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di Anna Beltrametti

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 113-117)

Vorrei ripartire da un Gaber indimenticabile, ma non per mettermi nel coro di chi lamenta o canta la fine della destra e della sinistra.

Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po’ di destra ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra.

Ma cos’è la destra cos’è la sinistra...

Come le scarpe sporche e un po’ slacciate... il populismo — i comportamenti e i linguaggi che oggi definiamo populisti — è da manipolati spesso inconsa-pevoli e da manipolatori sempre consainconsa-pevoli, più che di sinistra o di destra. E non perché la sinistra e la destra abbiano finito il loro tempo come alcuni si affannano ad argomentare — del resto dopo il 1989 si era decretata anche la fine della storia conclusa con la fine della guerra fredda — ma perché, come le scarpe di Gaber, hanno preso una brutta piega. Si sono sformate nelle varianti del populismo che, tutte, prendono le parole chiave da una parte e dall’altra e le associano in un quadro che ne richiama altri già visti e sperimentati in varie epoche e in vari luoghi: i diritti del popolo affidati all’abbraccio dell’uomo forte che saprà garantirli.

Il populismo non è un’ideologia né un partito né una linea politica. Ma non è neppure un’invenzione nominalistica, considerata la greve concretezza degli uomini che lo interpretano. Il populismo è una modalità, accuratamente e scientemente sgangherata di fare politica a sinistra come a destra in un’igno-bile ed efficacissima gara di degradazione dei linguaggi e degli ideali.

Troppo si è detto anche sulla legittimità e non legittimità del termine “populi-smo”. Marc Bloch ci ha insegnato che la storia è irreversibile e che non si ripe-te neppure quando eventi o atmosfere conripe-temporanee sembrano riecheggia-re o addirittura ripriecheggia-resentariecheggia-re fatti e situazioni del passato più o meno riecheggia-recente: altro senso e altro impatto hanno eventi e comportamenti simili in contesti socioculturali del tutto mutati. E davvero poco o nulla ha a che fare, almeno nella coscienza e nella competenza storica dei più, il cosiddetto populismo di questo primo XXI secolo con il populismo russo, narodničestvo, propriamente detto delle sperimentazioni sociopolitiche nella Russia zarista di metà Otto-cento, in tempi e luoghi di produzione asiatica.

Certo è che il termine italiano “populismo”, con quel suffisso -ismo che nella nostra lingua indica l’astrazione, ma spesso alludendo alla maniera e all’ecces-so — si pensi a virtuosismo vs virtù, a paternalismo vs paternità, a trionfalismo

vs trionfo e, per restare nella stessa costellazione del populismo, a sovranismo vs sovranità e a protezionismo vs protezione — peggiora la nozione di “popolo”

e di “popolare” da cui origina. E non c’è demagogia che tenga per dare un nome più antico, o più “classico” e nobile, ai populismi di oggi, se intendiamo la parola greca etimologicamente come capacità di un oratore di persuadere e trascinare dalla propria parte, una parte ben definita, l’antica assemblea popo-lare. Non può la demagogia, intesa come suprema padronanza delle tecniche del discorso al servizio di un’ideologia o di una battaglia, ricoprire le implica-zioni salienti che il termine populismo si porta dentro. E in italiano, forse più che in altre lingue, il nome suona perfetto per indicare quella frequentazione insistita, quel troppo di attenzione, quasi una compulsione, che deteriora l’og-getto dell’interesse, il popolo, trasformandolo da sogl’og-getto politico in ogl’og-getto, si potrebbe dire merce, di scambio. In tal senso “populismo” è anche nome del tutto coerente con le politiche attuali, italiane e non solo italiane, dei sussidi e delle elargizioni una tantum prevalenti sulle politiche strutturali a lungo ter-mine del lavoro. Con quelle politiche bipartisan del “dono” che alimentano e non sconfiggono le nuove povertà e che, provvedimento dopo provvedimen-to, trasformano il popolo sovrano in plebe clientelare da vendere e comprare secondo i flussi del consenso.

Non c’ è dubbio che all’origine del populismo contemporaneo nelle sue va-rianti, per altro meno evidenti e meno percepibili delle analogie, ci siano gli

scadimenti della politica tradizionale da gioco dell’intelligenza astuta a gioco truccato, quando non sporcato da troppo frequenti episodi di inadeguatezza o di collusione e financo di corruzione. Sono le élites che hanno smarrito anche gli ultimi retaggi della cultura della vergogna ad aver legittimato le intempe-ranze, anche le sfrontatezze, dei populismi. Ma i populismi, all’estremo delle derive politiche, non sono più politica e non promettono rinascite politiche. È difficile immaginare che possano produrre nuove aggregazioni o nuove comu-nità, movimenti e discorsi che, per un verso, insistono su un popolo astratto e unanime, del tutto fittizio, e per l’altro seminano paure e divisioni, facendo leva sui pericoli dell’altro, inteso prima come straniero migrante e ravvisabile poi nel competitor della porta accanto. È più facile prevedere che questi movi-menti e questi discorsi, con la straordinaria insistenza sul popolo cui vogliono dare voce e che si impegnano a proteggere, invece che a una linea di pensie-ro condiviso apppensie-rodino a soluzioni autoritarie incentrate sì su una voce sola, quella dell’uomo solo al comando. A meno che il popolo, non quello astratto e unanime della finzione populista, ma quello reale e plurale della storia, non si risvegli, stuzzicato dagli eccessi di accudimento di qualcuno dei suoi sedicenti interpreti o servi, e li giochi uno contro l’altro riprendendosi la scena e la paro-la. Così accadeva nei Cavalieri di Aristofane, la commedia che aveva dramma-tizzato e smascherato, dandone spettacolo, l’irrefrenabile e stucchevole corsa al popolo di due rivali pronti a tutto e capaci di tutto, panourgoi paradigmatici. La commedia, composta nel 424 dal drammaturgo come allegoria esplicita, costruisce un quadro ancora interessante, oltre che esilarante, di un impegno supremo a servire il popolo con lo scopo malcelato di asservirlo. Due servi, quello in carica e quello che cerca di scalzarlo, si affrontano sulla pubblica piaz-za per garantirsi il posto di primo servo presso un vecchietto apparentemente rimbambito di nome Demos, Popolo. Nella finzione comica, il servo in carica si chiama Paflagone, un nome che è un programma comico e allude a un’origi-ne straniera e schiavile dalla Paflagonia in Asia Minore, ma è anche onomato-peico del roboante gorgogliare di una pentola straripante. Si è arricchito con l’attività di conciapelli, mentre l’altro, che arriva chiamato dai Cavalieri del coro, è un salsicciaio, un conciabudella dunque. I due si combattono a forza di manicaretti, torte e doni di vestiario offerti a Demos che attende a bocca aperta di essere ingozzato e imbonito. Si insultano e si minacciano con un linguaggio estremamente violento, rivendicando però, ciascuno per sé, la più infima bassezza, la furfanteria più spregiudicata, il primato nel servilismo tota-le. La violenza delle invettive è calata in una rete di metafore ossessivamente giocate sul cibo, sul mangiare o essere mangiati, sul far mangiare e sul farsi mangiare, sul rubare e sul corrompere, sul concedere briciole per sottrarre di nascosto le focacce.

I fondamentali dei populismi, anche di quelli attuali, sono tutti in gioco nei

Ca-valieri. Il linguaggio semplificato e forte, letteralmente triviale perché appreso

nei trivi della città, dei due rivali e i loro scontri senza mediazione possono essere intesi come pratiche estreme e caricaturali della democrazia greca e diretta che esprime la voce del popolo e parla al popolo. Ma Aristofane è per-fido: nel corso della commedia, i due che si battono per contendersi il favore di Popolo, alias del popolo, si rivelano per quello che sono, gli strumenti o i bu-rattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire. Il coro dei Cavalieri che dà il titolo alla commedia, tenendosi apparentemente ai margini della vicenda e dissimulando la propria tenacia oligarchica con il parlare di poetica e di storia del teatro comico, scatena il Salsicciaio contro il Conciapelli e lo sostiene. Finge di appoggiare la promessa di democrazia ancora più radicale del nuovo arrivato e persegue l’intento di far implodere il sistema, affossandolo nelle sue proprie crepe.

La grande illusione della democrazia diretta non poteva trovare una rappre-sentazione più efficace, grottesca e straniante. La storia non si ripete, ma la risata nera di Aristofane ci morde ancora. O dovrebbe morderci.

-abstract

Populism: from today to the original, comic and black scene of Aristophanes

Starting with the debatable and discussed term of populism, the essay deepens the contemporary political drift in which people, rather than a political subject, become an object, a commodity of exchange. The illusion of direct democracy, as it is represented and unmasked in the Knights, is re-proposed to the attention of an audience not always willing to look and understand what is happening on stage. For Aristophanes and for us, paying too much attention people seems to coincide with the extreme degradation of politics that has betrayed its tasks and has taken ugly folds, like the “dirty and somewhat loose shoes” of Giorgio Gaber.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 113-117)