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La disciplina legale dell’interpretazione

CAPITOLO II L’analogia logica

3.8 La disciplina legale dell’interpretazione

Per i giuristi – come in genere per i privati cittadini – l’interpretazione è un’attività del tutto libera: ciascuno può interpretare le fonti del diritto a suo piacimento. Non così per gli organi dell’applicazione, e segnatamente per i giudici. L’interpretazione giudiziale dei testi normativi è disciplinata dal diritto stesso. Circoscrivendo il discorso alle disposizioni che riguardano l’interpretazione delle fonti, si possono distinguere: da un lato, quelle disposizioni che vertono direttamente sull’interpretazione; dall’altro, quelle che, pur non disciplinandola direttamente, possono in vario modo condizionarla.

Nell’ambito delle disposizioni che vertono direttamente sull’interpretazione, si possono ulteriormente distinguere: da un lato, le disposizioni che disciplinano l’attività interpretativa in generale; dall’altro, quelle che disciplinano l’interpretazione di una serie circoscritta di fonti, o di un singolo documento normativo, o di una singola disposizione, o di un singolo termine o sintagma del discorso legislativo. La prima classe di disposizioni- quelle che disciplinano l’interpretazione in generale – si esaurisce, per quanto è a mia conoscenza, nell’art.12, comma 1, disp.prel.cod.civ. (il secondo comma, a rigore, concerne non tanto l’interpretazione, quanto piuttosto l’integrazione del diritto in presenza di lacune).

La seconda classe di disposizioni – quelle che riguardano l’interpretazione di parti determinate del discorso legislativo – include principalmente: (a) l’art.1

cod.pen. e l’art.14 disp.prel. cod.civ. (divieto di estensione delle norme penali e delle norme eccezionali); (b) le leggi di interpretazione autentica; nonché le definizioni legislative. Detto questo, è forse opportuno precisare che l’interpretazione, strettamente intesa, è un’attività mentale che, in quanto tale, semplicemente non può essere disciplinata. Ne segue che le disposizioni che pretendono di disciplinarla si risolvono non propriamente in regole di interpretazione, ma in regole di argomentazione della interpretazione prescelta, quale che sia il processo mentale attraverso cui l’interprete è pervenuto a quella conclusione. La disciplina dell’integrazione del diritto. – Lart.12, comma 2, disp.prel. cod. civ. così dispone: “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico delle Stato”. Secondo il modo più consueto di interpretarla, questa disposizione disciplina l’integrazione del diritto in presenza di lacune. Si può dire infatti, senza troppo sottilizzare, che l’ordinamento presenti una lacuna precisamente allorquando la controversia in esame “non può essere decisa con una precisa disposizione”. I metodi prescritti per colmare le lacune sono: l’analogia (o argomento a simili) e il ricorso a principi generali. Più precisamente: (a) in presenza di una lacuna, si deve ricorrere, ove è possibile, all’analogia; e (b) quando neppure l’analogia soccorra, si deve ricorrere ai principi generali. Si osservi che l’art.12, comma

2, prescrive di usare le tecniche di integrazione ora menzionate non in alternativa, ma in sequenza: più precisamente, prescrive che si faccia ricorso ai principi solo quando “il caso rimane ancora dubbio”, cioè quando non si trovi una norma regolatrice di fattispecie analoghe a quella in esame. Sicchè il ricorso ai principi di diritto è un criterio di integrazione sussidiario rispetto all’applicazione analogica. E’ pacifico, peraltro, che tra analogia strettamente intesa (cosiddetta analogia legis) e ricorso ai principi (cosiddetta

analogia juris) non corra una precisa linea di confine: non foss’altro perché,

come abbiamo visto, l’applicazione analogica di una norma sempre suppone la previa ricostruzione del principio che (si suppone) ne sta a fondamento.

Divieto di applicazione analogica – Come si è detto, l’argomento analogico (o a simili) può essere impiegato per giustificare (o “motivare”) tanto una interpretazione estensiva, quanto la formulazione di una norma inespressa. Orbene, l’art.14 disp.prel. cod. civ., dispone che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Questa disposizione, sebbene non faccia menzione dell’analogia, è comunemente intesa come un divieto, ma (solo) di applicazione analogica. Secondo questa interpretazione, è vietato al giudice di assumere talune norme – quelle “penali” e quelle “eccezionali” – quali premesse per la costruzione di norme nuove inespresse, adducendo la somiglianza tra la fattispecie da esse disciplinata quella non prevista. Sicchè le norme in questione non possono essere applicate a fattispecie diverse da

quelle espressamente menzionate, ancorchè simili a queste. Ancora su analogia e interpretazione estensiva. – Si può sostenere che il divieto di analogia si risolva nell’obbligo di interpretare alla lettera: in particolare, di

interpretare in modo non-estensivo, con l’ausilio dell’argomento a contrario. Tuttavia, è opinione pacifica, in dottrina e in giurisprudenza, che l’art.14

disp.prel. cod. civ. – come pure l’art.1 cod. pen. – vieti sì l’applicazione analogica, ma non l’interpretazione estensiva. E’ giurisprudenza costante che le disposizioni eccezionali e singolari, benchè insuscettibili di applicazione analogica, possano tuttavia essere interpretate estensivamente. Concettualmente – l’abbiamo visto – non è impossibile tracciare una distinzione tra applicazione analogica ed interpretazione estensiva, ascrivendo la prima ai metodi di “costruzione giuridica” e la seconda ai metodi interpretativi strettamente intesi. Altro è decidere il significato di una disposizione, altro è costruire una norma (apocrifa) inesistente. Si fa interpretazione estensiva allorchè si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, ovvero lo si estende fino a coprire anche fattispecie che ricadono entro l’area “di penombra”. Si fa applicazione analogica allorchè si applica una norma ad un caso che si riconosce come escluso dal suo campo di applicazione: il che, abbiamo visto, non è cosa diversa dall’elaborare una norma nuova inespressa. In verità, l’art.14 disp.prel. cod. civ. e ancor più l’art.1 cod.pen., intesi alla lettera, sembrano escludere proprio l’interpretazione estensiva. Inoltre, molti

ritengono, non a torto (come abbiamo visto), che l’interpretazione estensiva non sia cosa rigidamente distinguibile dall’applicazione analogica; e che anzi la distinzione tra le due cose non abbia altro scopo se non quello di eludere il divieto di applicazione analogica: si può infatti aggirare il divieto semplicemente facendo sì applicazione analogica, ma avendo l’avvertenza di chiamare l’analogia con un altro nome.

CAPITOLO IV