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Andrea Cerri

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 197-200)

È direttore artistico dell’Associazione Culturale Gli Scarti, impresa di produ-zione culturale cui è affidata la gestione del teatro degli Impavidi di Sarzana e l’organizzazione della rassegna di teatro contemporaneo “Fuori Luogo La Spezia”, progetto che propone e sperimenta i diversi linguaggi del teatro indi-rizzando la sua attenzione al coinvolgimento del pubblico, soprattutto giovane. È responsabile organizzativo e di produzione di Balletto Civile, collettivo di danzatori e performer.

«Bisogna far pagare la gente per il teatro che vuole, ma devi pagare di tasca tua per fare il teatro che vuoi». Cosa pensa di questa frase di Vsevolod Mejerchol’d?

La frase di Mejerchol’d, apparentemente semplice, richiederebbe in realtà un complesso e amplissimo ragionamento sul rapporto tra arte e mercato, e di come il mercato influisca sull’atto creativo dell’artista. Stringo invece il campo

e vorrei provare a rapportarla al nostro piccolo sistema teatrale di riferimen-to, quello di Fuori Luogo a La Spezia, e allargando un po’ il cerchio a quello italiano: spesso ci capita di associare l’espressione “teatro che vuole la gente” allo spettacolo commerciale o di intrattenimento, mentre il “teatro che piace all’artista e che per farlo deve pagare di tasca sua” al teatro di ricerca o d’in-novazione e a una sua concezione “autoreferenziale”. Sicuramente in questa classificazione semplicistica c’è un fondo di verità, tuttavia siamo sicuri che la “gente” voglia solo ciò che viene definito “spettacolo commerciale”?

Credo che spesso, per svariati motivi, ci sia poco coraggio tra gli operatori che hanno la responsabilità delle scelte di una programmazione teatrale e credo che l’obiettivo di un buon direttore artistico o “programmatore” dovrebbe es-sere quello di riuscire a “far pagare per quel teatro che “la gente non sa ancora di volere”. Il senso del nostro lavoro sta tutto qui.

Nel corso di una stagione, quanti sono gli spettacoli che proponi assumendoti un rischio totale, ovvero senza alcuna garanzia di ritorno economico e di apprezza-mento da parte del pubblico?

Quando abbiamo iniziato, ormai otto anni fa, a curare la programmazione di Fuori Luogo, insieme a Renato Bandoli e Michela Lucenti, e a farlo in un territorio come quello spezzino, dove nei quindici anni precedenti non era accaduto nulla a livello teatrale, abbiamo corso un bel rischio! È stato un rischio sia per gli spettacoli proposti sia per il fatto che non sapevamo se davvero esistesse un pubblico con cui interloquire. Non c’erano preceden-ti, non c’erano esperienze pregresse; gli artisti e le compagnie proposte — benché tra i più conosciuti tra gli “addetti ai lavori” con nomi del calibro di Danio Manfredini, Babilonia Teatri, Teatro Sotterraneo, Massimiliano Civica, per citare solo alcuni degli artisti del primo anno — risultavano totalmente sconosciute in una città dove per anni l’unico “teatro” era quello iper-tra-dizionale e commerciale proposto dal cartellone del Teatro Civico. È stata dunque una scommessa totale da tutti i punti di vista. Quello spirito un po’ pioneristico e la propensione al rischio, fortunatamente, caratterizzano anco-ra oggi il nostro progetto: ogni anno cerchiamo di metterci in discussione, sia nelle scelte degli spettacoli, degli artisti da sostenere, sia nella strutturazione del progetto culturale complessivo che sta alla base della programmazione. Rispondere sul rischio del singolo spettacolo mi risulta difficile, perché inten-diamo la nostra programmazione come un progetto culturale organico che segue una linea poetica e artistica, della quale ogni evento teatrale proposto è parte integrante. Il nostro tentativo è infatti anche quello di creare relazioni durature tra pubblico e artisti ospitati, far comprendere la presenza di un

percorso artistico, che va al di là del singolo spettacolo, che in certi casi può essere “riuscito” e in altri meno.

Funziona così anche al Teatro degli Impavidi di Sarzana, l’altra realtà che seguite da quest’anno?

Ecco, forse proprio in questa nostra prima stagione di direzione a Sarzana ab-biamo avuto il nostro “episodio singolo” più rischioso dell’ultimo anno. Quello degli Impavidi è un teatro comunale di circa 400 posti, un luogo che in circa vent’anni è stato chiuso e riaperto solo sporadicamente a causa di varie ri-strutturazioni, e dunque, un po’ com’era avvenuto a La Spezia, con questa nostra prima programmazione l’obiettivo era quello di ricreare un pubblico e un’abitudine al teatro in una cittadina di provincia. Abbiamo perciò impo-stato una programmazione che, da una parte, potesse attrarre le persone at-traverso l’ospitalità di nomi noti, e dall’altra non snaturasse la nostra “linea”, il nostro sguardo più rivolto al contemporaneo. Accade però che a causa di un’indisposizione dell’attrice principale, lo spettacolo di apertura sia saltato pochi giorni prima del debutto. Abbiamo allora scelto di sostituirlo con

Tropi-cana di Frigoproduzioni, compagnia giovanissima, ancora poco nota al grande

pubblico e che si presentava, tra l’altro, con uno spettacolo di drammaturgia contemporanea originale e non con un più rodato classico, uno Shakespeare o alla peggio un Pirandello. Un rischio davvero notevole. Ecco, la soddisfazione più grande è stata il successo e la reazione entusiasta del pubblico a quel la-voro: un pubblico “di abbonati”, cioè prevalentemente composto da persone di mezza età, che tuttavia hanno salutato con applausi e standing ovation non solo una compagnia in cui non c’è alcun volto famoso o televisivo, ma anche uno spettacolo privo di una messa in scena tradizionale, dove contava solo la qualità del lavoro portato in scena.

Un episodio che mi convince sempre di più dell’idea che “il pubblico” è spes-so molto più avanti dei timori dei direttori artistici di proporre cose nuove o sconosciute, anche nei contesti più tradizionali e “patinati”. Credo che in fondo gli spettatori sappiano riconoscere la qualità e la “sincerità” di un’opera e forse siamo noi “programmatori” che dobbiamo avere più coraggio nelle nostre scelte.

Viceversa, puoi descrivere — se c’è stato — uno spettacolo che hai proposto pro-prio perché sicuro di riscuotere il consenso del pubblico?

L’esperienza della direzione artistica degli Impavidi e della sua gestione — con annessi tutti i rischi legati alla sostenibilità dei costi — ci ha portato

ovvia-mente a fare valutazioni diverse e nuove rispetto a Fuori Luogo-La Spezia. Abbiamo un tema da tener presente che è quello della sostenibilità econo-mica di una struttura complessa, che scarseggia di finanziamenti sia pubblici che privati, e dove gran parte delle risorse devono essere quindi ricavate dal botteghino. Un esempio di spettacolo di “consenso” è stato quello con Luca Zingaretti, una lettura su La Sirena di Tomasi da Lampedusa. La sua presenza in stagione e in abbonamento ci ha permesso di far conoscere a un pubbli-co ampio e “generalista” — che in molti casi aveva acquistato l’abbonamento proprio grazie alla presenza di “Montalbano” — artisti come i Frigoproduzioni, Deflorian/Tagliarini, Enrico Casale, Carrozzeria Orfeo, Scena Madre, I Sac-chi di Sabbia e così via, inseriti tutti insieme nello stesso cartellone. La cosa più interessante da registrare è che alla fine della stagione, dai feedback che abbiamo avuto dagli spettatori, sono proprio questi gli artisti e gli spettacoli più apprezzati.

Un riscontro che ci permette di poter pensare, con la giusta gradualità, a pro-seguire su proposte più “rischiose” (almeno sulla carta) in termini di consenso, ma più vicine alla nostra idea di teatro.

Nella tua esperienza, cosa ci dice il confronto tra il pubblico giovane e quello più rodato? È vero il luogo comune per cui sono i giovani a essere aperti a suggestioni nuove, oppure ne sono intimoriti?

In generale ho l’impressione che spesso i giovani spettatori siano più “con-servatori” rispetto a certi nuovi linguaggi della scena. Tuttavia si tratta di un conservatorismo non del tutto negativo. Capita infatti che talvolta gli spetta-coli del circuito del “teatro di ricerca”, proposti magari da giovani compagnie emergenti, tendano all’autorappresentazione o a una “rappresentazione” del vivere contemporaneo attraverso tematiche generazionali (le ansie, le paure, dei “giovani d’oggi”) ma utilizzando anche una buona dose di cliché nei propri linguaggi scenici.

Di fronte a questi spettacoli capita che gli spettatori più giovani siano molto più esigenti del pubblico âgée, è infatti molto più difficile che si facciano in-gannare: avvertono subito l’autenticità di ciò che viene portato in scena e del linguaggio utilizzato e se lo ritengono “artefatto” o poco “sincero”, immedia-tamente lo respingono.

Mi sembra che le giovani generazioni di pubblico siano in cerca di un tea-tro che rappresenti un’esperienza extraquotidiana, che li sproni a riflessioni e profondità a cui non sono abituati: il teatro può (e forse deve) rappresentare qualcosa di lontano rispetto alla routine fatta di virtualità, di iper-connesione, di tecnologia, di immediatezza e velocità, con poco spazio per la riflessione.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 197-200)