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L’analogia giuridica

CAPITOLO II L’analogia logica

2.3 L’analogia giuridica

La distinzione più comune nell’ambito dell’analogia giuridica risulta quella tra “analogia legis” e “analogia iuris”102. Secondo tale distinzione “l’analogia

legis” è costituita da un procedimento logico che prende come punto di

riferimento una disposizione simile; “l’analogia iuris” invece si articola in due specie e cioè un’analogia che trova il proprio punto di riferimento in un complesso di leggi (analogia iuris parziale), o addirittura nella somma totale delle leggi di un determinato ordinamento (analogia iuris totale). Secondo la lettera dell’art.3 delle preleggi, la prima sarebbe prevista dall’ipotesi dei “casi simili”; la seconda da quella delle “materie analoghe”; la terza da quella dei “principi generali di diritto”. Secondo Bobbio l’analogia iuris parziale in realtà non si differenzierebbe dall’analogia legis, in quanto in entrambi i casi si tratta di stabilire un rapporto di analogia tra ciò che è regolato e ciò che non lo è, con la sola differenza che, mentre nel primo caso l’analogia viene stabilita tra due fattispecie, nel secondo caso tra due materie; in secondo luogo che l’analogia iuris, - ammesso che questi principi generali di diritto vi siano e siano praticamente utilizzati – non ha niente a che vedere con il procedimento per analogia, dato che, tra il caso da regolare e il principio generale, in base al quale il caso verrà regolato, non intercorre alcun rapporto di analogia, quale intercorre soltanto tra due particolari, ma soltanto un rapporto di sussunzione,

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quale intercorre tra un particolare ed un universale103. Le definizioni di analogia legis ed analogia iuris costituirebbero dunque un

mero caso di omonimia che non dovrebbe autorizzare in alcun modo a fare di esse, come pure si fa di solito, due specie dello stesso genere. Secondo l’autore gran parte degli equivoci che sono insorti sul termine analogia sono derivati dalla prevalente considerazione teleologica di essa, per cui, una volta definita come lo strumento per colmare le lacune, ha finito per ricomprendere tutti i mezzi più comuni destinati a quel fine, anche se non fondati su un procedimento per analogia. Invece secondo Bobbio è indispensabile chiarire che l’analogia incontra dei limiti ben precisi che sono posti dalla esigenza di certezza, che essa soltanto, tra gli altri strumenti di completamento, soddisfa. L’analogia non costituisce un argomento di probabilità, ma bensì – se l’analogia è effettiva – un ragionamento certo. Quando si compie il passaggio dal simile al simile, se la somiglianza è considerata in base alle regole date, non si precipita nel regno dell’incertezza, ma si giunge ad una amplificazione logica dell’ordinamento; e tale amplificazione ha lo stesso valore della certezza della legge. Dunque secondo l’autore è evidente che l’analogia vale principalmente in quegli ordinamenti che per mantenere il valore della certezza, utilizzano i due fondamentali elementi della unità della fonte e della razionalità del sistema.

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BOBBIO N., L’analogia della logica del diritto, op.cit. p.183; inoltre DEL VECCHIO, Sui principi

Bobbio afferma che quando un giurista compie un ragionamento per analogia non esce al di fuori dell’ordinamento, ma vi rimane assolutamente dentro, in quanto non fa che rendere esplicita la razionalità immanente al sistema104. Una attività siffatta inoltre, secondo l’autore, non può in alcun modo essere considerata come attività creativa, ma deve essere riassunta nell’ampio ambito delle attività interpretative. Infatti egli non condivide l’opinione di coloro che ritengono che l’analogia sia creazione105.

Bobbio osserva come nell’ambito della concezione volontaristica un mezzo di interpretazione come l’analogia, che andava aldilà della volontà del legislatore, trovava terreno fertile a svilupparsi sempre più come mezzo straordinario di evoluzione giuridica, e ad allontanarsi dal mezzo normale dell’interpretazione propriamente detta. A poco a poco diventò così sinonimo di creazione giuridica e ancora oggi è rimasto nella dogmatica privatistica, affezionata al dogma della volontà, come un rimedio straordinario da utilizzarsi con cautela e solo in certe circostanze, come qualcosa che non è più interpretazione ma è già strumento di produzione giuridica, da distinguersi dunque dall’interpretazione propriamente detta106

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Egli dunque è convinto che l’analogia giuridica non costituisca un mezzo di creazione, né arbitraria – infatti essa non fa che sviluppare e del tutto

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BOBBIO N., L’analogia della logica del diritto, op.cit.p.163. 105

Contro la dottrina comune considera l’analogia come interpretazione anche il RASELLI,

L’interpretazione discrezionale del giudice civile, p.92.

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analiticamente la razionalità implicita nel sistema giuridico positivo – né creazione originaria – in quanto la norma nuova da essa prodotta è derivata da una norma precedente; né creazione spontanea – perché è costretta dalle esigenze sociali, né libera – perché è vincolata dalle esigenze del sistema giuridico. Non è dunque creazione, ma esplicitazione di un pensiero implicito. Analogia è dunque interpretazione nel senso più genuino del termine, perché riproduce, non ripetendolo ma svolgendolo, il nucleo stesso della norma, configurato nella sua ragion sufficiente: intesa in tal senso essa non va oltre al sistema, ma rimane al suo interno, contribuendo a rafforzarlo come un organismo che cresce e si sviluppa, ma sempre per forza interiore, e non esce mai fuori di se stesso.

Negata da parte di Bobbio la natura creativa dell’analogia giuridica, essa appare avere tutti i requisiti per essere compresa nella fase di adattamento della norma alla situazione di fatto, e per rientrare quindi in tutto e per tutto nell’attività interpretativa.

Di fronte a tale conclusione l’autore si pone il problema se sia ancora possibile giustificare la tradizionale distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia, dato che se una distinzione si deve fare essa si fonda sull’ipotesi che l’interpretazione estensiva sia vera e propria interpretazione, e l’analogia invece costituisca qualche cosa, che seppure non ben definita, interpretazione invece non è.

I criteri per distinguere in linea teorica l’interpretazione estensiva dall’analogia sono stati ricercati principalmente in tre direzioni: o nel presupposto, o negli effetti, o nella funzione.

Per quanto attiene al presupposto, si è detto che mentre l’interpretazione estensiva presuppone la volontà effettiva del legislatore, l’analogia presuppone la mancanza della volontà; nel senso che mentre con l’interpretazione estensiva si estende la disposizione ad un caso non previsto - ma che il legislatore voleva effettivamente – con l’analogia si estende la disposizione ad un caso non previsto, ma che il legislatore avrebbe però voluto se avesse potuto prevedere107.

Di fronte a questa differenziazione Bobbio risponde che se la volontà è veramente effettiva, l’interpretazione che si faccia per adattare le parole troppo limitate alla volontà, non è interpretazione estensiva, ma semplicemente correttiva; tuttavia se la volontà per il caso non previsto viene ricavata dalla ratio del caso previsto, la volontà non è più effettiva, ma anch’essa presunta, e non vi è modo di distinguere i due processi. In realtà ciò che rende possibile in questi casi l’estensione non è la volontà né effettiva né presunta, ma la ragione della legge. Il compito dell’interpretazione è quello di stabilire nel modo più preciso possibile la corrispondenza tra norma e ragione della norma. Se la differenza tra estensione interpretativa ed estensione analogica dipende soltanto dal fatto che nel primo caso la volontà è effettiva e nel secondo

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soltanto presunta, tale differenza è destinata a svanire allorché si consideri che l’effettività o meno della volontà non influisce affatto sulla validità della ragione, che è sempre reale. Quando si compie il passaggio dal caso simile non previsto al simile previsto, non si fa ciò perché vi sia una volontà precisa del legislatore, o si presume che essa vi sia, ma anzi si ritiene che proprio quella sia la volontà, perché i due casi sono simili e simili in quel modo che consente un ragionamento logico per analogia. Una volta eliminata la volontà, non rimane di reale che il procedimento logico, il quale è perfettamente uguale tanto nei casi di interpretazione estensiva, quanto in quelli che si dicono di analogia. Per quanto concerne alla differenza rispetto agli effetti, si sostiene che l’interpretazione estende la norma medesima, mentre l’analogia consisterebbe nella formulazione di una norma nuova. Ma questo motivo di differenziazione secondo Bobbio è estrinseco. Infatti quello che accade in entrambi i casi è la regolamentazione di un caso non disciplinato da una norma di diritto positivo; che questa regolamentazione si immagini avvenuta per estensione della norma già esistente o invece per produzione di una norma nuova affine alla vecchia, non sposta la struttura del procedimento che in entrambi i casi avviene per forza dell’identico ragionamento per analogia. Neppure risulta corretta, secondo l’autore, la teoria secondo la quale la differenza tra interpretazione estensiva ed analogia starebbe nella diversa funzione delle stesse, in quanto la prima estenderebbe le parole e la seconda il pensiero del legislatore. Infatti la semplice estensione del significato di una

parola è opera di quella che si chiama interpretatio lata e non è affatto una modificazione della legge, ma semplicemente una sua spiegazione, come quando nella parola “uomo”, si intendono ricomprese anche le donne.

Secondo Bobbio è significativo della confusione che regna in questo ambito il fatto di collocare questo esempio tra i casi di interpretazione estensiva, come se l’espressione “uomo” contenuta in alcune norme fosse una insufficienza della legge, dovendosi preferire l’espressione “uomo e donna”. Neppure è esatto per Bobbio parlare di estensione del pensiero perché se per pensiero della legge si intende la sua intrinseca logicità, questa non si estende ma semplicemente si sviluppa, cioè si rende esplicita analiticamente, dunque ciò che si estende è la portata della norma e non il suo contenuto intrinseco, e in ciò non si riesce dunque proprio a vedere, secondo Bobbio, come possa distinguersi l’interpretazione estensiva dall’analogia.

CAPITOLO III

L’ANALOGIA SECONDO G.TARELLO E R.GUASTINI

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