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Giampiero Solari

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 129-137)

Quando nel maggio 2018 va in scena il 54° festival del teatro greco di Siracusa l’aspettativa è alta. La stagione precedente aveva contato numeri da record, con 140.300 spettatori e alcune importanti novità. Tra queste, la nomina di un direttore artistico (Roberto Andò, riconfermato anche nel 2018) che pre-siedesse all’allestimento dell’intero ciclo di rappresentazioni. L’idea era quella di creare un festival uniforme, in cui i tre drammi non fossero momenti conclusi in se stessi, ma dialogassero tra loro. Nel 2018 il tema designato, presentato da Luciano Canfora, è “tiranno, eroe e governo: ascesa e declino”, e gli spettacoli scelti per rappresentarlo sono Edipo a Colono, Eracle e i Cavalieri. Va in scena il potere e la riflessione sulle sue degenerazioni: dai grandi eroi della tragedia, logorati dalla solitudine di un potere tirannico, alla satira irriverente del populi-smo ateniese nella commedia di Aristofane. Ed è proprio ai Cavalieri che spetta la sfida più grande di quest’edizione: sostenere il confronto con il successo delle

Rane dell’anno precedente. Anche per i Cavalieri viene riproposta la formula

risultata vincente nel 2017, ovvero affidare i ruoli principali ad attori conosciuti al grande pubblico. La regia dello spettacolo è affidata a Giampiero Solari, che di satira ha una certa esperienza, avendo collaborato tra gli altri a numerosi spettacoli di Paolo Rossi. E in Aristofane, «oltre ad un maestro, ho ritrovato un amico», così dice, un anno dopo l’esperienza a Siracusa. Negli ultimi due anni, la commedia torna a Siracusa più forte, non più come elemento accessorio ma come fiore all’occhiello, riacquistando tutta la sua forza comica.

Il Festival del teatro greco di Siracusa rappresenta uno dei più importanti contesti dove riflettere sulla messa in scena contemporanea del teatro antico. Come de-scriverebbe in questo senso la sua esperienza con i Cavalieri di Aristofane?

È stata una grande occasione per mettermi alla prova. Prima che Roberto Andò mi commissionasse la regia per il Festival non conoscevo i Cavalieri nello

specifico. Ma ho accolto la proposta con entusiasmo: ho letto e riletto la com-media, prima nella traduzione di Paduano e poi in quella di Olimpia Imperio, creata apposta per la messa in scena di Siracusa. Fin da subito sono rima-sto colpito dalla modernità del terima-sto e dalle sue immense potenzialità. Perciò non ho affrontato questa commedia come un testo antico “da citare”. Non si prestava né ad una messa in scena arcaizzante, né aveva bisogno di forzate attualizzazioni. Aristofane è capace di raccontare in maniera reale e vicina allo spettatore una situazione che stiamo vivendo ancora oggi non solo in Italia, ma nella politica mondiale.

I Cavalieri drammatizzano una situazione politica riconoscibile ancora oggi, pur essendo stati scritti nel 424 a.C., con riferimenti puntuali a fatti e personaggi antichi. Come si può rendere efficace un testo così complesso agli occhi di un pubblico eterogeneo come quello di Siracusa?

La maggior parte del lavoro in questo senso l’ha già fatto Aristofane. Le situa-zioni parlano da sé, il pubblico non ha grandi difficoltà a immedesimarsi nella vicenda. La chiave di volta è quando, all’entrata in scena del Salsicciaio, ne vie-ne fatto l’identikit per vedere se possiede tutte le caratteristiche del perfetto politico: un ignorante di umili origini, che sa solo urlare e rubare. E proprio per questo viene acclamato demagogo. Da quel momento in poi il pubblico coglieva a pieno la portata di questa commedia, tirando le fila del discorso che dalla satira dei tempi di Aristofane arriva fino ai nostri. La difficoltà maggiore, invece, è stata quella di rendere più chiara la metafora della casa di Demo e più comprensibile la figura dei cavalieri. Questa è stata una sfida, perché i cavalieri danno il titolo alla commedia, ma non sono un elemento immediato.

E come ha affrontato questa sfida?

Ho cercato di uscire dalla metafora della casa e creare un’analogia con la poli-tica di oggi: i cavalieri sono una sorta di Parlamento, dove il Corifeo è assimila-bile al presidente della Camera, rispettato da tutti gli altri politici che ne fanno il loro portavoce. A questo punto il ruolo di Demo è quello di Presidente della Repubblica. Paflagone è il Primo Ministro. Non volevo però essere didasca-lico, quindi non ho aggiunto testo per spiegare i ruoli. Ho cercato di renderli chiari attraverso l’azione teatrale. In questo ha giocato un ruolo fondamentale la capacità degli attori di caratterizzare i loro personaggi. Per il resto ho evi-tato citazioni dirette di personaggi contemporanei. Il testo doveva rimanere classico in senso profondo.

A Siracusa si ha la possibilità di lavorare con un apparato coreutico ben struttura-to. Questo lascia liberi di sperimentare e divertirsi con il coro, elemento essenziale del dramma antico, spesso sacrificato in altri contesti per ragioni pratiche.

A Siracusa il coro ritrova tutta la sua dignità. È emozionante e assieme com-plesso avere tanta libertà d’azione. Ho voluto agire per sottolinearne l’impor-tanza, mettendo in evidenza il fatto che il coro è il motore della vicenda. In fondo, il coro è la drammatizzazione della polis. Ed è proprio la polis ad andare in scena nelle commedie di Aristofane. Per questo, ho lavorato per cercare di rendere il coro un personaggio, non un elemento di contorno. Ne ho esa-sperato la presenza fisica, con costumi e maschere abnormi e stranianti. Le maschere sono state realizzate tramite collage eterogenei: visi reali uniti a dipinti, citazioni da cartoni animati o dai pupi siciliani. In questo modo volevo risolvere la querelle tra antichità e modernità: né ricostruzione filologica, né attualizzazione. Era facile cadere nella tentazione di mettere in scena un coro di politici contemporanei. Invece ho ripreso quello che secondo me doveva essere il coro greco: maschera, musica e coreografia.

La commedia di Aristofane, per quanto moderna nei contenuti, presenta una struttura e caratteristiche formali precise, legate al modo di fare teatro nell’antichità. Quanto è stato necessario intervenire a livello drammaturgico su questi aspetti?

È vero, la commedia classica aveva ritmi e strutture propri. Ma nemmeno così distanti dalla nostra sensibilità. A Siracusa per tradizione viene commissionata una traduzione apposta per la messa in scena. E devo dire che la traduzione di Olimpia Imperio ha reso il testo ancora più cristallino anche a livello struttu-rale e non ho sentito la necessità di modificare molto. Dal punto di vista dram-maturgico l’unico grande cambiamento è stato sulla parabasi. Ho deciso di metterla alla fine, come epilogo, e farla dire a Demo. Messa a metà dell’opera avrebbe perso valore, finendo per essere recepita come un intermezzo, una pausa per riposarsi. Dall’altro lato avrebbe spezzato la continuità della trama. La parabasi nell’antichità era fondamentale, rappresentava il momento in cui il coro si smascherava e metteva a punto la sua missione politica. Trasforman-dola in epilogo ho voluto renderla la punta di diamante: gli spettatori arrivano fino alla fine della storia e vengono invitati a trarne le conclusioni, al di là del riso liberatorio. L’ho riadattata con qualche taglio, per evitare che fosse solo una citazione storica. Volevo che fosse davvero l’autore dello spettacolo a par-lare, non un Aristofane da museo, ma Aristofane redivivo. Infine ho affidato a

Demo il compito di pronunciare questa parabasi-epilogo, per rendere piena-mente la sua trasformazione finale. Dopo la vittoria del Salsicciaio e il ringio-vanimento, Demo rimane solo in scena e ritorna ad essere il protagonista. Tira le fila della sua stessa storia, parlando a nome del suo autore.

E per quanto riguarda la differenza di ritmo, lingua e stile che distingueva le parti corali da quelle recitate?

Ho reso queste differenze di registro attraverso l’uso della musica. Roy Paci, il corifeo, ha un ruolo fondamentale: sottolineare i cambi di ritmo con la musica. Così da un lato si creavano situazioni di divertissement, dall’altro si è cercato di riproporre la varietà stilistica della commedia antica attraverso la varietà musicale.

In queste ultime due edizioni l’Inda ha sperimentato un allestimento più “pop” delle commedie, portando a Siracusa un cast composto da comici di professione e popolari. Nel 2017 le Rane avevano come protagonisti Ficarra e Picone, l’anno successivo nel cartellone dei Cavalieri si leggono i nomi di Francesco Pannofino, Gigio Alberti, Antonio Catania, Roy Paci.

In un ciclo di rappresentazioni fatto di due tragedie e una commedia si pre-sentava il problema del richiamo di pubblico. Le tragedie riuscivano ad attira-re l’attenzione senza bisogno di grande pubblicità. La commedia rischiava di passare in secondo piano, di essere considerata uno spettacolo di serie B. E il teatro di rimanere vuoto. Dopo secoli di fortuna della tragedia greca, è neces-sario restituire anche alla commedia la sua dignità nella storia del teatro. Se per la tragedia il solo titolo bastava a richiamare un gran numero di spettatori, per la commedia l’Inda ha deciso di puntare sulla fama degli interpreti. E ha funzionato, stando ai risultati di queste due edizioni. In fondo una commedia deve prima di tutto far ridere: affidarla ad attori che conoscono i tempi comici è fondamentale. Per quanto riguarda il cast dei Cavalieri, Pannofino è un Sal-sicciaio naturale per via della voce e del modo di muoversi. Sa usare in maniera molto raffinata una volgarità che solo lui può raccontare. Alberti come Pafla-gone ha fatto invece un lavoro sulla maschera del millantatore. I due assieme creavano un conflitto naturale. Con una compagnia così ho potuto concedere degli spazi all’improvvisazione, anche se soltanto a Demo. L’improvvisazione è la linfa vitale del teatro comico e sicuramente in quello di Aristofane aveva ampissimo spazio. Oggi, quando mettiamo in scena uno spettacolo classico, non possiamo eccedere, perché ne andrebbe del testo e del senso dell’intera

rappresentazione. Ma non bisogna nemmeno essere troppo rigidi, altrimenti si perde lo spirito della commedia.

La trama dei Cavalieri è riassumibile nello scontro tra il capo politico in carica, Paflagone, e l’aspirante sostituto, il Salsicciaio. I due si contendono la palma della vittoria con ogni mezzuccio, nel tentativo di adulare Demo, controfigura del popolo ateniese. Il nucleo della commedia è quindi la satira del populismo come degenera-zione della democrazia. Quale insegnamento lascia Aristofane alla satira di oggi?

Aristofane è l’inventore della satira. L’ho sentito molto vicino al mio modo di intendere la satira. Il mascheramento e i bozzetti che costruisce sono la vera forza della sua commedia. La trama delle sue opere si sviluppa a partire da una metafora che maschera continuamente il messaggio attraverso altro: qui sta la raffinatezza. Però questo modo di fare satira non è stato granché recepito. Quello che odio della satira di oggi è il mascheramento palese senza stilizza-zione. Quella è imitazione, non satira. E non porta a riflettere sui contenuti, perché ne è vuota.

Come ogni commedia per essere definita tale, i Cavalieri hanno un lieto fine: Paflagone viene cacciato e Demo torna all’antico splendore. Eppure due ombre negative gravano su questa conclusione: una è il discorso di Demo, che rivela al pubblico il suo doppio gioco, l’altra è il Salsicciaio stesso, che trionfa sull’antagoni-sta dimostrandosi peggio di lui. In conclusione, il finale della commedia è negativo o positivo?

Né l’una né l’altra, è realistico. Di un realismo atroce. Riporta agli occhi un concetto che ben conosciamo: cambiare tutto per non cambiare niente. Ari-stofane non dà un giudizio di valore, si limita a svelare il meccanismo politico, ovvero il gioco della finzione, dell’assecondare mentendo. Ecco quindi che Demo ringiovanisce nel finale ma solo per tornare vecchio alla rappresenta-zione successiva. E così il nostro demo, la nostra storia, la nostra democrazia.

Seconda

Seconda

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Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 129-137)