativo strumento di lavoro che, come la ricognizione, consente di raccogliere grandi quantità di dati su superfici talvolta enormi con spese contenute.

Inoltre, se ci interessiamo di paesaggi studiati in una dimensione diacronica, l'altra importante cornice teorica degna di menzione è quella fornita dalla branca specifica degli studi geografici denominata “geografia storica”: questa, pur senza dimenticare mai la centralità della morfologia dell'ambiente nelle sue ricerche, rimane un campo del tutto particolare, poiché inserisce la variabile temporale nella dimensione spaziale. Il contributo di questa disciplina allo studio dei fenomeni a carattere spaziale,

calati in un'ottica storica, risiede nello specifico nella concezione sistemica che essa dispiega e che è stata perfettamente descritta dai geografi Jean-Bernard Racine e Henri Reymond365. In una prospettiva di studio sistemico esistono tre stadi di interpretazione

del territorio, a loro volta suddivisi in due passaggi. Il primo è lo stadio definito “elementare”: nel primo momento di esso, si definiscono qualità e quantità degli oggetti di studio per identificare “l'attributo”, che diviene “elemento” dopo aver ricevuto una localizzazione. Nel secondo stadio, quello “funzionalista”, la disposizione di gruppi di elementi forma una “trama”, che può essere compresa come una vera e propria “struttura” dopo aver individuato le interdipendenze tra i diversi elementi. Ad ogni modo, la fase di maggior impegno di uno studio quantitativo geografico è lo stadio “sistemico”, durante il quale l'interpretazione permette di procedere dalla struttura – ovvero, un'entità “immobile” - ad un sistema “in movimento”, poiché individuando le dinamiche di trasformazione di una struttura si mette in luce il “processo”, che di per sé possiede anche un “orientamento” che lo qualifica in quanto sistema. Come si capisce, i nostri “elementi” saranno i singoli castelli, la “struttura” la maglia che risulta dalla loro disposizione e il “sistema” l'obiettivo dichiarato della nostra ricerca.

Per concludere questo breve excursus, ci sembra abbastanza chiaro quale possa essere il primo grande limite dalla proposta che presentiamo. Se pensiamo alle modalità con cui sono stati raccolti i dati sintetizzati nel capitolo precedente (ovverosia, in assenza di progetti di ricerca sistematici e a scala territoriale) e se teniamo a mente, d'altro canto, quanto stabilisce anche il più generico vademecum dell'archeologia dei paesaggi (la sistematicità e l'estensione delle indagini), è abbastanza agevole rilevare che il nostro studio, pur muovendosi nell'ottica propria della landscape archaeology, non potrà di certo aspirare a quella organicità che una vera e propria ricerca di superficie avrebbe garantito. Il nostro tentativo di ovviare a tale limite, pertanto, è stato quello di tenere da conto tutti i dati archeologici noti e, relativamente alle strutture fortificate, pure tutti quelli storiografici in genere. Nondimeno, come vedremo nel paragrafo successivo, nel nostro caso le difficoltà insite nella raccolta dei dati condizionano –