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L’analogia nel diritto penale secondo Bobbio

CAPITOLO II L’analogia logica

4.3 L’analogia nel diritto penale secondo Bobbio

Bobbio con riguardo all’art. 1 c.p. osserva che tale articolo ha una formula assai più ampia e precisa della maggior parte degli articoli dei codici precedenti154.

Peraltro dalla disamina di tale articolo secondo l’autore non deriva necessariamente che se ne possa ricavare il divieto di analogia.

Innanzitutto egli osserva come l’art. 1 sia scomponibile in due parti che corrispondono alle due note massime: nullum crimen sine lege e nulla pena

sine lege; molto spesso si nomina solo la seconda e in essa si ritiene

considerata implicitamente anche la prima. E’ vero infatti che per infliggere una pena senza legge è necessario considerare il fatto che viene punito come un reato anche se non vi è una legge che lo incrimini; ma è vero anche che nel suo significato stretto la seconda massima significa esclusivamente che la legge penale deve essa stessa fissare la pena e non abbandonarla alla libera decisione del giudice.

Si può rilevare come le due massime abbiano uno scopo identico che le accomuna e cioè l’eliminazione del giudizio arbitrario; occorre peraltro distinguere i diversi mezzi che esse rappresentano per il conseguimento di quello scopo. Infatti mentre la prima tende ad eliminare l’arbitrio direttamente proibendo al giudice di andare al di là della legge, la seconda lo fa proibendo al legislatore stesso di abbandonare alla libera scelta del giudice la

determinazione della pena; la prima dunque si preoccupa di togliere di mezzo l’abuso del giudice, la seconda quello del legislatore.

L’arbitrio nel primo caso può essere determinato essenzialmente dalla insufficienza delle leggi o molto spesso dalla stessa tecnica legislativa, che segue perlopiù il metodo casistico o quello esemplificativo, piuttosto che quello generalizzante e tale arbitrio viene a configurarsi come abuso dell’interpretazione analogica. Nel secondo caso l’arbitrio è voluto dalla legge stessa , la quale stabilisce il precetto, ma omette di indicare la sanzione, e questo arbitrio non si può ritenere come abuso di interpretazione analogica da parte del giudice, perché se abuso c’è, esso è da parte del legislatore, il quale vuole che il giudice stabilisca esso stesso con un criterio di libera scelta la pena, e non da parte del giudice, il quale non avendo limiti non può neanche trovarsi nella condizione di valicarli.155

Secondo Bobbio se è giusto considerare le due massime come equivalenti e quindi usarne promiscuamente, quando vengano guardate dal punto di vista del loro scopo che è indubbiamente unico, non appare altrettanto esatto il farlo quando esse si vogliano sottoporre ad una indagine al fine di prendere posizione di fronte al divieto dell’estensione analogica. Infatti la seconda massima, presa nella sua accezione più genuina, non ha niente in comune con l’analogia: il fatto che il legislatore stabilisca esso stesso le pene, anziché affidarne la determinazione alla libera valutazione del giudice, non concerne affatto l’attività interpretativa del giudice stesso e non pregiudica

minimamente la facoltà che egli può avere, di giudicare mediante un ragionamento per analogia, quando la legge stabilisca per un caso simile e il reato e la pena.

Per quanto concerne invece la prima massima, essa ha certamente lo scopo di limitare direttamente l’attività creatrice del giudice, dato che questa attività sarebbe soprattutto in diritto penale una lesione della libertà individuale, e quindi da qualificarsi come un arbitrio intollerabile; però non è detto - secondo l’autore – che con questo essa riguardi l’interpretazione analogica.156

Anche proprio in ragione del suo contenuto, non solo teoricamente ma anche storicamente determinato, per cui essa è posta in essere per frenare l’arbitrio del giudice, è assolutamente da escludersi che possa riferirsi all’interpretazione analogica; o almeno vi si potrebbe riferire solamente qualora l’analogia fosse considerata come un espediente di giurisdizione libera ed arbitraria. Ma questo non può essere, dato che per Bobbio ragionare per analogia non importa creazione da parte del giudice, e non implica neppure un trascendere i limiti logici della legge: un giudice che qualifichi un fatto come reato per analogia non contravviene al primo principio stabilito dall’art. 1 c.p. e se vi contravviene, contravviene ma solo in parte alla lettera, per l’incertezza di determinare la precisa estensione del termine “legge”, ma non certo allo spirito, perché, se quel principio ha avuto una ragione d’essere, questa è stata unicamente la repressione degli abusi che in uno stato non governato dalla legge inficiano e rendono talvolta iniqua la giustizia penale.

Pertanto, secondo Bobbio, l’art. 1 non ha certamente voluto eliminare l’analogia, ma bensì il cattivo uso dell’analogia con il quale nel passato venivano mascherate manifestazioni di arbitrio del potere.157

Le affermazioni contenute nell’art. 4 delle Preleggi e nell’art. 1 c.p. secondo Bobbio esprimono due concetti diverse; la prima è espressione di un principio interpretativo, fondato sopra un vago criterio di benevolenza; la seconda è espressione della sovranità della legge, che vuole da sola essere fonte di diritto ad esclusione di tutte le altre fonti.

Ancora più problematico è affermare che siano da accomunarsi per il divieto di estensione analogica; infatti la prima stabilisce sì il principio del divieto ma è sempre stata ritenuta dalla dottrina come praticamente inutilizzabile; la seconda fissa un principio che peraltro non concerne l’analogia.

Una volta accolto il punto di partenza che il fondamento dell’analogia stia nell’assunzione dell’ordinamento come sistema razionale a ipotesi fondamentale, l’unico possibile motivo di incomparabilità logica tra analogia e diritto penale si verificherebbe qualora il diritto penale contenesse in sé determinate e particolari ragioni per essere sottratto, a differenza di ogni altra sfera giuridica, a quella ipotesi fondamentale e per essere riallacciato quindi ai presupposti e alle finalità di una concezione volontaristica, vale a dire per non essere più considerato come sistema razionale, ma come emanazione di

157 Bobbio osserva che se il legislatore ha voluto dare a questo principio particolare rilevanza soltanto nel diritto penale, ciò dipende da una ragione non essenziale ma storica, cioè dipende dal fatto che quel principio era stato particolarmente violato in diritto penale, e tale violazione era stata particolare espressione dell’assolutismo contro il quale insorsero la teoria e la pratica dell’Illuminismo; BOBBIO N., L’analogia nella logica del diritto, op. cit., p. 226

volontà, nella cui sfera valesse solo l’argomento a contrario. Ma appare evidente - afferma Bobbio – come a questo mutamento nell’ipotesi iniziale non possono presiedere che ragioni di opportunità, in quanto si ritenga essere l’ipotesi volontaristica quella più idonea a soddisfare le esigenze insite in un sistema penale e ad esaudirne gli scopi.

Ma contro queste ragioni, secondo l’autore, si pone la considerazione dell’analogia come ragionamento di certezza: ammettere l’analogia quando essa sia intesa nel suo significato proprio e non invece un pretesto per mascherare l’applicazione arbitraria o addirittura la violazione di una norma o di un principio, non significa introdurre un elemento perturbatore in quella concatenazione di certezze che costituisce un ordinamento, ma anzi, dal momento che l’analogia serve a sviluppare la ratio legis in tutta la sua efficacia, vuol dire dare al sistema la possibilità di perfezionarsi e di adattarsi a nuove situazioni.