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I NTRODUZIONE : GLI STUDI CASTELLANI NEL B RESCIANO

2. IL CAMPIONE: LE STRUTTURE FORTIFICATE DELLA FRANCIACORTA E DEL BASSO SEBINO

2.1 I NTRODUZIONE : GLI STUDI CASTELLANI NEL B RESCIANO

Il Bresciano, così come la Franciacorta e il Basso Sebino nel dettaglio, sono territori nei quali si intravede una notevole densità di castelli e rocche. Uno studio recente, sul quale avremo modo di ritornare288, ha rilevato per la sola Franciacorta

(un'area che, nel nostro caso, si estende per circa 351 km2) ben quarantasei contesti

fortificati (contando anche le singoli torri): ovvero, una densità teorica – poiché si tratta di strutture riferibili a differenti cronologie e, quindi, non tutte contemporaneamente “in vita” – di circa sette fortificazioni per chilometro quadrato. In effetti, se andiamo a dare una rapida scorsa ai nostri precedenti, si può ben vedere come l'interesse per le strutture castrensi non sia mai stato stato blando, sebbene l'incastellamento inteso come processo sia stato sfiorato solo tangenzialmente.

In diverse cronache coeve ai secoli medievali, ma anche della prima Età moderna, non mancano infatti molteplici riferimenti, utili a scrivere la storia di numerose fortificazioni. Come forse è facile immaginare, nella narrazione di eventi politico-militari non è per nulla episodico il riferimento a torri o castelli, sicché la cronaca di Jacopo Malvezzi (Chronicon Brixianum ab origine urbis ad annum usque

MCCCXXXII, XV secolo) e quella di Elia Capriolo (Chronica de rebus Brixianorum, 1505) rappresentano già un buon materiale su cui lavorare. Non mancano nemmeno descrizioni del Bresciano e del suo paesaggio in epoca veneta, all'indomani della conquista veneziana (sempre se così la si possa definire, visto che la Serenissima si trovò praticamente a patteggiarla col Comune e i suoi cittadini). Il quadro offertoci in questo periodo da Marin Sanudo (Itinerario per la terraferma veneta, 1483), Pandolfo Nassino (Registro di molte cose seguite da d. Pandolfo Nassino, XVI sec.) e da Giovanni da Lezze (Catastico bresciano, 1609-1610) aiuta spesso a far luce sulle vicende che occorsero

ai fortilizi all'indomani della smilitarizzazione del territorio, resasi necessaria quando la campagna tra Brescia e l'Oglio dismise la sua identità di area di frontiera, poiché era ora il contado bergamasco a costituire la propaggine più occidentale del dominio veneziano sulla terraferma.

Al di là degli interessi ottocenteschi, fortemente debitori alle linee folkloriche e locali care alla temperie romantica, potremmo porre un primo importante momento nella riscoperta del patrimonio castellano bresciano innanzitutto negli anni Settanta, sebbene i risultati di questo decennio non siano ovviamente nati “dall'oggi al domani”, ma presuppongano lunghe ricerche, nonché indiscutibili interessi nutriti da tempo. Per Brescia un momento nuovo si apre in maniera decisiva con un'opera che ancora oggi costituisce uno degli ausili indispensabili per ogni ricerca d'argomento castrense, ma non solo, nel panorama locale. È al 1973, infatti, che si data la pubblicazione del primo volume della monumentale opera di Fausto Lechi sulle dimore bresciane lungo un arco di cinque secoli. Sebbene la maggior parte di questa si occupi – come dice il titolo – di dimore signorili (ovverosia, palazzi) tra il Quattrocento e il primo Ottocento, il volume iniziale è interamente dedicato ai castelli289. L'importanza del volume di Lechi, a nostro

giudizio, non risiede però soltanto nell'essere tuttora un punto di riferimento nella trattazione del tema: l'incidenza di quest'opera sugli studi successivi è forse data soprattutto dall'essere la prima trattazione sistematica di questi tipi edilizi, condotta in una forma molto simile a quella del catalogo. Il carattere onnicomprensivo e immediatamente funzionale normalmente attribuito alla catalogazione generalmente intesa può, del resto, aver fatto sì che altri studiosi considerassero ormai acquisito il grosso del lavoro di studio sui castelli.

Sarà forse un caso, ma le altre esperienze “ad ampio raggio” maturate in questo ambito non sono mai andate molto più in là in quanto a modalità e prospettive. Rivolgendosi principalmente ad un pubblico di non specialisti, Giusi Villari pubblicò nel 1989 un nuovo catalogo che, da quello del Lechi, si differenziava in misura maggiore per il carattere più snello e per gli aggiornamenti resi necessari dal progresso

289 LECHI 1973. Questo primo volume, dopo aver affrontato la formazione delle famiglie bresciane prima del XV

secolo e un discorso più generale sui castelli del Bresciano, scandisce i contesti in borghi fortificati (suddivisi tra pianura e collina), rocche e torri, castelli residenziali e, infine, fortezze.

delle ricerche tra la sua pubblicazione e quella del 1973. La forma, ad ogni modo, era ancora quella del catalogo e la stessa Villari, nell'introduzione, lamentava una situazione abbastanza negativa, poiché la lettura storica dei castelli bresciani si presentava difficile per la mancanza sia di documenti sia, soprattutto, di dati archeologici290. Un primo passo in avanti, però, veniva indicato dalla medesima nella

schedatura dei fortilizi avviata da Farisé e Fusco, i quali, verso il 1980, agirono con il patrocinio dell'Istituto Italiano dei Castelli: una schedatura, appunto, ma che continuava a rispondere alla logica inventariale propria della catalogazione.

Con questo non si vuole certo affermare che questo strumento, il catalogo, sia null'altro che un'onerosa perdita di tempo, anzi. Siamo convinti che nessuna seria volontà di studio e ricerca possa scansare questo primo, fondamentale passaggio: volessimo adoperare un linguaggio settoriale, quello informatico, sarebbe esattamente come nutrire la speranza di generare nuove informazioni per mezzo del calcolatore senza tuttavia introdurre dei dati in input. Fuor di metafora, si tratterebbe di un'operazione praticamente impossibile, dal momento che i dati sono gli elementi minimi che, una volta archiviati, classificati e posti in relazione l'uno con l'altro generano l'informazione propriamente detta. Quello che qui piuttosto si vuole dire è che, forse, per l'ambito bresciano la fase “inventariale” del catalogo è un passaggio che è stato ormai acquisito e interiorizzato: ora si dovrebbe pertanto cercare di procedere oltre questo primo livello descrittivo per attingerne di nuovi e più complessi.

Al termine della sintesi critica sugli studi condotti sui castelli bresciani tra il 1990 e il 2010, oggetto del nostro precedente elaborato (discusso – rammentiamo – per la prova finale di Laurea triennale), ritenemmo di poter asserire che l'attenzione al dato prettamente materiale attendesse ancora un'osservazione espressamente e sistematicamente riservata, nonostante fosse positivo che i casi di esperienze ben condotte e significative sotto il profilo del metodo e dei risultati lasciassero in eredità ai futuri studiosi una sorta di linea-guida per condurre ricerche che possano conferire alle emergenze e ai ritrovamenti un'importanza centrale nel loro ruolo di primi e imprescindibili testimoni, che si accompagnano alle fonti scritte senza soverchiarle.

Il dialogo mancato con le emergenze, al di là delle eccezioni, ha effettivamente favorito un largo ricorso alle fonti documentarie. Nelle pubblicazioni visionate esse erano le testimoni privilegiate in conformità alle quali si proponevano ricostruzioni e si suggerivano ipotesi. In quest'ambito, tuttavia, se parliamo di architetture che possiedono un valore storico, ciò implica necessariamente anche un inquadramento delle medesime all'interno di un contesto geografico e cronologico (in una parola: storico) preciso.

Non era solo l'aspetto materiale quello che andava perdendosi negli studi recensiti, ma a perdersi di vista era anche una concezione sistemica dell'oggetto di studio, inteso quindi come il prodotto di fattori molteplici (quali l'ambiente, la politica, la società, l'economia, il grado di sviluppo tecnologico e culturale, etc.), passibili di influenzarsi l'un l'altro. Pensiamo sia comprensibile che un'ottica impostata in tal senso possa rivelarsi quella maggiormente adatta a spiegare fenomeni come quelli storici che, se da un lato possono più o meno approssimativamente essere ricondotti a modelli teorici ricorrenti, dall'altro è inevitabile che, nel loro carattere unico e irripetibile, saranno sempre oggetti di studio ben particolari, non perfettamente riconducibili ad un modello di sintesi, che, il più delle volte, finisce per risultare anche troppo semplicistico.

È proprio questa attenzione sistemica, del resto, che ha posto le basi per la globalità della pratica archeologica: infatti, un'archeologia che si definisce 'globale' – secondo le parole di Daniele Manacorda291 – «non mira tanto a una comprensione globale

delle tracce archeologiche, probabilmente destinata a rimanere illusoria, quanto piuttosto alla globalità dell'approccio, cioè alla raccolta di quegli “insiemi di informazioni” che le diverse fonti, archeologiche e non, mettono a disposizione per rispondere, ciascuna per le proprie possibilità, alle domande dello storico».

Per quanto riguarda le architetture castellane della Provincia di Brescia, questa attenzione non sembra essersi completamente affermata anche nel caso di studi recenti, censiti i quali non potemmo non rilevare che, se talvolta era precisa la datazione delle strutture, non risultavano però altrettanto puntuali sia le motivazioni concrete che

condussero al sorgere della fortificazione sia i rapporti da essa intessuti con l'ambiente circostante e questa lacuna, invece che essere colmata tramite un approccio più diretto ai dati materiali e alle relazioni socio-economiche con l'abitato da essa difeso (ricavabili, per quanto possibile, dall'interpretazione dei depositi archeologici), venne malamente riempita con affermazione “meccaniche”, di certo possibili e probabili, ma nondimeno troppo vaghe e generiche per essere esaustive e soddisfacenti.

Le 'origini', infatti, non sono un cominciamento che basta a spiegare: è quell'ambiguità che Marc Bloch ha appunto definito “l'idolo delle origini”. La parola, infatti, è «inquietante, perché è equivoca. Significa semplicemente inizi? […] Si intenderanno

invece le cause? […] Ma fra i due significati si realizza spesso una contaminazione tanto più

temibile in quanto generalmente non è avvertita con molta chiarezza»292 e, ancora, l'insigne

medievista conveniva anche sul fatto che «mai, in una parola, un fenomeno storico si spiega

pienamente al di fuori dello studio del momento in cui avvenne»293, in quanto non contano

solo le circostanze iniziali, quanto piuttosto – se non soprattutto – le condizioni di ambiente favorevoli.

Tornando sul concreto, osservammo quanto in effetti fosse ricorrente il rimando agli Ungari qualora si affrontassero le motivazioni che spinsero a fortificare siti e contesti presi in esame dalle pubblicazioni recensite: la necessità delle popolazioni dell'Italia settentrionale di difendersi, a partire dal marzo – o dall'agosto – dell'899, dalle scorribande di queste cavallerie leggere fu senz'altro una spinta al primo incastellamento, ma fu anche, del resto, solo una delle tante e, di per sé, ininfluente nello spiegare il proseguire di questo processo nel corso del Basso Medioevo. Infatti, già da tempo Aldo Settia, tra gli altri, ha sottolineato che «la comparsa degli Ungari costituisce

un elemento aggiuntivo che intensifica la disponibilità dell'ambiente già favorevole all'incastellamento e ne dilata i tempi coprendo anche i momenti in cui le contese fra i re tacciono»294.

In conclusione a questa breve rassegna di prospettive e problemi aperti, che stanno di fronte al nostro studio, poniamo un ultimo lavoro, il quale sarà per noi una

292 BLOCH 1998, p. 25.

293 Ivi, p. 29.

guida importante nel censimento delle strutture che costituiranno il campione sui cui lavoreremo in sede di analisi. Anche noi, infatti, pur ripromettendoci di superare l'ottica del catalogo, siamo ovviamente forzati – per le ragioni esposte nei paragrafi precedenti – a passare da questo primo stadio, che dovrà garantirci la sicurezza di lavorare con un insieme di informazioni il più completo possibile nella consapevolezza che quanto maggiore sarà la precisione nella raccolta dei dati, tanto migliori saranno le informazioni che ne potremo trarre. Come detto, questa operazione ci sarà facilitata da un materiale edito, ovvero l'elaborato di Alessia Mometti, datato al 2004, che rappresenta il prodotto delle ricerche condotte per la sua tesi di Laurea. Sebbene la forma possa ancora ricordare quella del catalogo, tuttavia la sostanza è ben più corposa, tanto che ci troveremmo in imbarazzo a considerarlo alla stregua di una semplice lista delle strutture difensive della Franciacorta. Tra i lavori presenti in bibliografia non mancano ovviamente né l'opera del Lechi né le note storico-descrittive di Giusi Villari, ma la disamina di Mometti si estende anche alle fonti cronachistiche, pur senza disdegnare una considerazione propriamente materiale delle strutture. Con i dovuti aggiornamenti, limitati del resto alle indagini condotte tra il 2004 e il momento in cui scriviamo, questo testo può ben costituire un'imprescindibile base da cui muovere nella nostra ricerca.