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di Elena Gipponi

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 177-181)

Nei due film gemelli Lui è tornato (Er ist wieder da, David Wnendt, 2015) e Io

sono tornato (Luca Miniero, 2018), il prodigioso e inspiegabile ritorno in vita e

in attività — rispettivamente, nella Germania del 2014 e nell’Italia del 2018 — dei due dittatori più celebri del secolo scorso, sembra nelle scene d’apertura soprattutto il pretesto per innescare il tipico meccanismo di straniamento e di relativizzazione dello sguardo. Come nelle Lettere persiane o, per rimanere più vicini al nostro paese e al nostro cinema, in Un marziano a Roma di Ennio Flaiano, Adolf Hitler e Benito Mussolini (interpretato da Massimo Popolizio) si aggirano per le strade, appunto, come degli stranieri venuti da lontanissimo, forse addirittura da un altro pianeta, come sembrerebbero far ipotizzare le riprese aeree, altissime tra le nuvole, con cui entrambi i film si aprono. La di-stanza storica apparentemente siderale da cui provengono i protagonisti con-sente infatti loro di guardare con occhi nuovi e vergini il precon-sente e di svelar-ne così alcusvelar-ne manie, ad esempio l’ossessiosvelar-ne gastronomica, evidentemente condivisa da tedeschi e italiani, che ha portato a un’occupazione in forze dei palinsesti televisivi da parte di cuochi e programmi di cucina.

Proprio la lontananza nel tempo, tuttavia, diventa nel finale un alibi. A soste-nerlo sono i due personaggi femminili omonimi e quasi del tutto sovrapponi-bili, Katja/Katia Bellini, caporedattrici dell’emittente televisiva privata MyTv e responsabili del dilagante successo mediatico di Hitler/Mussolini, che, cre-duto uno stravagante comico che non esce mai dal suo ruolo, è divenuto nel

frattempo un divo del piccolo schermo. Interrogate polemicamente in merito all’immoralità insita in quella che di fatto è un’operazione di sdoganamento del nazismo/fascismo («La gente lo ama perché è d’accordo con quello che dice, non perché fa ridere!», protesta una delle poche voci fuori dal coro), le due Bellini forniscono praticamente la stessa risposta: «È da più di settant’anni che rielaboriamo quello che è accaduto! I ragazzi a scuola non ne possono più di studiare il Terzo Reich...», minimizza la tedesca Katja, cui fa eco la Katia italiana (Stefania Rocca), che liquida la questione con un lapidario: «Parlare di fascismo dopo più di settant’anni è fuori moda».

In realtà, i due film, e ancor prima il romanzo Lui è tornato (2012) di Timur Vermes da cui le due sceneggiature sono tratte, intendono dimostrare la pre-occupante continuità con quel passato solo a prima vista remoto. Dopo lo smarrimento iniziale, infatti, sia Hitler sia Mussolini ricostruiscono grazie a una lettura compulsiva di settimanali e quotidiani le principali coordinate della contemporaneità e della cronaca politica. Decisi a riprendere il loro delirante progetto politico da dove l’avevano interrotto, intraprendono un viaggio on

the road in lungo e in largo per i rispettivi territori nazionali, da Berlino ad

Amburgo, dalla Baviera all’isola di Sylt, e, per l’Italia, dal quartiere romano Esquilino al mercato centrale di Firenze, da piazza Gae Aulenti a Milano ai Quartieri Spagnoli di Napoli. L’obiettivo del viaggio è incontrare il popolo, in-terpellarlo, invitarlo a esprimersi al fine di sondarne gli umori e i valori. Quella dei due redivivi dittatori è un’indagine sul campo, un’operazione di ascol-to finalizzata al raggiungimenascol-to di una conoscenza profonda dei tedeschi e degli italiani, dei loro sogni e bisogni (consci e non), preliminare alla ricon-quista del loro consenso politico. E le dichiarazioni che raccolgono sono un catalogo di qualunquismi e di falsi sillogismi che vanno dal «Non voto, tanto non cambia mai niente» al «È tutto un magna magna», dal «L’italiano non ha voglia di lavorare» all’immagine degli immigrati col telefonino e la tuta Nike, fino all’auspicio di ricostruire i lager... Il Führer e il Duce scoprono così che i rispettivi paesi non sono poi tanto cambiati, ma che anzi, sotto la superficie iper-tecnologizzata del presente, covano in realtà la stessa apatia politica e lo stesso senso di impotenza e insicurezza che i dittatori avevano saputo cavalcare negli anni ’20 e ’30 del Novecento. Tutto sommato — riconosce Hitler — se il popolo è uno strumento musicale, anche quello del Duemila è piuttosto semplice “da suonare”.

L’effetto grottesco di questo sondaggio è tra l’altro amplificato dall’evidente “verità” del girato: le interviste non sono rilasciate da attori, ma da veri italiani e tedeschi che hanno acconsentito a esprimere, davanti a una videocamera, la propria opinione sulla classe politica e su alcuni temi caldi del dibattito

pubblico, cosicché il film di finzione, che contiene un mockumentary (un finto documentario), finisce con l’ibridarsi con il documentario tout court.

Se Hitler e Mussolini sono i mattatori indiscussi dei due film, a fare loro da spalla comica è proprio il regista del finto/vero documentario, il lunare Fabian Sawatzki in Lui è tornato e il più cialtronesco Andrea Canaletti (Frank Matano,

youtuber, poi attore e volto televisivo) in Sono tornato, i quali decidono di

im-barcarsi in questa impresa se non proprio per vincere il festival del cinema di Berlino almeno per poter riavere il posto di lavoro presso la redazione di MyTv. Riusciranno nell’intento solo se il materiale che filmeranno sarà giudicato va-lido dai loro superiori. Sembra la trama di un celebre film di Buster Keaton del 1928, The Cameraman, che dietro le gag e la comicità slapstick, sviluppa anche una raffinata riflessione teorica sul cinema e sui possibili usi delle immagini in movimento. In effetti, anche i due film qui analizzati fanno delle immagini e dei media (quelli di massa — stampa, TV, cinema, perfino l’editoria letteraria nel film tedesco — e quelli “sociali”) un autentico terzo protagonista, l’impre-scindibile soggetto che, appunto, media, mette in comunicazione e in con-nessione il popolo con il suo aspirante leader. È questo infatti il nuovo terreno dello scontro politico: come nota acutamente il Duce di Popolizio, nella fucina creativa di MyTv si parla il linguaggio della guerra (impero TV, formazione, strategia, allineamento...) e si combattono battaglie a colpi di share, di “per-centuali d’ascolto”, come autarchicamente preferirebbe definirle Mussolini. Se da un lato la lingua italiana è sempre più ibridata con altre lingue, soprat-tutto l’inglese, gli italiani sembrano d’altro canto aver dimenticato, insieme al congiuntivo, il significato letterale e ben poco equivocabile di alcuni termini fondamentali, quale quello di “dittatura”: uno degli intervistati si dichiara fa-vorevole a una «dittatura libera, una dittatura non troppo dittatura, massimo due partiti!», e ritroviamo uno scambio analogo in Lui è tornato a proposito dell’interpretazione del termine — nientemeno — “democrazia” proposta da Hitler, una democrazia in cui «è uno solo a decidere».

In un mondo in cui tutto sembra essere diventato relativo, interpretabile, in un paese (Germania o Italia non fa molta differenza) che sembra aver perso la memoria, le uniche a ricordare gli orrori della Storia sono, eloquentemente, due vecchiette dementi di origine ebraica che subirono le persecuzioni raz-ziali messe in atto dai due dittatori. Nonostante l’Alzheimer, a loro basta uno sguardo per riconoscere con assoluta certezza nei due figuri in divisa che si ritrovano in casa i veri Hitler e Mussolini e per cacciarli senza la minima esi-tazione. Di lì a poco, invece, nell’agone mediatico si celebrerà la loro riabilita-zione, che nel film di Miniero prende perfino la forma di un perdono pubblico e collettivo organizzato secondo i canoni della TV verità. L’atto gravissimo e

insostenibile che il popolo (e l’audience) italiano alla fine perdona al Duce non è una delle tante azioni criminali perpetrate durante il ventennio fascista, ma l’uccisione di un cagnolino con un colpo di pistola, avvenuta qualche tempo prima apparentemente senza conseguenze.

I due film, attraverso il registro della commedia e della satira, mettono insom-ma in scena il fondato rischio che nuove forme autoritarie di potere ritornino dal passato e trovino nella xenofoba confusione politica di oggi un terreno fertile per attecchire di nuovo, per rimanere. Entrambi i film, non a caso, si concludono con una sorta di parata, una successione di camera car, di riprese effettuate da un’automobile in movimento da cui Hitler e Mussolini salutano festanti la popolazione plaudente. Non è più il punto di vista aereo, esterno, lontano, dell’apertura del film, ma una visione da terra, del tutto interna e vicina al mondo che è stato messo in scena. Una scelta che ci dice anche con i mezzi del linguaggio cinematografico che “loro” non sono altrove, ma qui in mezzo a noi, che sono parte di noi.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 177-181)